La lunga estate da poco trascorsa ci aveva fatto temere un progressivo inaridimento della vena creativa di Trucebaldazzi, dopo il repentino exploit sul suo myspace (quattro pezzi – Scuola violenta, La mia ex ragazza, Vendetta vera, Troppo odio – che tuttora dicono di una visione unica e inimitabile, già imitatissima, tanto da poter venire idealmente circoscritti in un ipotetico Tucebaldazzi EP che è un po’ come il first album dei Suicide); probabilmente frastornato da una sovraesposizione francamente inaspettata (migliaia di contatti quotidiani), che rischiava di inghiottirlo anzitempo rendendolo indistinguibile da un qualsiasi zimbello dell’era youtube (dal grassone che balla la Numa Numa dance agli agghiaccianti deliri ombelicali di Gemma del Sud, scegliete voi l’impiastro che preferite), “The King” andava dissipando il proprio talento tra frettolosi bozzetti rilasciati a getto continuo (La mia ex ragazza pt. II, il già citato Contro la scuola, poco meno che tristi autocitazioni) e patetici featuring con personaggi impresentabili di cui ora, fortunatamente, non rimane traccia. In un sussulto di dignità – o di autocoscienza – infatti Baldazzi il mese scorso ha cancellato dal suo canale youtube quasi tutti i (magri) frutti di un’estate di superlavoro: bene così, tabula rasa, le merde fuori di qui, riconsegnate al loro destino di merde. Rimangono un solo featuring, certamente l’unico degno di nota – Odio la scuola, assieme a tale Punk MC in flow assassino di Dnepropetrovsk proporzioni – e un pezzo, La vita è proprio una merda (trainato dall’ipnotico refrain a incastro La vita è una merda/ Fanculo la vita di merda), finalmente di nuovo al livello delle vecchie meraviglie. Ma la vera novità è il videoclip di Vendetta vera, per la regia di Amerigo, caricato venerdì scorso e già forte di circa quattordicimila visualizzazioni nell’arco di appena 48 ore: girato in un rigoroso bianco e nero e ambientato in locations desolate e degradanti in puro Ciprì e Maresco style, il video documenta un gangsta Trucebaldazzi in assetto battagliero (stranamente senza collana con le lamette) con tanto di finale al cardiopalmo che manco Robert Ludlum. Ed è emozione vera, scandagliando tra i commenti, trovarne anche uno (favorevole) di Speaker Dee Mo. Ovvero quando la vecchia scuola omaggia la nuova, ufficializzando il passaggio di consegne tramite un pubblico attestato di stima che è come se Robert Johnson avesse stretto la mano a Keith Richards ai tempi. Questione di stile.
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Rozzemilia issue #4: TRUCEBALDAZZI
Matteo “The King” Baldazzi da Pianoro, classe 1990, è il fan numero uno del Truceklan. Noyz Narcos, Duke Montana, Chicoria, Gel, Metal Carter, eccetera. Li segue dappertutto, in tutta Italia; a ogni concerto, a ogni jam è sempre in prima fila a scapocciare e alzare le cornina al cielo, t-shirt del Ministero dell’Inferno e collana con le lamette costantemente in vista, che esibisce con orgoglio. Nel giugno scorso ha diramato, prima tramite YouTube poi sul suo myspace ufficiale, una serie di pezzi che sono autentici gioielli di incredibly strange music, roba che se esistesse un Songs in the Key of Z italiano lui sarebbe tra i primi della lista: basi prese di peso da altre canzoni – preferibilmente del repertorio Truceklan/Malestremo – lasciate completamente inalterate