DISCHI STUPIDI: Black Pus – All My Relations (Thrill Jockey)

tundebrian-533x400

Non credo di dover spiegare a nessuno di quelli che sono qua dentro a parte quelli che sono entrati cercando Maria Nazionale nuda su google (MI FATE SCHIFO, stiamo qua a leggere libri e sentire dischi e guardare film indipendenti sei ore al giorno e diocristo state ancora a cercare su internet le tette grosse) chi siano i Lightning Bolt. Lo faccio lo stesso: i Lightning Bolt sono un gruppo basso-batteria che replica dal punto di vista industrial-noise l’assetto di base di un pezzo cock-rock anni ottanta alla Van Halen. Tapping selvaggio e batteria che rulla all’infinito, il tutto scomposto e ricomposto in un formato che rasenta l’inudibile –incidentalmente, la cosa più bella che fosse dato vedere su un palco negli anni duemila, anche se la band dal vivo suona in mezzo alla gente. I Lightning Bolt ci hanno dato una manciata di dischi, tutti sostanzialmente identici l’uno all’altro e perlopiù pleonastici (il mio preferito è Ride The Skies per via del fatto che è quello che ho ascoltato per primo): la si potrebbe definire un’esperienza fisica pura, una cosa di quelle che vanno fatte dentro a qualche squat e poi archiviate vitanaturaldurante al giusto status di blow-up-sensation, nel senso della rivista, che ha nutrito i nostri sogni per fin troppo tempo.

Il che non toglie che noialtri Blow Up continuiamo a leggerlo. È così che siamo rimasti più o meno informati di tutte le vicende dei due musicisti che compongono la band: Brian Gibson, bassista, figura come membro di diversi progetti quasi tutti in capo a Load e sembra occupare (tra le altre cose) un posto di rilievo in una casa produttrice di videogame; il batterista Brian Chippendale è una specie di figura chiave per comprendere il nostro tempo, pittore/fumettista di fama ormai mondiale e batterista di lusso convocato alla corte di Bjork, Boredoms e chissà chi altri. Da qualche tempo Chippendale è il tenutario di una one-man-band chiamata Black Pus, la quale esce questi giorni con il suo (credevo secondo e invece) OTTAVO disco, primo su Thrill Jockey, chiamato All My Relations. Al confronto i Lightning Bolt sono i Pink Floyd: filastrocche berciate su pattern di batteria garage-rock stirati fino allo sfinimento, pedali a non finire, tastierine di merda e un’inclinazione a mandare tutto in vacca alla fine del pezzo che persino Kevin Shea avrebbe avuto delle remore morali. La chiave più ovvia in cui vedere All My Relations e (immagino) il resto della produzione Black Pus suona più di quel genere di ossessione e del bisogno di Chippendale di registrare e pubblicare qualsiasi cazzo gli esca dalle mani, in una maniera un po’ Omar Rodriguez o Kawabata Makoto; ma il batterista sembra animato da un’inclinazione più meccanica degli arzigogoli psichedelici dei personaggi di cui sopra, con il risultato che un disco come All My Relations suona più o meno come la cosa meno sperimentale sia mai stata incisa da un uomo. Si trova più tracce (a torto, naturalmente) di una certa ossessività bambinesca alla Chrome, del noise marcio e americano in culo dei dischi griffati AmRep, di certi Suicide (ovviamente) degli anni d’oro di Skin Graft. Sembra stupido dirlo così, ma nell’immediato un disco come All My Relations suona davvero come una delle musiche più brutalmente schierate, dal punto di vista politico, dell’America contemporanea. Avercene, di uomini come Brian Chippendale.

(il disco è su pitchfork advance)

