PAGARE LA MUSICA #8 (tomella casuale sul consumo etico)

La cattiva notizia è che la sede tedesca di Amazon (secondo gli standard culturali odierni uno dei massimi liberatori della musica degli anni duemila) è stata accusata da un notiziario di sfruttare i lavoratori, pagarli meno di quanto promesso ed impiegare un servizio di sicurezza di simpatie neonazi. La buona notizia è che su Amazon.it al momento ci sono buoni sconti, tipo (come si può vedere dalla schermata sotto, che ho tirato giù all’inizio di questa settimana) è attivo un 3×2.

 

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Se qualcuno ha un briciolo di dimestichezza con le pezze che mi capita di attaccare qua dentro, avrà abbastanza presente che mi fa schifo parlare di punk perché tutti lo usano come scusa per qualsiasi cosa. L’altra settimana a Sanremo Fazio ha detto la parola punk mentre presentava l’esibizione di Antony. In questo contesto, comunque, viene tentati di usarla. Assieme alle altrettanto orribili parole “anni novanta”, ovviamente: l’idea è che ai vecchi tempi, diciamo così, il commercio dei dischi funzionava in un modo un po’ più etico. Alcuni artisti decidevano (anche) su basi morali/etiche attraverso quali canali far circolare la loro musica e attraverso quali canali NON farla circolare. Non era un periodo particolarmente florido per la mia collezione di dischi. Per ascoltare tutto quel che mi serviva di ascoltare dovevo accamparmi al negozio di dischi, sopportare le facce stirate del venditore a cui chiedevo di ascoltare sei CD in un pomeriggio, farmi qualche amico in giro e scambiare cassette. Niente di eccezionale, lo facevano tutti –beh, tutti quelli che avevano la botta. Alcuni andavano a studiare a Bologna e noleggiavano i CD che ancora lì si poteva (a Cesena aveva chiuso qualche anno prima). Nessuno rompeva le palle alle ragazze con la propria collezione di cassette, specie se aveva una calligrafia orribile tipo me e nessun problema a riempire il lato B di un disco dei Pennywise con mezzo disco dei Pantera (true story).

 

Il CD è uno dei pochissimi beni che dopo l’arrivo dell’euro sono crollati di prezzo. Era possibilissimo andare a comprare dischi nel 1993 e prenderne ad un prezzo che anche oggi al netto di VENT’ANNI DI INFLAZIONE SELVAGGIA viene chiamato “furto” (20 euro). I negozianti che facevano quei prezzi assurdi vent’anni fa, perlopiù, non compravano una BMW nuova ogni tre anni. Vendere dischi è sempre stato un lavoro da gente senza aspirazioni: le distro chiudevano baracca e burattini anche nei momenti di “boom” della discografia, le etichette indipendenti hanno sempre fatto fatica a tirarci fuori due spicci, la maggior parte dei gruppi ha sempre alternato dischi e tour ad un lavoro “vero” per sbarcare il lunario. Quello che è drasticamente cambiato negli ultimi vent’anni, non solo grazie ad internet, è la nostra concezione della musica e del consumo di musica. Oggi i problemi iniziano ad essere altri, chiudono le FNAC, chiudono le HMV e persino i siti dei quotidiani di tanto in tanto ne parlano.

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Qualcuno di noi, nel senso di tutti noi, scarica musica (se usate internet per leggere Bastonate ma non per scaricarvi i dischi avete un GROSSO problema e vi consiglio di farvi visitare quanto prima). Qualcuno di noi giustifica il suo scaricare con qualche terribile paradosso cognitivo di merda tipo “compro tutta la musica che posso” e “non è facile per me trovare dischi in questa città”. Non sono ragionamenti “all’italiana”, sono ragionamenti global di gente che avendo l’occasione di ottenere gratis tutta la musica di cui ha bisogno considera d’improvviso inadeguato o peggio ancora immorale spendere venti euro per un CD o andarselo a cercare in un’altra città. Probabilmente ha ragione, e d’altra parte questo pezzo non parla di tutte ‘ste robe perché vi ci abbiamo già fatto due maroni grossi così.

