È il ritorno dei guaglioni sulla traccia, due anni e una manciata di mesi più tardi Luca & Paolo riprendono il discorso esattamente da dove l’avevano lasciato però spostando il tutto al livello successivo: più delirio, più ultraviolenza, più entropia, una struttura dei brani che definire escheriana è un eufemismo, roba che al confronto in Titicut Follies stavano in crociera, una produzione letteralmente devastante (il mastering finale è opera di James Plotkin, vedi alla voce uomini che ci aiutano a essere migliori) che sembra si siano materializzati nel tinello di casa a disintegrare tutto, c’è pure Justin Pearson che caccia quattro urla effettate in Sick and Destroy. E a proposito di titoli ‘divertenti’, questa volta è il turno di Lucy in the Sky with King Diamond (probabilmente Ringo Starr approverebbe), La Morte Young (ironicamente uno dei pezzi più brevi del disco, in aperto spregio al maestro da cui prende le mosse), Giorgio Gaslini is our Tom Araya (che innesca in chi sa una serie di cortocircuiti che evocano cerchi che si chiudono e matrimoni celebrati in Paradiso), Bach to the Future, si arriva a Eroica con le sinapsi già irreversibilmente incrinate, per poi annullarsi nell’uno-due finale e definitivo di Grey Celebration (bisognerebbe davvero farla sentire a Martin Gore questa) e Blast but not Liszt (di cui non voglio nemmeno iniziare a interrogarmi sulla genesi). Il disco esce oggi ed è il migliore regalo di San Valentino che possiate farvi, fare o ricevere. Potete ordinarne una copia fisica in vinile superlusso Qui, Qui o Qui. Qui le date del tour, che pure inizia oggi. Più sotto invece lo streaming.
Archivi tag: sarebbe stato molto meglio aprirli al pubblico come scuole di vita
Gruppi con nomi stupidi “the Christmas edition”: SKITLIV
Il disco delle feste 2010 (ma anche del 2009, e del 2011, e del 2012, e se il mondo non sarà andato a puttane del 2013, e… insomma, avete capito) è stato senza dubbio Skandinavisk Misantropi di Skitliv. Skitliv (che significa “vita di merda” in norvegese) è il progetto principale di Maniac; per chi ha avuto un’adolescenza normale, Maniac è stato il cantante dei MayheM (sai, quei norvegesi matti che si ammazzavano tra di loro) dal 1986 al 1988 e dal 1995 al 2004. Pare sia stato cacciato dalla band perché costantemente ubriaco o strafatto di medicinali che avrebbero dovuto fargli passare la voglia di bere (al suo posto è rientrato il temibile ungherese tossico Attila Csihar, già negli psicotropi Plasma Pool, cantante per caso su De Mysteriis D.O.M. Sathanas poi sfruttatissimo dai Sunn O))) ogni volta che sentono il bisogno di vocals maligne) . Il vero nome di Maniac è Sven Erik Kristiansen; vive a Oslo, ha due figli, il corpo disseminato di tatuaggi più o meno da ergastolano e somiglia vagamente a Marco Materazzi. Soprattutto, canta in un modo assolutamente spaventoso, malsano e profondamente perturbante, impossibile da replicare quanto da raccontare; ci si è avvicinato più degli altri Malfeitor Fabban quando nella recensione di Wolf’s Lair Abyss scrisse che la voce di Maniac sembra provenire da un essere deforme incapace di aprire la bocca per bene (le parole precise non le ricordo ma il concetto era questo). Da quelle corde vocali indistruttibili prendono forma i latrati più raccapriccianti che mente umana possa concepire; dopo il trattamento-Maniac, ogni frase diventa un incubo senza fine, ogni periodo la strofa di una poesia in una lingua sconosciuta il cui suono delle parole basta a fare impazzire di terrore.
