Dell’apporto che Steve Albini ha saputo dare alla musica pesante di ogni tempo non occorre certo che arrivi io a ricordarlo. Così come pure il personaggio-stevealbini abbiamo tutti quanti imparato a conoscerlo a fondo nel corso degli anni: un cinico idealista, individualista fino allo stremo, eccellente quanto controverso oratore anti-tutto (celebri le sue dichiarazioni a 360°, di volta in volta razziste, fasciste, sessiste, antisemite, misogine e chi più ne ha più ne metta: qualunque argomento “scomodo” vi possa venire in mente, lui l’ha trattato – ovviamente dal punto di vista più sgradevole e impopolare al proposito). Fondamentalmente uno di quegli stronzi di cui c’è bisogno, una voce fuori dal coro armata di una dialettica feroce e scontrosa ma anche lucidissima e puntuale che è puro cibo per la mente comunque la si pensi, non importa essere d’accordo con lui o meno. Il problema è che, negli ultimissimi tempi, tanto la sua loquela quanto la gestione della cosa Shellac sembrano perdere terreno: da un lato lui che improvvisamente rompe il silenzio-stampa per rilasciare un’intervista a GQ dove smerda i Sonic Youth per essersi venduti alle major negli anni ottanta, che tirato fuori adesso è il discorso più ridicolo e anacronistico che si possa immaginare (ogni divisione tra major affariste e cattive e indipendenti pure e sante è andata definitivamente a cadere dal momento in cui tutti hanno cominciato a scaricare tutto da Internet, e almeno questo è uno dei pochissimi aspetti positivi ricavati dall’avvento del downloading illegale), dall’altro un gruppo che è stato capace di mantenere inalterato negli anni un profilo artistico, attitudinale e umano di diverse tacche sopra la media mondiale, sia rapportato al resto della musica che alle precedenti incarnazioni di Albini nella forma ora di Big Black ora di Rapeman, che per la prima volta da quando ho memoria suona come la caricatura di sè stesso. E badate bene che queste considerazioni arrivano da uno che, quando è uscito Terraform e tutti ne dicevano peste e corna blaterando cazzate a proposito di “gruppo bollito” e simili facezie, gli Shellac andava a vederli al Link alla facciaccia di quei poveri coglioni; nel 1998 gli Shellac erano l’esempio perfetto di gruppo non allineato, giusto non spiccavano come avrebbero dovuto perchè ce n’erano ancora tanti, di gruppi non allineati, e che cazzo!, c’erano ancora i Fugazi. Lo erano con 1000 Hurts, e hanno continuato a esserlo per tutto lo scorso decennio, attraversato da sporadiche e capillari tournee senza un disco fuori e celebrato, nel 2008, con un nuovo album, Excellent Italian Greyhound (dedicato al cane di Todd Trainer), ancora molto buono e splendidamente uguale a sè stesso nonostante un pezzo, The End of Radio, troppo bolso, autoindulgente e autoreferenziale nonchè decisamente fiaccacoglioni, che rivisto adesso assume nuovi e inquietanti significati.
Oggi probabilmente gli stessi che Terraform è un album minore starebbero nelle prime file a pogare come ragazzini con un sorriso a 32 denti stampato sulla faccia. Ci sono anche io, in mezzo al pogo, attività che avevo smesso di praticare da circa una decina d’anni; mi ci fiondo non appena parte il riff di My Black Ass (secondo pezzo in scaletta) e lì rimango per circa metà concerto, comunque fino a quando mi rendo conto che questa sera non faranno mai Il Porno Star. Ma rispetto alle altre volte c’è una novità: da un certo momento in poi comincio a rompermi i coglioni. Sarà che è venerdì sera e sono stanco, sarà che sono a digiuno da circa sedici ore, sarà che la prima volta che li ho visti non ero ancora maggiorenne e già facevano le stesse identiche gag dalla prima all’ultima, repertorio completo, “sono un aeroplano“, pose stupide a ralenti, Bob Weston che chiede al pubblico di fargli delle domande, eccetera. Niente che non vada in sè, sia chiaro: loro sono una macchina da guerra capace di dare le piste a qualsiasi band di giovinastri snelli e puliti e con il look giusto (quale che sia il significato che vogliate attribuire a quest’ultima affermazione), presi singolarmente sono autentiche eminenze del rispettivo strumento senza fartelo pesare come invece farebbe un Vinnie Colaiuta qualsiasi, Todd Trainer perde i soliti ettolitri di sudore e la chitarra di Albini suona ancora urticante e tagliente e sgradevole come nessun’altra. Eppure da qualche parte dentro di me persiste la sgradevole sensazione di trovarsi di fronte a poco più di un karaoke per introdotti. Che, in fondo, la differenza tra questo e un concerto degli Asia sia soltanto che qui non ci sono tastiere grosse come un tinello. Per il resto lo spirito è lo stesso, ovvero rievocare un periodo lontano nel tempo in cui l’erba era verde e si dormiva con la porta aperta ed eravamo tutti quanti più giovani, sani e felici, e ognuno ha la sua età dell’oro con relativo sottofondo da rievocare, c’è chi la ricollega a John Wetton e chi a Steve Albini e in sè non c’è nulla di male, è la natura delle cose, però che tristezza. Non so come, nello spazio di una sola esibizione (peraltro molto generosa rispetto agli standard del gruppo, oltre un’ora e mezza di concerto) gli Shellac sono passati da avanguardia pura contro tutto e tutti a tristo lunapark da karaoke dell’umano per collezionisti seriali di concertoni, gli stessi che il mese scorso probabilmente erano agli Arcade Fire e che, in un imprecisato futuro, andranno a vedere per l’ennesima volta il Boss. Forse esagero e spero di sbagliarmi, ma a ‘sto giro mi sa che era meglio se lasciavo perdere e mi tenevo i ricordi.
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