 

Si dà per scontato, tra appassionati di dischi, che l’obiettivo di un ascoltatore deve essere quello di possedere ogni disco interessante in commercio. Questa cosa ha un senso, naturalmente, perché è stata concepita in una società come la nostra e fa affidamento su una logica incrementale di base secondo cui è possibile mettere in fila ogni argomento dello scibile. In realtà il nostro obiettivo non dovrebbe essere una poderosa collezione di dischi, ma una collezione di dischi soddisfacente. E la musica che ascoltiamo, in linea di principio, dovrebbe avere un valore economico che ne rispetti il valore artistico.

 

Una cosa paradossale a cui ho avuto la fortuna di assistere a un certo punto della mia vita era la vendita al supermercato di uno scatolone che comprendeva un lettore DVD e una sessantina di film (probabilmente in custodie di cartoncino o cose simili) con cui poter riempire diciamo il primo mese di dipendenza da homevideo. Ovviamente erano quasi tutti action/commedie di merda di quelle che non puoi metterle su uno scaffale ed aspettarti che vendano, ma qualche buon titolo c’era. Il prezzo totale dava una buona visione d’insieme del pacchetto: metti che di questi ci sia un solo 20% di film che mi riguarderò (più un altro 15% diviso equamente tra ripescaggi critici futuri e so bad it’s good), già così potremmo dire che è stato un buon affare. Immaginatevi un equivalente discografico spinto di questo scenario: un successone. CENTO dischi ruocke, inappellabilmente da possedere, in bustina di cartone dentro un cofanetto: Electric Ladyland, Pet Sounds, il primo dei Joy Division, Never Mind the Bollocks, Nevermind, Blonde on Blonde, Pornography, Rock for Light, qualche cagata di Marvin Gaye, Ride The Lightning eccetera, totale 300 euro per roba che ha definito la vita di centinaia di milioni di persone. Quattro-cinque cofanetti su questo andazzo, in joint-venture tra una mezza dozzina di etichette discografiche, e per poco più di uno stipendio siete in possesso della discografia dei sogni di Gino Castaldo. Tutti ci hanno guadagnato. (copyright Bastonate, nel caso a qualcuno gli venisse il prurito di fare davvero una minchiata del genere)

 

Il paradosso di cui sopra presuppone l’esistenza di un disturbo compulsivo simile alla bulimia per gli ascoltatori di dischi. La passione per la musica ci si è attaccata addosso a furia di minchiate ascoltate a destra e a manca e di straforo e doppiandosi nastri già rovinati a sufficienza, e questa cosa ci è rimasta dentro come una specie di precipitato filosofico che unisce in malo modo modalità del passato e tecnologia del presente (più o meno allo stesso modo nel quale in linea di principio la gente della mia generazione non riesce ancora a sbattersene i coglioni e si sveglia la domenica per andare a votare un partito, nonostante di partito nella scheda elettorale ne fosse rimasto UNO e non sia riuscito a smacchiare il giaguaro demmerda nemmeno a questo giro che sembrava fatta). Da qualche parte, in fondo alla coscienza, siamo pienamente consapevoli che c’è un motivo per cui i dischi ora costano la metà di quando avevamo diciott’anni, che questa cosa dipende almeno in parte dal fatto che qualcuno in giro per il mondo viene sistematicamente sfruttato o inculato (magari costretto a spedirci pacchetti con opzione max 72 ore in un continuo stato di minaccia, pagato meno di quel che dovrebbe e via di queste, con noi che postiamo la foto su instagram dicendo WOOOW, L’AVEVO ORDINATO NON PIU’ DI DUE GIORNI FAAAA). Decenni di sfruttamento e produzione in paesi sottosviluppati e ancora siamo qua a berci il mito delle economie di scala, e ancora il prezzo di qualsiasi cosa è la discriminante.