Dischi stupidi: BECK – SONG READER

C’è una sgradevole deriva della musica contemporanea che di tanto in tanto torna allo scoperto, ed è tutto quell’insieme di progetti che provano a definire un futuro di formati alternativi e modi di consumare non allineati. Questa pratica di sfida alle convenzioni ha un senso ridotto anche quando si parla di roba figa o importante tipo i dischi name your price di Radiohead o NIN o chi per loro, o il secondo disco vuoto che ha usato gente tipo Kapital Band 1 o anche ovviamente Laghetto (che però era il quarto disco) o che so, Infinity dei K-Space. Diventa assolutamente insostenibile quando qualcuno s’inventa un’idea su due piedi per disperazione o per il LOL o per smuovere un po’ di acque prima che il disco esca, e qui ognuno ha la sua lista tipo il disco dei The Perris o altre robe che chissà perché ricordo essere centinaia e al momento non me ne viene in mente manco una. Difficile dire che il nuovo disco di Beck, che a quanto pare uscirà solo in forma di spartito (il primo disco potenziale della storia!), faccia parte della seconda schiera, anche se odio Beck –siate avvertiti, odio Beck, questo è un pezzo su Beck scritto da uno che odia Beck, per quelli scritti da chi lo ama vi prego di skippare a QUALUNQUE ALTRO risultato ricerca di google. Il nuovo disco di Beck, se ci si pensa, richiede un certo coraggio ex-ante da parte dell’artista (affidare la musica che hai pensato per te alle mani di gente perlopiù inaffidabile che nemmeno conosci, incrociare le braccia e aspettare di vedere come va e continuare a ripeterti che nonostante sia roba scritta da te il risultato finale non sia così importante), che sommato al tempo che serve a scriverlo fratto il ritorno economico che ci si aspetta, insomma, assume un senso abbastanza particolare. E comunque è da classificare alla voce dischi stupidi perché l’idea alla base è un’idea del cazzo senza senso e senza futuro, questa cosa non deve mai uscirci dalla mente anche se ci piace decontestualizzare e vedere il genio un po’ ovunque. Su questa cosa non ci piove. Per quanto riguarda tutti i discorsi cognitivi e/o teorici vi rimando a chi ne ha già scritto, per quanto mi riguarda rimane solo un punto non-fondamentale: cosa si ottiene mettendo insieme l’idea stupida di cui sopra con l’arte e la discografia di Beck fino ad oggi?

Culturalmente parlando Beck Hansen è come quegli herpes che a un certo punto ti vengono fuori e poi spariscono e continuano a tornare di tanto in tanto per il resto della vita: sgradevole e incurabile, ma in un certo senso ci si puoi contare e –che so- ci sono cose peggiori, tipo la psoriasi e gli arti mozzati. Beck è andato di gran moda da subito, quando Loser è diventato il singolo cardine delle discoteche rock da lì in poi (ci fosse stata una classe politica più severa quando è uscito Loser, Beck sarebbe stato messo in croce fin dall’inizio). Beck è uno stato mentale. Il crossover prima di Beck aveva delle regole: per prima cosa era un affare del rock pesante, poi c’era comunque un criterio con cui potevi mischiare e non mischiare. Beck è arrivato a bomba sul mercato come una specie di versione adulta dei Beastie Boys di Check Your Head, che peraltro erano già una versione (più) adulta di se stessi, ma sarebbe da disgraziati mettere alla berlina un artista perché non è i Beastie Boys. E da lì in poi Beck ha continuato a crescere un po’ con la fama di perenne nuova cosa/ragazzino meraviglia del pop, un po’ come marchio di fabbrica di un’estetica ibrida ma innocua caduta giustamente in disgrazia tipo quindici anni fa (fu lo stesso Beck, all’epoca di Mutations, a scriverne un po’ a cazzo l’epitaffio), e un po’ come uno che avrebbe palesemente dovuto combattere per il resto della carriera contro un pregiudizio (tutto sommato veritiero) che il suo pezzo più riuscito e/o quello con cui è passato alla storia del pop è il primo pezzo del primo disco, anche se il primo disco in realtà è il terzo. Fosse successo tutto in un mondo alternativo il pregiudizio su Beck avrebbe sbaragliato Beck a calci in culo e l’avrebbe ridotto alla figura di un altro Dj Flash americano invece che, boh, il Bugo americano.

Beck esiste in una piega dell’anima su cui scorre tutto il resto delle cose del mondo senza fare una piega. Torna il garage, il crossover inizia a fare schifo a tutti, la musica meticcia non vende più manco al Buddha Bar, finisce il garage, torna la wave ingessata ma esce un nuovo disco di Beck e tutti quanti a dargli del genio. L’unico disco di Beck con il quale ho ancora (una volta ogni due anni, siamo sinceri) la minima voglia di confrontarmi è Odelay. Tutto il resto è un grandissimo monte di merda con squarci di luce e momenti di scrittura fichissima buttati qua e là per i dischi più o meno a caso in modo da creare quella sensazione tipo che la prima volta sembra il paradiso, la seconda il purgatorio e dalla terza in poi il classico disco di Beck -in questo sì il Bugo americano, o quantomeno una cosa vicinissima all’archetipo dell’artista completo millelire alla Lenny Kravitz (che per me è il massimo esempio di questa attitudine stile sai io suono in scioltezza qualsiasi genere musicale conosciuto all’uomo buttandola sempre in caciara, soprattutto per via del fatto che per un malinteso che non ho mai capito come sia nato ho pensato per mesi che Would I Lie to You di Charles&Eddie non solo fosse di Lenny Kravitz, ma fosse nello specifico la canzone intitolata Are You Gonna Go My Way di Lenny Kravitz). Dell’uomo-Beck non so molto, anzi l’unica cosa che so è che a un certo punto ha avuto una storia con Winona Ryder, una che a leggere le cronache è stata anche con Page Hamilton e un mio cugino, a un certo punto verso fine degli anni novanta, e dallo struggimento che ne è seguito è venuto fuori un disco acustico depresso stile Mark Kozelek di nome Sea Change che quando è uscito pensavo fosse uno spoof messo insieme da qualche hater di Beck e qualcuno continua a considerare il suo massimo capolavoro. Poi si è tornati al solito Beck colto e contaminato, Guero e Modern Guilt prodotto da Dangermouse come qualsiasi altro disco uscito nel lustro 2007/2011, e all’annuncio di questo Song Reader, composto appunto dei soli spartiti delle canzoni “liberati” e suonabili da chiunque. Solo ieri sono venuto a conoscenza del sito songreader.net, il quale raccoglie video caricati da utenti youtube in giro per il mondo che registrano e pubblicano i risultati sottoponendosi al pubblico ludibrio sul sito ufficiale a paga zero. Guardando video a caso, magari ho avuto sfiga io, ci si imbarca consapevolmente in quelli che si candidano già ad essere i peggiori trenta minuti di musica degli anni dieci e/o in un flashmob di casi umani senza speranza con una chitarra una pianola e nessuna vergogna. Per certi versi è un’operazione che denota coraggio, per altri versi ci ricorda che persino uno come Terry Malick (uno che per un certo periodo è stato un genio, insomma) ha deciso di non portare a termine il suo progetto di liberare il cinema mettendo la telecamera in mano a quelli che uscivano dai manicomi. Il brutto di Beck è che senti che è merda ma sembra sempre far tutto parte di un progetto più grande ed invisibile ai più. Vaffanculo.