e messe a girare in rudimentali loop, voce in ipersaturazione registrata con un microfono da due soldi (da quattro era già troppo), “strofe” e “ritornello” che si alternano seguendo disegni bislacchi quanto imperscrutabili, durata totale sempre inferiore ai due minuti. A ergersi sopra ogni cosa i perturbanti strali dell’incontenibile Baldazzi, costantemente fuori tempo, testi portatori e generatori di disagio vero. E, soprattutto, universali: “Io c’ho troppo odio/ Io c’ho troppo odio/ Contro gli insegnanti“. Chi non ha mai provato, nemmeno una volta nel corso dei propri studi (quali che fossero), questa sensazione (a parte secchioni e lunatici solipsisti del cazzo, gente di cui comunque è sempre meglio diffidare)? Oppure: “Da quando la mia ex mi ha lasciato/ Ho pensato di non cercarmi una ragazza/ Voglio farmi delle troie/ Non me ne fotte un cazzo dell’amore/ E del sentimento/ Voglio fare tutto a pagamento“, che è né più né meno un concentrato di odio cieco tutto di stomaco, quello stesso puro odio viscerale che soltanto i Black Flag sono riusciti a intrappolare così bene in ogni canzone (loro poi avevano anche la chitarra di Greg Ginn, ma questo è un altro discorso). Inutile rilevare quanto, nel giro di pochissimi giorni, i brani si siano diffusi a macchia d’olio e Trucebaldazzi sia diventato il nuovo fenomeno da baraccone del web italiano; era la logica conseguenza. L’hanno paragonato a Spitty Cash, ma l’accostamento è del tutto improprio: mentre quest’ultimo è un povero coglione che ha usato un paio di pezzi artatamente scrausi (il più “famoso” probabilmente è Difficoltà nel ghetto) per portare pubblicità ghignante e gratuita alla sua persona e al suo fiacchissimo “vero” hiphop di nullo interesse, Trucebaldazzi in quello che fa è assolutamente spontaneo, ci crede sul serio, non ha alternative e la sua genuinità emerge in modo anche disarmante (è commovente quando dice: “L’amicizia vera è con Chicoria Truceklan Malestremo/ Siamo come dei fratelli“). Precedenti illustri vanno piuttosto cercati in pilastri dell’outsider music quali Costes (per la qualità di registrazione e la ripetitività senza speranza dei testi) o il povero Wesley Willis (per la struttura dei pezzi e la totale autarchia produttiva), modelli a cui Baldazzi si rifà in modo sicuramente inconsapevole.
Negli ultimi giorni sono spuntati fuori due nuovi brani, purtroppo nettamente inferiori alle meraviglie precedenti; il primo, Contro la Scuola, non è altro che una rielaborazione condensata delle già note Scuola Violenta e Troppo Odio (di cui ripropone, immutate, alcune frasi), l’ennesima declinazione di un esercizio (professare il proprio odio verso gli insegnanti) che, senza l’aggiunta di elementi nuovi, inizia preoccupantemente a diventare maniera. Il secondo pezzo è anche il più problematico: Disagio Negativo, un featuring di quattro minuti con due ignoti burloni spuntati fuori dal mare magnum degli inetti wannabe-star di YouTube, aggregatisi al Nostro per ragioni che non esitiamo a qualificare come bieco opportunismo. Il consiglio che ci sentiamo di dare a Trucebaldazzi è di scrollarsi immediatamente di dosso feccia del cazzo di tal risma e tirare dritto per la sua strada con le sue sole gambe, perché lui ha una visione, e l’ultima cosa di cui ha bisogno è l’arrivo di qualche cialtrone a contaminarla. Nessuno tocchi Trucebaldazzi.