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A maggior ragione oggi che i dischi si possono ascoltare in streaming (spotify è arrivato in italia giusto la settimana scorsa) o scaricare illegalmente a botte di cento al giorno, possiamo tranquillamente permetterci di comprare tre-quattro dischi fighissimi al mese pagandoli un prezzo che non mette in mutande qualcuno in giro per la filiera, ritrovarci alla fine dell’anno con cinquanta dischi buoni invece che duecento tra cui trenta buoni e risparmiare soldi sul totale. Non esistono veri e propri effetti collaterali: la collezione di dischi sta diventando sempre più una bega da affrontare quando fai le pulizie e i traslochi, e via di queste. A volte mi scarico un disco da internet perché non ho voglia di cercarmi l’originale nello scaffale, a volte lo scarico per non prendermi la briga di ALZARMI. Vabbè. Sono assolutamente consapevole del fatto che un assunto secondo cui bisogna possedere meno dischi per avere una discografia più buona possa sembrare una stronzata senza senso –del resto sono anche convinto che a fare la spesa al negozietto sotto casa si risparmia un sacco di soldi rispetto al supermercato. In un caso o nell’altro si va incontro a un bivio cognitivo piuttosto noioso: pensare che il salumiere e il venditore di dischi siano roba anacronistica VS pensare che l’anacronismo sia un valore morale appioppato a cazzo a certe cose da qualcun altro. Esiste comunque un modo etico di andare a comprarsi i dischi risparmiando e senza doversi recare per forza al negozio: il sito dell’etichetta, il banchetto ai concerti, la homepage del gruppo eccetera. Puoi donare soldi al gruppo via crowdfunding o via bandcamp, anche se questa cosa del name your price per me è sospetta (quanto si beccano loro? A fronte di cosa?).

 

Non è la prima volta che su questo blog demmerda magazine ci lamentiamo del sensibile peggioramento della qualità globale della musica. Tra le cose che sono più peggiorate, in ogni caso, c’è la fibra morale degli ascoltatori. Vent’anni fa non avremmo perdonato a un gruppo (manco agli AC/DC, credo) di mettere il proprio nome su una bottiglia di birra o su un videogame, di presentarsi a un qualche evento mondano, di vendere dischi su iTunes (vedere anche il post precedente) o peggio ancora di donare la propria musica a uno spot di pannolini o a una serie TV merdosa. Oggi se succede di sentire i Girls nella colonna sonora di Girls ci sembra un grandioso traguardo del gruppo. Non lo è, naturalmente, e dovremmo iniziare a riconsiderare l’idea che la musica di un artista dovrebbe bastare a se stessa, ma siamo disposti a sobbarcarci il costo economico dell’ennesimo cambio di valori?

 

Quando s’è saputo della storia di Amazon, che comunque non ho approfondito più di tanto, ho anche letto pareri tipo “ma sai, son le regole della concorrenza”. Siamo abbastanza bravi a rimuovere la nostra parte di responsabilità in questi moti di sdegno, a piangiucchiare per le ragazze pagate un cazzo nei call center mentre cerchiamo un operatore che ci dia due mesi di chiamate gratis; non è l’unico fattore in gioco, ma è un fattore in gioco. Sono abbastanza convinto che un passo verso la ricostruzione di un briciolo di interesse nella musica che ascoltiamo debba essere necessariamente un passo indietro. Non necessariamente barricarsi dentro un negozio di dischi finchè non sarà passata una tempesta che non passerà (d’altra parte il negoziante che carica 12 euro a titolo è parte del problema, non della soluzione), ma almeno non affidarsi ciecamente a servizi che ti fanno risparmiare per l’evidente ragione che si risparmia e iniziare a

 

  • Chiederci che musica vogliamo ascoltare
  • Comprarla
  • Pagarla quello che vale
  • Pagarla a chi crediamo meriti i soldi
  • Non pagarla a chi crediamo non li meriti nonostante ce ne chieda di meno

 

E boh, in generale iniziare ad assumerci qualche responsabilità.

Una terza per il Record Store Day // Way of the Dark Stores

Questo è il mio contributo autoreferenziale e di nessun interesse al fatto che domani, pioggia o vento o caldo torrido che sia, andrò a spendere una marea di soldi dai ragazzi di Radiation Records in onore della Festa dell’Invendibile.

Quello che per m.c. è stato Nannucci e per kekko il negozio di Cesena (e per tutti voi altri è stato l’equivalente a Milano, Genova, Londra o Terracina), per me è stato Rinascita a Via delle Botteghe Oscure, a Roma, al piano terra di quello che era il palazzo dei Comunisti e poi fu dei post-comunisti e poi di niente, nei locali dove ora ha preso indegnamente sede Il Riformista (ed ecco il più pregnante motivo del mio essere diventato di destra).