STREAMO: Mick Barr – Coiled Malescence (Safety Meeting)

(un articolo di Decibel sul nuovo Mick Barr tradotto con google)

Mick Barr è uno dei pochi personaggi chiave dell’accacì e del metal dalla seconda metà degli anni novanta ad oggi. Dalla fondazione del progetto Crom Tech, l’ossatura di quasi tutti i gruppi chitarra-batteria stile Hella*, l’uomo ha portato avanti da solo e con incrollabile fermezza la sua visione, dando vita ad una mezza dozzina di gruppi indistinguibili l’uno dall’altro e raggiungendo un meritatissimo status di culto sotterraneo, in gran parte dovuto al fatto che il gruppo più valido in cui ha militato dal 2000 in poi è uscito su Ipecac: si chiama(va)no Orthrelm e la loro massima espressione è il disco mono-traccia OV, sfiancante MATTONE di un’ora filata composto da una dozzina di furiosissimi pattern chitarra/batteria mandati avanti per tre-quattro minuti ciascuno. OV, probabilmente uno dei dischi più estremi mai realizzati, è uno di quei pochissimi dischi per i quali la prova di forza dell’ascoltatore pareggia e forse supera quella (comunque poderosa) dell’artista, rendendo l’intera esperienza una delle poche vere manifestazioni di rock indipendente degli anni duemila. Da lì in poi, tuttavia, seguire Mick Barr diventa una questione d’affetto e nient’altro, ricompensato dal musicista con un’uscita ogni quattro mesi con una mezza dozzina di denominazioni diverse (Octilis, gruppi col nome dei musicisti coinvolti, Krallice e quant’altro) e musica sempre e solo identica a se stessa: mezz’ora di tapping furioso con un batterista di area postrock a decontestualizzare il tutto. Oggi esce il primo disco firmato semplicemente Mick Barr, un’altra mezz’ora di tapping incessante con i soliti toni grotteschi ma nessun batterista a decontestualizzare, che in prospettiva potrebbe essere visto come il primo deciso tuffo di testa in un mare di autismo prog-metal dopo dieci anni di bagnare il piedino nell’acqua. Anche a questo giro naturalmente l’incrollabile visione di Mick Barr troverà la sua parte di fan tra i setacciatori di m-blog a tempo pieno, ma il disco è comunque una panzana senza costrutto. Meno male che l’ha messo in streaming.

*recensione del nuovo Hella, a cura dello staff di Bastonate:

Decoroso. 6.3

FOTTA: Hella (ancora nessun titolo, sorry)