Insieme al problematico (Niklas) Kvarforth degli Shining svedesi (quelli depressi, non i segaioli jazz) ha dato vita a Skitliv poco dopo la cacciata dai MayheM (la line-up comprende anche tale Ingvar alla seconda chitarra, Tore Moren al basso e una serie già piuttosto lunga di batteristi avvicendatisi in puro Spinal Tap style). Skitliv è la proiezione del marcio universo interiore dell’artista, della sua squilibrata visione del mondo e delle cose del mondo; musicalmente si articola in un black doom metal strisciante, affilato e implacabile, indolente come un pluriergastolano la domenica pomeriggio e gradevole come un appestato che viene a bussare alla tua porta alle quattro del mattino. Ma la componente in assoluto più straniante è costituita dai testi, spesso chilometrici, in cui l’autore si mette a nudo con una brutalità e una totale mancanza di sovrastrutture perfino imbarazzante; il fatto è che il più delle volte le liriche di pezzi dai titoli già di per se emblematici (Slow pain coming, Hollow devotion, Towards the shores of loss, ecc.) sembrano riflessioni private dal diario segreto di un liceale particolarmente problematico dopo la prima pippa con Baudelaire, un devastante incrocio tra inettitudine cronica e intuizioni fulminanti, atroci velleità da poeta maledetto e dolore puro, affettazione sgangherata e disagio tangibile e tagliente come lame, su tutto il riflesso di un ego ipertrofico e straripante, frenetico e sgraziato e probabilmente rimasto imprigionato in un’età mentale che si aggira intorno ai quindici-sedici anni. Veramente micidiale. Forse soltanto i deliri poliglotti dei Worship del terminale Last Tape Before Doomsday sono riusciti a evocare parte degli stessi scenari (tanto per capire di cosa stiamo parlando, poi il gruppo – perlomeno la prima formazione – cessò di esistere dal momento in cui il cantante-batterista-compositore principale Max Varnier si suicidò lanciandosi da un ponte). Skandinavisk Misantropi è il disco che risveglia il peggiore lato oscuro dentro ognuno di noi, ricordi di emozioni che il subconscio si affanna quotidianamente a sotterrare. Pochi dischi, in questo senso, sanno essere altrettanto molesti. Dal 2009 in poi (anno di uscita di Skandinavisk Misantropi), probabilmente nessuno.
Messe di ospiti più o meno ininfluenti alla riuscita del tutto; tra gli altri un catacombale Gaahl, l’amico Attila Csihar e un esagitato David Tibet che declama stronzate nell’intro di Towards the shores of loss.
L’agendina dei concerti Emilia Romagna – 27 settembre-3 ottobre
State meditando il suicidio perché oggi e domani c’è il Blasco in città e i biglietti sono andati esauriti sei anni fa? Niente panico e rimandate l’insano gesto: questa sera potrete scegliere tra A Birthday Party Band + Jack & the Themselves al Nuovo Lazzaretto (dalle 22, cinque euro) o i folli Heraclite gratis al Clandestino (dopo aver sentito questi ultimi vi garantiamo personalmente che il vostro cervello finirà in vacanza permanente su Saturno). Poi c’è sempre martedì per farla finita eventualmente, visto che in giro non c’è un cazzo. Mercoledì 29 ancora al Clandestino a farsi friggere quei pochi centri nervosi rimasti in attività dopo gli Heraclite al suono del Legendary Tiger Man (gratis, dalle 22), mentre giovedì 30 tutti ad arrostire cinghiali grossi come elefanti e a tracannare sidro di pessima qualità da corni luridi e bisunti: il gjallarhorn risuonerà in tutto il suo assordante furore bellico intorno alle 19 all’Estragon, in occasione della Heidenfest 2010. Trenta euracci il prezzo per l’ingresso nel Walhalla (valkyrie infoiate non incluse). Per i fighetti in vena di sporcarsi le mani col rock invece ci sono i Black Mountain al Bronson.
Venerdì 1 bisogna veramente tornare in pellegrinaggio al Clandestino per celebrare il manifestarsi di uno dei più grandi eroi di tutta la storia della musica (e dell’umanità): direttamente dal sottoscala degli uffici ormai abbandonati della Skin Graft, ecco Mr. Quintron e tutto il suo sterminato armamentario di strumenti autocostruiti che faranno del vostro cranio una pastosa e coloratissima omelette. Poi per chi è ancora vivo c’è sempre Josh Wink a dispensare le sue bordate di 303 a mitraglia che con il giusto dosaggio di MDMA è la morte sua; al Kindergarten dalle 23.30, metterei anche il prezzo ma quei bastardini non l’hanno scritto (facile che è sulla quindicina).