Rinascita è stato Il Posto, il mio e l’unico; Rinascita sono per sempre le due di pomeriggio dopo scuola, Rinascita è per sempre i suoi scaffali messi prima perpendicolari all’ingresso (con questa conformazione comprai ad esempio Fun House degli Stooges e Rimmel di De Gregori, quest’ultimo perché andavo al Visconti) e poi paralleli (e lì i dischi non si contano) e il suo commesso giovane, che ho incontrato per caso non più giovane proprio da Radiation e gli volevo bene e mi mancava anche se non ho mai saputo il suo nome, e in ogni caso eravamo di nuovo lì in una Roma di un assurdo 2011 senza più dischi, ma sempre tra gli scaffali di un negozio di dischi (If you need me / I can always be found)

Tutto ciò che ho scritto è, mi rendo conto, drammaticamente e limitatamente solo mio; ma, d’altra parte, non è solo nostra la musica, nella particolare accezione del personalissimo filo rosso che lega le nostre storie portandole, che ne so, da un disco dei Red Hot Chili Peppers (Blood Sugar Sex Magic, era il 1992) alla morte di Cobain, a Psychocandy comprato solo perché me lo ritrovavo tutte le volte mentre cercavo tra gli scaffali e ormai mi sentivo in dovere a Kid A, agli Afterhours, a E’ uscito il nuovo disco degli Smashing Pumpkins?, che era Adore, e un mio amico scappò da scuola a ricreazione per comprarlo nel giorno dell’uscita e tornò con Adore e io morii di FOTTA fino alle cazzo di tredici; ho tante storie da raccontare su Rinascita e su quello che ha significato eppure non ho le parole per dirlo e ho anche un po’ di pudore, pur sapendo, in fondo, che voialtri reietti come me potete capirmi, e potete capire (perché anche per voi è così) che tutti i vostri ricordi degli anni importanti (quegli anni importanti) potreste perfettamente collocarli all’interno di un calendario scandito dai dischi comprati.

Io ricordo:
– Che comprai Mellon Collie and the Infinite Sadness la sera in cui uscì, ma tardi, verso le 18 che era già buio, e piovigginava e poco prima di Rinascita c’era all’angolo una ragazza in lacrime, e quando poi uscii dal negozio lei era lì tutta consolata, abbracciata dal fidanzato, e questa è o non è la cosa più Smashing Pumpkins mai successa? E dove sono loro adesso, sono ancora insieme? Ascoltavano gli Smashing Pumpkins, o si ricordano di quel giorno, in ogni caso? Si ricorda lei di un ragazzino che mentre lei faceva pace con, boh, Piero, passò con la busta di Rinascita un giorno di, boh, ottobre del 1995?
– Che una volta al banco c’era Walter Veltroni che si comprava uno shitload di dischi, tutti jazz e bossanova e cazzivari e io pensai, Che cacata, spendere duecentomilalire e comprarsi solo musica da vecchi (ci sarei finito anch’io). E quei dischi dove sono oggi, ancora a casa di Veltroni? Sono ancora ascoltati, o dimenticati, come i miei? E se i dischi di Veltroni incontrassero i miei oggi si riconoscerebbero, si vorrebbero ancora bene, Oh cazzo, ma tu non eri nel banco Rock Alternativo?, Sì, perch… Oh ma cazzo, tu eri nel banco musica da vecchi vicino a Fela Kuti, come stai, quanto tempo?
– Che comprai la colonna sonora di Boys Don’t Cry il giorno dello scudetto della Lazio, così per ingannare il tempo mentre aspettavo un mio amico per fare i caroselli

Ricordo purtroppo anche le avvisaglie di chiusura, quando la Discoteca Rinascita venne relegata da negozio autonomo a stanzino secondario dentro la libreria, e rimpiango di non aver mai comprato una raccolta di Wadada Leo Smith prima che chiudesse; ricordo la marea di dischi comprati lì, e a pensarci una marea nella marea potevo risparmiarmela, eppure no, sono contento che sia andata così e oggi sarei disposto a spendere cinquecento euro in indie-rock italiano se questo mi desse la possibilità di tornare da Rinascita.

