una per Keith Caputo che sta cambiando sesso.

Keith Caputo 2011

 

 

I Life Of Agony erano un luogo della mente dove mi rifugiavo ogni volta che stavo male e sapevo e sentivo che nell’immediato futuro sarebbe andata ancora peggio. Non so cosa avesse fatto scattare l’empatia (il fatto che condividessero il batterista con i Type O Negative probabilmente ha aiutato), ma quei quattro italiani bruttissimi capitanati da uno gnomo che assomigliava tanto a un galoppino mafioso preso male erano entrati nella mia vita come una coltellata nella pancia, e non ne sarebbero mai più usciti. Musicalmente erano un incrocio tra hardcore, metal, dark e sludge mai sentito prima né tantomeno poi; nei momenti veloci pareva di essere finiti in mezzo al pogo più violento e cattivo del mondo con la certezza che il soffitto sarebbe crollato da un momento all’altro, in quelli lenti era come farsi succhiare via il sangue da un’aspirapolvere mentre un rullo compressore ci sbriciolava gli ossicini. Il primo disco, River Runs Red (1993), è un concept sul suicidio; gli interludi Monday e Thursday sono registrazioni di messaggi dalla segreteria telefonica del protagonista, viene lasciato dalla ragazza e licenziato dal lavoro, in Friday – la traccia conclusiva – si ammazza. Nel mezzo alcuni tra i pezzi più dolorosi di sempre, indipendentemente da generi musicali e gusti personali di sorta; in pratica è l’esorcismo privato del bassista e paroliere Alan Robert, figlio di divorziati, il padre alcolizzato violento che gli menava. Al microfono c’è lo gnomo triste di cui sopra, Keith Caputo, un altro che quanto a infanzia disastrata non scherza manco per il cazzo (orfano a un anno, madre morta di overdose, padre mai conosciuto): la sua voce, un lamento carico di rabbia o l’urlo più triste del mondo a seconda di come consideriate il bicchiere (che comunque è sempre mezzo pieno ma di lacrime, per citare il poeta), è quel che rimane impresso più di ogni altra cosa, più ancora della musica, che è quanto di meglio il gruppo scriverà mai. Per il successivo Ugly (1995) la stesura dei testi viene divisa 70/30 tra Robert e Caputo, i tipi sì che ne hanno viste: i primi cinque pezzi in blocco sono roba da stendere un elefante. Seasons, I Regret, Lost at 22, Other Side of the River, Let’s Pretend (primo dei sei miliardi di pezzi di Caputo dedicati alla madre morta) toglierebbero la voglia di vivere anche al più arrogante fottuto pornodivo miliardario sulla faccia della Terra. Rapidi colpi di rasoio sulla carne viva come diceva Tamburini, impossibile azzardare un paragone che non implichi il concetto di soffrire gratis come cani senza alcuna speranza di riscatto. Il resto del disco non è altrettanto buono, ci sono anzi un sacco di filler orrendi (inclusa una cover al di là del bene e del male di Don’t You (Forget About Me) posta in chiusura) ma sticazzi, i Life Of Agony la loro storia l’hanno già scritta, marchiata a fuoco per sempre nei cuori dei deboli e degli umiliati. Soul Searching Sun (1997) è UNA MERDA. Spazzatura alternative rock (erano gli ani novanta, questa definizione aveva un senso) da far vergognare la più infima delle band da classifica generalista di allora e di sempre, un susseguirsi inesorabile di pezzi insulsi il cui vuoto pneumatico emerge in maniera anche perturbante; l’ansia di non avere un cazzo da dire. Unici momenti da salvare Weeds (comunque una cosetta rispetto alla roba vecchia) e le bonus tracks incluse nella versione digipack (a spiccare una rendition triphopeggiante di Let’s Pretend che in piena notte con un cannone gargantuesco è la morte sua). Nel mezzo del tour però Caputo lascia adducendo scuse, e il gruppo momentaneamente si sfalda; dovevano venire anche a Bologna, al Covo, a fine ottobre ’97, un trauma dell’abbandono che non ho mai superato. Rientrano in pista l’anno dopo con il sostituto più improbabile che si potesse immaginare: l’abbronzato Whitfield Crane dei relitti “divertenti” Ugly Kid Joe. Tempo un paio di tour e fortunatamente capiscono che non è cosa. Nel frattempo esce la raccolta di demo e B-sides 1989-1999, che contiene probabilmente il pezzo migliore mai scritto dai Life Of Agony, Coffee Break: cercate di procurarvelo a ogni costo, fosse anche l’unico loro brano che ascolterete mai. (Continua a leggere)

Dischi stupidi: Is This Hyperreal?