Tanto se ribeccamo: AUTOPSY
L’avevamo anticipato e qui lo ribadiamo: gli Autopsy si sono riformati. Di per sé non è una novità, loro erano già tornati insieme nel 2008 per incidere un paio di bonus tracks da includere nella ristampa del primo album, poi l’estate successiva, proprio in occasione del ventennale di Severed Survival, l’annuncio di uno show da headliner all’interno del Maryland Deathfest 2010; il fatto è che, con un coup de théâtre da consumati illusionisti, Chris Reifert e Danny Coralles hanno sciolto gli Abscess lo stesso giorno in cui hanno dichiarato “permanente” la reunion degli Autopsy. Roba da solleticare la fantasia di un John Grisham – o, al limite, di un Robert Ludlum – gente che da queste vicende avrebbe tirato fuori paperback coi controcoglioni zeppi di deliranti teorie cospirazioniste e intrighi complicatissimi da tenere incollati alla poltrona fino all’ultima pagina. Ma la realtà, come sempre, è molto meno eccitante, più triste e in un certo modo anche più squallida alla resa dei conti: dopo sedici anni di irreprensibile carriera, consumatasi sempre e comunque nell’underground totale, il chitarrista degli Abscess Clint Bower getta la spugna (il comunicato stampa parla di “motivi personali”, come si scriveva nelle giustificazioni quando si marinava la scuola). Come i Nirvana senza Kurt Cobain, il gruppo decide che “non sarebbe giusto continuare senza di lui“. Parallelamente Reifert e Coralles, dopo altrettanti anni di grandi dischi rilasciati nell’indifferenza generale, decidono che è arrivato il momento di passare alla cassa, magari istigati da questa dichiarazione di Dan Lilker (erroneamente attribuita a Coralles sulla pagina wikipedia della band) che, a parte la prima frase, non dice altro che la pura verità:
I can tell you there will never be an Autopsy reunion. Chris feels that nobody gave a fuck about Autopsy when they were together, but right after they disbanded, all he was ever asked about was Autopsy when he was trying to shelve it and get people to check out Abscess. And I agree that Abscess is very underrated. If those guys (Abscess) did their next record and called it an Autopsy release, without changing anything, it would sell shitloads just because of the “classic underground band” stigma attached to Autopsy. That’s what I think anyway, some might disagree.
Dunque, è arrivato il momento per Chris Reifert di provare a cavare fuori qualcosa di più che una cacca di mosca da, beh, più o meno venticinque anni di sangue, sudore e lacrime amare. Ricordiamo che Reifert ha fatto parte di una delle prime incarnazioni dei Death, suonando la batteria nel seminale Scream Bloody Gore; che con i demo e il primo album degli Autopsy ha praticamente creato un certo modo di intendere il death metal in America e influenzato irreversibilmente l’intera corrente death svedese; che Mental Funeral e Acts of the Unspeakable rimangono ancora oggi due pietre angolari dell’intera storia del genere oltre che due insuperabili capolavori di estremismo e ferocia tuttora ineguagliati; e che pure Shitfun, che come disco non è un gran che – poco più di una prova generale di quel che sarebbero diventati gli Abscess – era comunque alieno e avanti sui tempi (su quel modello gli Impaled Nazarene da Latex Cult in poi ci hanno costruito una carriera) quel tanto che bastava per non essere compreso e procurare al gruppo nient’altro che pescioni in faccia. Alla luce di tutto questo, che reunion accontentaidioti sia. Se andrà bene, tutto quel che ha previsto Dan Lilker si avvererà, ed è triste e squallido ma anche, per una volta, profondamente giusto e dovuto. Scopa una puttana carina anche per me, Chris (come dissero i Pestilence nella thanklist di Consuming Impulse).
Gruppi con nomi stupidi: AN AUTUMN FOR CRIPPLED CHILDREN
Campioni di buon gusto: il loro nome tradotto suona più o meno come “Un autunno per bambini azzoppati“, e l’artwork di lancio dell’esordio Lost è tutto un tripudio di carrozzelle disseminate in androni malmessi che ricordano l’inizio di Session 9 e foto di bimbi tumefatti da mandare in fregola preti sadici. Loro sono olandesi e si nascondono dietro foto sfocate sile primi In The Woods e sigle da codice fiscale: txt al basso, cxc alla batteria e l’eclettico mxm ad occuparsi di voce, chitarra e tastiere. Sul loro myspace han messo metà album, tre tracce più il naturalistico video di I beg thee not to spare me che raccontano di un depressive black metal con innesti doom sulla scia degli ottimi Austere ma con registrazione ignobile. Gli ingredienti sono gli stessi: chitarre zanzarose o languide a seconda dei momenti, urlacci da gemello deforme rinchiuso in cantina, tupa-tupa-tupa-tupa di batteria che pare provenire da una catacomba, su tutto un senso di malinconia avvolgente e contagioso, malinconia che diresti autentica. Poi dai uno sguardo ai titoli delle canzoni – To Set Sails to the Ends of the Earth, Tragedy Bleeds All Over the Lost, In Moonlight Blood is Black, financo Gaping Void of Silence e per chiudere addirittura Never Shall Be Again – e cominci a chiederti se ci sono o ci fanno. Nel dubbio, aspettiamo di vederli suonare come special guest alle Paralimpiadi.