Niente di ciò che è stato sarà ancora, il tempo passa e le cose cambiano e i negozi di dischi chiudono, e domani festeggiamo contro l’ineluttabile, una cosa come l’ultimo ballo sul Titanic o Eco che scrive di quanto sono meglio i libri di carta (anche se noi siamo più simpatici di Eco), e l’unica cosa certa è che i nostri scaffali e i nostri commessi fanno parte di noi, come le chitarre elettriche il basso la batteria e la voce, i concerti,l’attesa dell’uscita, l’odore del booklet – l’adolescenza e il rock, che esistevano ancora.

Signori, è finita, ma è stato un onore servire per voi.

Un’altra per il Record Store Day

immagine presa dal primo link qui sotto

 
Nannucci ha chiuso esattamente due anni fa. Dal 1992 fino a tutto il 2000 ho passato lì dentro più ore della mia vita di quanto fosse ragionevolmente lecito ipotizzare. È stato lì che ho ricevuto il mio battesimo del fuoco, davanti al bancone del reparto musicassette, un pomeriggio dei primi di giugno del ’92; la scuola stava per finire e per festeggiare avevo il permesso di comprarmi una cassetta originale. I miei mi avevano dato venti carte ma io non ero ancora del tutto sicuro su come investirle: Hanno Ucciso l’Uomo Ragno, primo album degli 883 che già mi era stato somministrato più volte via etere courtesy of una programmazione su Radio Deejay da esperimento nazista sul sistema nervoso (da settimane andavano avanti a trasmettere qualsiasi pezzo del disco praticamente ad ogni ora del giorno e della notte), oppure Fear of the Dark, ennesimo album degli Iron Maiden preannunciato da un singolo apripista veramente arrogante, Be Quick or Be Dead, intercettato sempre su Radio Deejay grazie a Nikki, titolare dell’unico programma rock dell’emittente (programma che peraltro andava in onda subito dopo il Deejay Time e quindi ascoltarlo era praticamente automatico)? Il commesso dall’altra parte del banco, un ciccione pelato a cui sarò debitore per il resto dei miei giorni, non aveva dubbi: “prendi questo, è doppio, dura di più”. Mezzo secondo più tardi stavo già trotterellando verso le casse felice come una pasqua, a pagare un album che addirittura era doppio. E in effetti Fear of the Dark durava uno sproposito, ci avrei messo mesi a metabolizzarlo. All’inizio mi piacevano soltanto i primi due pezzi, Be Quick or Be Dead e From Here to Eternity, e il brano in assoluto più demenziale e bamboccesco mai scritto dal gruppo (ma allora non lo sapevo), Weekend Warrior, una porcata sugli hooligans che neanche la più scalcinata delle cover band dei Poison, l’ideale per infiammare i miei basici entusiasmi di bimbo; poi cominciarono a piacermene anche altri di pezzi, tipo The Fugitive, bella ignorante, o Chains of Misery, e perfino la ballatona strappamutande Wasting Love, fomentato dal video su Videomusic che mi era subito sembrato la cosa più blasfema della Terra (e quindi da amare senza riserve). Ma la vera chiave di volta è stata Afraid to Shoot Strangers, una spettacolare cavalcata epica che, chissà come mai, all’inizio non mi diceva un cazzo; quando finalmente mi entrò nel sangue e mi fece drizzare i peletti sulle braccia dall’emozione ero ormai definitivamente preso. Ne volevo ancora. Dovevo prenderne ancora. (Continua a leggere)

Parlando di Record Store Day.

Mia madre mi ha invitato a pranzo a casa sua, le ho detto che sarei arrivato lungo con il lavoro. Non è vero. Esco dall’ufficio alle undici e mezzo e mi metto in auto verso la città. Parcheggio in viale Carducci a Cesena, un paio di vecchie mi stanno guardando da una panchina, sembra abbiano visto Bin Laden. Mi accorgo di avere il disco dei Crash of Rhinos a volume ottanta su cento e i finestrini abbassati. Non capita più così spesso. Scendo dall’auto, le vecchie mi dicono qualcosa sul rumore, metto le cuffie e faccio partire un disco di Malika Ayane sul lettore mp3.

