DISCONE – Skullflower – Strange Keys to Untune God’s Firmament

 

Raramente un disco di rumore è stato altrettanto emozionante. Raramente un’ora e cinquanta minuti di rumore mi sono scivolati via come sabbia fra le dita. Difficilissimo stabilire una graduatoria nella sterminata produzione di Matthew Bower (e variabili soci) a nome Skullflower, ma se questo non è il suo disco migliore gli si avvicina comunque moltissimo. C’è qualcosa di profondamente estatico nel muro di (fra)s(t)uono innalzato in Strange Keys to Untune God’s Firmament: un senso di rapimento totale, di elevazione, di ebbrezza, che ricollega idealmente il disco ai momenti migliori dei Popol Vuh, magari accompagnati a un bel film di Herzog. Ma senza strumenti strani e senza l’allure da fricchettoni col baffo e le camicie sgargianti prese alla Caritas, piuttosto con una chitarra e un mucchio di pedali collegati a un treno di amplificatori settati a volumi allucinanti. Un disco che è Kosmische Musik più e meglio del krautrock stesso. Ma anche, al contempo, un disco al cui confronto Metal Machine Music si svela per la cazzatella naïf da turista mongoloide dei bassifondi quale probabilmente è sempre stata. La Neurot azzecca il suo secondo monumentale doppio, dopo che con il primo (il fondamentale Final 3, passato scandalosamente sotto silenzio nel 2006) aveva dato alle stampe una delle pagine più esaltanti di minimalismo elettronico di tutti i tempi. Ah, qualche mentecatto (non è da escludersi sia stato Bower stesso) parlando del disco ha tirato in ballo Wagner, non ricordo nemmeno perché né a che titolo (probabilmente per via della presenza di pezzi che si intitolano Nibelungen o Rheingold); inutile dire che Strange Keys to Untune God’s Firmament c’entra con l’amichetto preferito di Nietzsche quanto Rocco Siffredi con la catechesi pastorale.

DISCONE: The Flaming Lips and Stardeath and White Dwarfs with Henry Rollins and Peaches Doing the Dark Side of the Moon

A quanto pare Embryonic non bastava. Un ispirato mastodonte di psichedelia pop fricchettona a caso, in effetti, era il minimo che potessero fare per aver abusato del nostro tempo con un disco –sostanzialmente- del cazzo come At War With The Mystics. Quello su cui tuttavia i Flaming Lips decidono di giocarsi la propria credibilità “storica” è una sorta di opera-rock concettuale pensata e realizzata come una versione noughties di Zaireeka. In che senso? (grazie per la domanda) Nel senso di un album parallelo alla discografia ufficiale basato su premesse concettuali talmente fighe che è quasi inutile ascoltarlo. Ora, se avete avuto a che fare con me nei primi anni duemila sapete NON SOLO che dopo i 20 non sono mai stato magro, ma anche che ho un’insana passione per Zaireeka. Stefano I.Bianchi di Blow Up lo ha chiamato grossomodo l’opera pop definitiva: sono abbastanza d’accordo. The Dark Side Of The Moon si muove grossomodo sulle stesse coordinate: vale come dichiarazione d’intenti almeno quanto disco, anche se non ha la carica rivoluzionaria di Zaireeka e ha comportato un lavoro molto meno intenso in sede di scrittura. Nel senso che è –appunto- Dark Side Of The Moon rifatto pari pari da un gruppo di addetti ai lavori che comprende Peaches e Henry Rollins.

(Che già come concetto fa cacar sotto dal ridere, tipo mestiere del WTF. Concepire un’ospitata dello Zio in mezzo a un branco di quarantenni strafatti di acido. Così, tanto per farne una. Magari era andato a fargli il cazziatone e l’hanno obbligato a fare le backing vocals.)

Il risultato è tronfiamente intitolato The Flaming Lips and Stardeath and White Dwarfs with Henry Rollins and Peaches Doing the Dark Side of the Moon. DISCONE. Una raccolta di canzoni suonate come la versione calligrafica di Dark Side ma eseguita dai Pink Floyd era-Barrett, che sembra registrato con dei microfoni attaccati ai muri della stanza accanto ed editato da qualche mammasantissima del freak pop tipo un Fourtet col viaggio del vintage. I pezzi sono i pezzi di Dark Side, quindi probabilmente li conoscete piuttosto bene –ma vi assicuro che fa un effetto devastante. E certo, non è un’opera-pop importante come Zaireeka, ma è ragionevole pensare che stia alla musica rock degli anni duemila come Zaireeka stava alla musica rock degli anni novanta (la musica rock degli anni duemila fa molto più schifo, purtroppo). Se avete voglia di seghe mentali c’è tutto quel che serve: calligrafismo, importanza dell’opera, il senso della reinterpretazione, la dialettica tra questo e quell’altro e tutta quella serie di cose che fanno sborrare Simon Reynolds. Oppure potreste fare una scelta sensata e buttarvi semplicemente sulla musica. Dicevo: DISCONE, e a me l’originale non piace nemmeno troppo. Purtroppo per ora –e suppongo per sempre- il CD non è in vendita, quindi vi dovrete accontentare degli mp3 su iTunes –o quel che è, insomma. Viva lo zio Hank.