Alec Empire sembra un cialtrone decerebrato, e gli si vuol bene anche per questo. In realtà la sua visione ha marchiato a fuoco gli anni novanta (e tutto quel che ne è derivato) come pochissimo altro; più prolifico di Scerbanenco, diecimila pesudonimi, sempre in moto, sempre pronto a collaborare con questo e quello, occhi e orecchie spalancati come voragini e ricettivi come paraboliche verso il mondo intorno, una curiosità inesauribile, pari soltanto al narcisismo tossico e a una volontà di ridefinire i confini della musica elettronica di qualsiasi tipo, forma e foggia (dalla techno alla musica concreta, dal rumore bianco all’ambient), l’uomo nato Alexander Wilke ha saputo essere produttore, imprenditore, DJ, squatter, ideologo, icona punk e uomo-copertina (per i dissociati), ha creato con il solo ausilio di macchine old skool e schede audio estrapolate da videogiochi scassati un genere (la breakcore o digital hardcore che dir si voglia) su cui legioni di nullità stanno ancora costruendo carriere, soprattutto, ha saputo fermare lo spirito del tempo in un’incarnazione tra le più vitali, irreplicabili e fieramente ignoranti di sempre. Gli Atari Teenage Riot (oltre a Empire un negro schizzato e una tipa che sembrava un travestito brutto) erano tutto questo: Berlino, la caduta del Muro, i rave. Puro spirito punk all’ennesima potenza declinato in salsa gabber, ribellismo a cazzo di cane in dosi da far cagare addosso Zack de la Rocha, testi sullo sloganistico spinto che al confronto i Discharge erano filosofi greci, riff campionati alla vecchia da dischi metal e non (dai Pantera ai Dinosaur Jr, tutto comunque sgamabile anche da un sordo), gran bailamme di 808 e 909 prese a pugni, un apparato iconografico che sapeva unire le fulminanti visioni cyberpunk dei Ministry degli anni belli a un modernariato pauperistico figlio di Tetsuo quanto di Jeff Minter quanto di Mimmo Rotella se fosse stato giovane ed eroinomane negli anni ottanta: se nel 1995 avevi tredici anni e una gran voglia di ascoltare musica che facesse incazzare gli insegnanti, questa era una vera e propria benedizione. L’apice lo raggiungono nel 1997 con No Remorse (I Wanna Die) assieme agli Slayer per la colonna sonora di Spawn (probabilmente il più brutto film su un supereroe mai realizzato; la colonna sonora non è molto meglio, ma il pezzo degli ATR spacca), nel frattempo era entrata in pianta stabile la giappo-ariano-texana Nic Endo, urla effettate, casino digitale e bella presenza; due anni più tardi 60 Second Wipe Out, stessa sbobba ma stavolta piace anche ai metallari, loro suonano al Dynamo e il video di Too Dead for Me gira nelle trasmissioni metal. Il merzbowiano Live At Brixton Academy 1999 (un solo pezzo di venticinque minuti di rumore fastidiosissimo) l’ultimo atto: pochi giorni prima dell’11 settembre Carl Crack muore, forse suicida. Il gruppo si scioglie, Alec Empire continua a fare uscire cose. Nel 2002 Intelligence & Sacrifice folgora simultaneamente sulla via di Damasco quel che è rimasto della stampa musicale italiana; il mega-marchettone collettivo non sortisce gli effetti sperati, l’interesse gradualmente scema e per i dischi successivi Empire torna a venire snobbato alla grande. Nel 2010 la reunion degli Atari Teenage Riot, oggi il nuovo CD. Al posto di Carl Crack c’è un altro negro, Hanin Elias non è della partita, dice che non ce la fa più a cantare; Alec Empire ha ancora il mascellone volitivo e sembra ancora la versione giovane di Lux Interior, e Nic Endo è sempre una gran figa – con o senza ideogrammi in faccia. Is This Hyperreal?, meraviglioso l’omaggio ai Wipers nel titolo, manco a dirlo è la stessa sbobba di sempre, riff metal rubati, slogan urlati e tutto il resto, e il fatto che esca a ridosso dei casini a Londra è una pura casualità; il valore aggiunto per noialtri vecchiacci è l’effetto-nostalgia, il ricordarci dolorosamente di un tempo in cui eravamo giovani e idealistici e animati da Giuste Cause a caso (Fuck the commercials! Burn down the system!!!, come recitava un biglietto da visita degli ATR del 1992, e crederci davvero). Però il disco è proprio brutto.