Entro al negozio di dischi sei minuti dopo. Di fronte al negozio c’è un calzolaio, decido di farmi fare un buco aggiuntivo alla cintura. Non mi chiede soldi, io nel frattempo cerco d’immaginarmi come faccia un calzolaio a sopravvivere in centro a Cesena nel 2011. Sarà che le scarpe non te le puoi scaricare. Al negozio ci sono tre persone: uno sta questionando il negoziante, il cui nome non è affatto Fabio, in merito a certi singoli/rarità di Vasco Rossi. Un altro è un amico che fa contovendita in una libreria a una trentina di km da qui. Un altro sta spulciando gli scaffali alla voce sixties/garage/etc. Il negozio di fabio è uno stanzone piuttosto grande, la disposizione dei CD e dei vinili cambia più o meno mensilmente e c’è sempre sa il cazzo quale offerta, tipo il 3×2 sugli usati quasi fisso -spesso anche sui nuovi, etc.

Il negozio di Fabio osserva la rigida regola della socialità temperata autoimposta che i negozianti ed i clienti di questo ambiente non vedono l’ora di mettere in piedi. Per certi versi le regole sono simili a quelle del barbiere di Gran Torino. Entri, insulti il negoziante, il negoziante insulta te. Cesena non è una città cosmopolita, per cui gli insulti a sfondo razziale non hanno senso di esistere, ma tutto il resto è permesso. Sono quasi convinto che prima o poi Fabio estrarrà un fucile a pompa e me lo punterà in faccia per il LOAL.

Quando uno come me entra in un negozio di dischi ha quasi sempre un piano, qualcosa a cui dare la precedenza rispetto a qualcos’altro. Il piano di solito prevede di cercare qualcosa di simpatico, popposo, giovane, divertente e fresco che mi tolga dal fango e mi prepari all’estate. Il piano di solito viene disatteso non appena mi capita sottomano un disco Touch&Go o AmRep o Sub Pop. Il negozio fa il 3×2 sull’usato. C’è la discografia della Blues Explosion, qualche disco dubstep, l’ultimo Third Eye Foundation, un live di Bonnie Prince Billy di cui non so nulla, dischi di indie italiano, certe cose che comprai appena uscite e che vedo a quel banco da quando sono andato. Per un momento considero l’idea di comprare OK Computer e Dig Your Own Hole, poi ci ripenso. Il tizio è passato da Vasco Rossi a certe cose prog anni settanta. Ci si inchiacchiera un po’ tra gli uni e gli altri, piove qualche offesa gratuita e bonaria. Come nei negozi di dischi veri. Non entro qui molto spesso: un paio di volte al mese quando va bene, mediamente una volta al mese e basta. Compro sempre qualcosa. Sto cazzeggiando per giustificare il viaggio di 15 minuti che ho fatto per arrivare a Cesena, giro per gli scaffali e mi ritrovo con dodici dischi in mano. Ho pochi soldi, decido di scremare e scelgo una lista di dischi non-usati che possano fare da prima scelta e tenermi buono per almeno un altro paio di settimane. Il live di Bonnie Prince Billy. La reissue di Goat dei Jesus Lizard e quella del secondo Meat Puppets. Wrung dei Mule perchè non ho resistito e uno degli Arab On Radar (Yahweh Or the Highway). Vado alla cassa e mi faccio fare il conto: Fabio decide che in totale gli devo quaranta euro. Saluto, esco dal negozio e metto le cuffie. C’è ancora Malika Ayane. Nascondo la segreta speranza di incontrare qualche amichetta di tendenza che ha appena comprato un paio di jeans da centotrenta euro e mi sfotte per quello che ascolto. Non incontro nessuno. Salgo in macchina, metto i Meat Puppets, torno a casa.

Se avessi comprato dischi da casa in un mailorder avrei dovuto cercarli su qualche portale, spulciare tra le offerte, mettere le cose nel carrello, fare tutto secondo un ragionamento logico e ferreo e postare qualche insulto a caso su un forum non collegato, e se fosse andata GRASSISSIMA avrei risparmiato qualcosa come cinque euro sugli stessi titoli, che mi sarebbero stati recapitati la settimana successiva. Non che il problema si ponga: su amazon.it tre dischi su cinque non sono disponibili. Gli altri due costano trenta euro in totale.

Sabato pomeriggio è il Record Store Day, giornata deputata all’acquistare dischi nei posti dove si comprano i dischi.

(nota: questo che avete letto fa parte di una serie di “cosi” che noialtri ed alcuni amici stiamo facendo uscire in questa settimana. Li trovate tutti qui.)