Melvins @ Estragon, Bologna (1/12/2009)
(foto di Kekko)
La ragione per cui i Melvins sono ancora qui mentre tutti i loro compagni di strada prima o poi hanno mollato è che la loro visione è più forte di tutto. Più forte del tempo, che passa per tutti ma evidentemente non per la loro musica, sempre sgradevole e sbilenca e opprimente, sempre meravigliosamente ottundente e pervicacemente uguale a sé stessa. Più forte della vita, con tutti i suoi scomodi ostacoli che vanno dalla fame agli stenti alle bollette da pagare alla droga ai mille bassisti che vanno e vengono all’invecchiamento precoce al bisogno intrinseco di trovarsi un lavoro dignitoso. Più forte perfino dei Melvins stessi, che pure ci hanno provato a domarla, ad addomesticarla a uso e consumo di major, network tv e platee avide di marionette cenciose da spremere fino all’ultimo brandello di umanità nei favolosi anni novanta: dischi per Atlantic, videoclip e improvvise manie di grandezza dello scriteriato Joe Preston (d’un tratto convintosi di essere diventato una rockstar) non hanno intaccato l’inossidabile attitudine respingente, molesta e anti-umana che da sempre è il motore del gruppo. Brutti come la fame, pesanti come un macigno da dieci tonnellate rivestito di cemento armato, lenti e implacabili come la morte in un ospizio, i Melvins hanno attraversato indenni oltre un quarto di secolo di storia della musica pesante, creando scene, lambendone di striscio altre, comunque tracciando un segno indelebile in discipline tra le più diverse e disparate tra cui (almeno) metal, noise, doom, ambient, stoner, sludge e ovviamente “grunge”. Continuano a incidere dischi di cui non frega un cazzo a nessuno (a parte il solito nugolo di irriducibili più dissociati di loro) e a portare i loro grugni inguardabili e i loro temibili ventri da birra a spasso per il mondo a una media di un disco-tour all’anno, inarrestabili come un carrarmato pilotato da un mongoloide. Probabilmente soltanto la morte li fermerà. Quella di stasera è soltanto l’ennesima tappa del viaggio. Sul palco iniziano in due; sembra di vedere (e sentire) due spastici al saggio di fine anno. King Buzzo è bruttissimo. Voglio dire, più del solito. Chiunque ha accostato fino alla nausea la sua improponibile zazzera a due modelli: Robert Smith e Telespalla Bob, ma la verità è che lui somiglia piuttosto a una gattara totalmente andata di cervello, una di quelle vecchie svalvolate senza denti che vedi aggirarsi nei rioni blaterando cazzate a caso. Indossa una vestaglia nera con un grosso pentacolo cucito all’altezza delle gambe e probabilmente nella sua mente questa è una trovata simpatica. Il colpo d’occhio provoca il vomito. Dale Crover, da par suo, tracima tessuto adiposo da ogni piega di una maglietta troppo stretta, sbuffa e ansima e sfoggia con strafottenza un quadruplo mento da camionista baffuto da far sembrare marmoreo un budino créme caramel dentro la lavatrice. Ma è quando si aggiungono i nuovi innesti, il bassista-cantante Jared Warren e il secondo batterista Coady Willis, che la serata entra nel vivo. Lo show è diviso in due set dalla durata quasi identica (entrambi attorno ai tre quarti d’ora), il primo incentrato sulle cose più recenti, il secondo sui vecchi classici; i volumi sono impressionanti, il suono di chitarra qualcosa di difficile da immaginare, figuriamoci da sentire: magmatico, ribollente, schiumante, il suono di una fossa di liquami tossici dotati di vita propria. L’incedere delle batterie un meccanismo infernale che ridefinisce il concetto stesso di “metronomico”. L’aria si fa pesante, il pavimento trema: è come se il terreno si preparasse da un momento all’altro a spalancarsi in una voragine senza fondo né scopo. Sembra di assistere a un rituale pagano di cui soltanto gli officianti conoscono le regole; la sensazione, incancellabile, è di qualcosa di pericoloso, tenebrosamente imponente, malsano, qualcosa di profondamente sbagliato che si insinua inesorabile fin dentro alle ossa, a cui è del tutto inutile opporre resistenza. Come rimanere, ammaliati, immobilizzati, a contemplare l’abisso. Quando l’ultima nota si dissolve nell’aria è come se una mano invisibile avesse allentato la stretta alla nostra gola. Concerto dell’anno, se non fossimo sul pianeta Terra ma in qualche universo parallelo lovecraftiano, agghiacciante a partire dal nome, tipo R’lyeh. Terminale.