Giuro su quel che volete, non sapevo che gli Hella fossero ancora un gruppo. Fino a qualche tempo fa, stando a Wiki, nemmeno Zach Hill ne sembrava troppo convinto. Il motivo principale per cui tutta la questione Hella se ne andò a puttane è il tempo fisiologico: il gruppo partiva da una base chitarra/batteria non troppo diversa dal modello Crom-Tech (il primo gruppo di Mick Barr, un disco poderoso su Gravity) ma più avventurosa e proggheggiante. Il disco d’esordio su 5 Rue Christine e tutte le cose pubblicate fino a The Devil Isn’t Red (compreso, oggi vogliamo rovinarci) sono opere di pregio che dovrebbero essere insegnate a scuola. Una versione magra e agile dei Flying Luttenbachers senza black metal, death metal e odio per la razza umana, tre giorni prima che la formazione a due inizi ad andare di moda a furia di Lightning Bolt e gente simile. Dopo un paio di giorni Zach Hill s’aggancia al giro grosso: suona nell’album dei Team Sleep (un terribile side project di Chino Moreno il cui disco, annunciato e rimandato per qualcosa come cinque anni, si è rivelato essere una delle più pretenziose ciofeche dell’ultimo decennio), inizia a lavorare da solista, presta la batteria più o meno a CHIUNQUE. Nello stesso periodo la band decide di pubblicare come terza uscita un album intitolato Church Gone Wild/Chirpin’ Hard, una roba tipo Speakerboxxx/The Love Below del math-noise ignorante (due CD, ognuno dei quali realizzato da un membro senza intrusioni dell’altro). Il disco è un mezzo disastro, una sega mentale di proporzioni bibliche senza manco la componente free-cialtrona dei primi passi del gruppo (molto più presenti, comunque, nella parte di Spencer Seim). Il passo successivo è quello di rendere Hella un gruppo vero e proprio, cioè sostanzialmente buttando nel cestino l’unica vera peculiarità del gruppo, presentandosi con formazione a cinque in occasione dell’ultima uscita, che esce nel 2007 e si chiama There is no 666 in Outer Space (me lo ricordo come una specie di deriva indierock senza pezzi di un disco degli ultimi Primus, ma non sento il disco da ANNI e potrei sbagliarmi). Da lì in poi la band smette di fare cose, Seim scompare quasi del tutto dalla circolazione, Zach Hill pubblica un disco al mese tra side-projects, uscite soliste e collaborazioni con musicisti di ogni estrazione (i dischi in cui pesa qualcosa tendono ad essere terribili menate da riccardoni). Oggi su Stereogum esce l’anteprima di un pezzo dal prossimo disco: la band è tornata a comporsi dei soli Spencer Seim e Zach Hill, ha buttato fuori un pezzo che sembra uscire dalle session di The Devil Isn’t Red e annuncia l’imminente uscita di un nuovo album. Suppongo come mea culpa sia un po’ tardi, ma sempre meglio che un altro 666. In allegato mettiamo la traduzione google del pezzo di Stereogum, una storia piuttosto buffa di una stroncatura dell’ultimo disco che finisce su una maglietta del gruppo.

Nel 2007 ho scritto una breve recensione tutt’altro che positivi di Hella There’s No 666 In Outer Space, il record in cui il duo noise-rock di Sacramento ampliato per un quintetto e ha iniziato a suonare come un roots Mars Volta. È apparso in SPIN. I ragazzi hanno coraggiosamente girato il midollo in una t-shirt. Il mio problema con There’s No 666 è (come quello che ho visto) la mancanza di scopo creata da quei membri extra – cioè lo spostamento non è sembrato necessario. Dunque, quattro anni più tardi, è bello essere in grado di annunciare che Hella hanno un nuovo album all’orizzonte che trova il nucleo del chitarrista Spencer Seim e lo straordinario batterista Zach Hill indietro come un flusso di coppia ben oliata. Ad oggi l’album di 10 canzone non ha alcun titolo. Idem questa canzone. Ma si può ancora ascoltare bene. E brandelli.

QUATTRO MINUTI: Beatrice Antolini – BioY (Urtovox)

VIA

La funambolica cantautrice polistrumentista maceratese arriva alla prova del terzo difficile album con la fama di uno dei primi della classe dell’indie italiano. Verso i vent’anni avevo smesso di ascoltare solo metal e punk e rockettone e avevo deciso –essendo UN SACCO IN VOGA in quegli anni- di iniziare ad apprezzare il pop caleidoscopico e/o a trecentosessanta gradi, perché era giusto e dava idea di espandere le concezioni del crossover a un contesto meno caciarone e più etero. Se fosse uscito in quegli anni un qualsiasi disco di Beatrice Antolini avrebbe fatto un sacco di legna. Poi s’è scoperto che il livello di caciaronaggine era lo stesso del crossover metallone anche con la gente che cantava, e che in nome del completismo ad ogni costo la gente stava compiendo crimini sempre più efferati e crudeli. Così il pop caleidoscopico s’è estinto senza lasciare più o meno tracce, a parte la depressione di Beck e qualche altro triste avvenimento collegato. In tutto questo andare e venire io mi sono definitivamente rotto le palle di aspettare che dietro tanto disciplinato virtuosismo senza frontiere (stavolta estremamente groovy, tra l’altro, brr) Beatrice tiri fuori una canzone che valga la pena di ascoltare, e m’impegno fin da ora a non ascoltare il quarto

STOP

(sentitevelo in streaming su rockit)