P.S.: l’inizio del concerto tre quarti d’ora prima dell’orario indicato ci ha impedito di assistere alla performance dei Porn. Bestemmie a iosa.
(foto di Kekko)
James Chance & Les Contortions @ Locomotiv, Bologna (12/10/2009)
James Chance è un uomo totalmente, irreversibilmente perso nella sua visione. Come il Wenner Zerzog descritto da Bukowski in Hollywood Hollywood (libro da queste parti molto amato), probabilmente: uno capace di litigare con la moglie a colpi di pistola, tirarle addosso tutto il caricatore e sbagliare tutti i colpi, oppure andare in giro in macchina senza mettere l’acqua nel radiatore, e per questo spaccare il monoblocco. È un genio, non le sa queste cose. Era un UFO incontrollabile e ingestibile trenta anni fa, e lo è tuttora. Aveva poco senso ai tempi incasellarlo nel bollirone no wave, che anche allora era comunque qualcos’altro (probabilmente il solo a rappresentare realmente il proprio Io disperato), figuriamoci oggi che di acqua sotto i ponti ne è passata troppa e James è ancora qui, sempre uguale a sé stesso, divorato da suoi tic e dalle sue manie, svolazzante nel suo completo da cameriere di tre taglie più grande. Abbiamo avuto la fortuna di assistere, circa tre anni fa, a un concerto di James Chance, il primo in Italia dal 1981 come ci dissero i ben informati, al Clandestino di Faenza; una performance EPOCALE, impossibile da rendere a parole, capace di scuotere nel profondo e rimettere in discussione le proprie scelte di esseri umani prima ancora che di ascoltatori. Rivederlo in azione non rappresenta più una sorpresa ma il carico di aspettative è ugualmente esorbitante, sapendo a cosa si va incontro e pretendendo quindi dall’uomo non meno che l’eccellenza; verremo esauditi. Rispetto alla volta scorsa James si è ritinto i capelli, che da bianchi tornano a essere di un nero innaturale, facendogli così perdere quell’aria ancora più allucinante da incrocio semovente tra David Lynch e Beethoven; è l’unico suo vezzo per contrastare lo scorrere del tempo, per il resto è esattamente uguale a sempre: frac bianco enorme con bordi neri da orchestrale di night club, camicia bianca spiegazzata, pantaloni neri giganteschi che cadono sul davanti, scarpe scalcagnate. Entra in scena che è un fascio di nervi scoperti, pronti a sussultare alla minima sollecitazione; glielo leggi negli occhi il nervosismo, non bastassero i gesti fulminei e imperiosi con i quali detta le coordinate da seguire ai suoi (bravissimi) gregari, sempre pronti ad assecondare istantaneamente ogni cambiamento di registro, ogni strabordante improvvisazione ora di sax ora di tastiera. I piedi si muovono autonomamente rispetto al resto del corpo: sono i suoi balletti scriteriati, improponibili, schizofrenici, eppure non privi di una certa sconvolgente grazia a ipnotizzare, a rendere profondamente giusto e necessario tutto quanto. Annaspante nella temperatura da forno crematorio del Locomotiv James suda, e suda abbondantemente, e si tampona di continuo la fronte e le guance con un fazzoletto bianco di stoffa che sfila dal taschino all’occorrenza, alza lo sguardo terrorizzato verso i fari e farfuglia, dopo l’ennesimo tremito, “turn off the lights, please“, ma non rinuncia alle sue deliranti coreografie o ai suoi urli lancinanti da orangutang in calore, e mai e poi mai si libererà della giacca o della camicia dentro le quali sguazza impunemente. Dopo un’ora e venti di concerto impeccabile (cover di James Brown, obbligatoria chiusura con Contort Yourself e bis di contorno compresi) James Chance lascia il palco, fulmineo e irrevocabile così come era entrato; nemmeno l’ombra di un’interazione col pubblico, non un “grazie”, neppure uno sguardo. Troppo perso nella sua visione. Ci fossero stati due o duecentomila spettatori, fossero essi uomini donne o cani o formichieri, sarebbe stata per lui esattamente la stessa cosa. Veniamo a sapere che la sera prima a Sorrento ha perso le sue scarpe da concerto, scarpe nere di vernice da ballerino di altri tempi; per tutto il giorno è stato in preda al panico, terrorizzato,non voleva suonare. Poi chissà come è riuscito a calmarsi, pochissimo prima dello show, questione di mezze ore, è arrivato e ha fatto il concerto; il tour deve continuare, quali che siano i demoni che lo divorano dall’interno. James non mollare.
Il download illegale della settimana – Gummo OST
Gummo (1997) è uno di quei film che ridefiniscono fin dalle fondamenta il concetto di “a bella posa”, tanto programmaticamente sgradevole da suscitare tenerezza: provinciali cattivi, menomati e mentalmente bacati che vanno in giro a fare cose turche, fastidiose e comunque prive del benchè minimo significato. Non c’è trama. A un certo punto spunta fuori anche qualche gatto morto (vero). Prendete ottantasette minuti e buttateli al vento: l’effetto è quello. Il regista (si fa per dire) di questa roba è l’allora poco più che ventenne Harmony Korine, skater problematico, degno sodale alla corte di Larry Clark (sue le sceneggiature di gran parte dei misfatti del vecchio pervertito), videomaker a tempo perso nonché, ehm, idolo di Asia Argento quando ancora se la faceva con Kirk Hammett (e andava in giro a spiattellarlo ai quattro venti). Che il ragazzo fosse un po’ disadattato, realmente e al di là dei ributtanti script “controversi” sfornati su richiesta per il pessimo Clark, lo si capisce dalla colonna sonora che ha imbastito per questo suo primo exploit dietro la macchina da presa. Korine è convinto, forse a ragione, che tutti i ragazzini della suburra americana siano minorati mentali e in quanto tali si sfondino di dischi metal e video degli Abruptum dalla mattina alla sera; poco male, se tanto serve a mettere insieme una delle compilation più improponibili di sempre della storia del cinema passato, presente e futuro. Brani di Sleep, Eyehategod, Spazz, Brujeria, Bethlehem, Nifelheim, Mystifier, i temibilissimi Namanax di Bill Yurkiewicz e James Plotkin (capaci di condensare in un unico album, il magistrale Audiotronic, tutto quel che i Sunn cercano affannosamente di raggiungere da che esistono), Absu, Bathory e perfino Burzum (prima, e ad oggi unica apparizione del Conte in una qualsivoglia soundtrack), oltre a un malatissimo e fastidiosissimo intro a base di voce filtrata (probabilmente di uno degli spastici protagonisti del film) che declama terrificanti frasette nonsense in una sorta di lascivo e perverso yodeling da far ghiacciare il sangue nelle vene. Va a finire che la colonna sonora è di parecchie tacche superiore al film stesso. Di più: è ancora oggi la colonna sonora più eccitante che potessimo anche solo provare a immaginare. Pubblicata in CD nel 1998 e immediatamente finita fuori catalogo (se ne trova qualche esosissima copia usata su ebay di tanto in tanto), ha come unico difetto l’omissione di brani di Brighter Death Now, Buddy Holly e Roy Orbison, oltre che di un secondo pezzo di Burzum – la ragione probabile è che già così si sforavano abbondantemente i 78 minuti (durata massima consentita dal formato). Korine dimostrerà di saperci fare con il successivo Julien Donkey Boy (1999), girato aderendo alle regole del Dogma, ancora decisamente programmatico e gratuito ma allo stesso tempo non privo di un certo spettrale magnetismo (c’è anche Werner Herzog nella parte di un dispotico padre di famiglia – l’avreste mai detto? – completamente andato di cervello), oltre che intriso di sincero dolore e partecipe senso dell’umana pietà.