Sabato tutti a farci del male alla serata Slego remember al Velvet: ad aiutarci ricordare quanto eravano giovani belli e (in)felici ci penseranno il satiro Fiumani con i Diaframma (probabilmente i brani più recenti Pacciani style verranno momentaneamente accantonati a favore di una scaletta più improntata sul reducismo peso), e a seguire Thomas Balsamini dj. Qui tutte le informazioni. Per i b-boys invece, Assalti canta e non manda in letargo le menti dalle 22 al TPO a prezzo non pervenuto. Domenica dovevano esserci gli Hardcore Superstar all’Estragon ma mi sa che hanno annullato; magari è rimasto qualche biglietto per il Blasco al Palamalaguti. Chissà.
L’agendina dei concerti Bologna e dintorni – 30 agosto-4 settembre
Prima di sborrare nei pantaloni al pensiero dei Suicide in data unica italiana a Bologna mercoledì 1 settembre (performing the album Suicide per giunta) è meglio per voi che consideriate un paio di argomenti:
– il concerto si terrà al Locomotiv, il cui il tetto di metallo e le finestre rimaste sigillate per 3 mesi (esattamente dal primo giugno, data in cui si è svolto l’invivibile concerto dei Lali Puna – per la cronaca: niente prevendite, coda interminabile alla biglietteria, dentro il pieno totale e una situazione ambientale indecente con temperature ben oltre i 450 fahrenheit) avranno contribuito a creare un microclima interno che al confronto il deserto del Mojave è una cella frigorifera.
– per “un disguido” le prevendite non sono state attivate neanche stavolta, il che nella migliore delle ipotesi significa come minimo uno scenario all’entrata peggio dell’assalto degli indiani alla diligenza in “Ombre Rosse”, nella peggiore un bagno di sangue in piena regola. Suicide? Homicide.
– il concerto terminerà TASSATIVAMENTE entro la mezzanotte e i volumi saranno con molta probabilità poco meno che risibili, perchè se no i vicini si incazzano e telefonano agli sbirri.
– un esempio di show dei Suicide (è vero, quella volta c’era solo Martin Rev: in tal caso moltiplicate per due il numero di vecchi sul palco). Se siete in cerca di un bel karaoke del cazzo su Frankie Teardrop oh Frankie-Frankie abbiate un’idea di cosa invece subirete.
– in tutto questo, il prezzo del biglietto è di 22 euro. È anche vero che la stessa sera a Firenze c’è Leonard Cohen (prevendite già chiuse da secoli), i cui biglietti per i settori più sfigati se non ricordo male partivano da una cinquantina di euro… a ognuno il suo.
Questo giusto per amor di cronaca (senza considerare le manovre da Tetris che si dovranno compiere una volta entrati nel forno-carro bestiame per aggiudicarsi una postazione vagamente decente tentando di dribblare i pezzi di merda con la sigaretta accesa). Chi non ricorda il passato è condannato a ripeterlo; io sarò lì intorno alle 21.30.
Il resto della settimana:
Lunedì 30 agosto festeggiamo la fine dell’estate all’Echoes con Riva Starr ai controlli; tanto martedì non c’è un cazzo e si resta a smascellare.
Di mercoledì abbiamo già detto. Giovedì ci sono Arcade Fire e Modest Mouse al Parco Nord per i turisti della musica (e della vita); in fondo, paragonati ai ventidue dei Suicide, i 32 euracci d’ingresso ci sembrano ora quasi equi. Per chi invece ha voglia di perdere un po’ di chili in eccesso via ettolitri di sudore, magari al suono di qualche bella jam viaggiosa che con un trombone grosso come un braccio è la morte sua, al Nuovo Lazzaretto per pochi spiccioli si potranno ascoltare i canadesi Barn Burner, gli statunitensi Unrestrained e i nostrani “nervosetti” Cervo. Inizio ore 21 (ecco altri che se la passano bene col vicinato).
Venerdì 3 per gli assidui frequentatori di modelle piene di cocaina c’è Boosta al Kindergarten; più interessante sabato con la prima esibizione mondiale dei DDR s.p.k.r. per l’inaugurazione di stagione del Decadence (quindici euri). Poi di corsa a sentire Sven Vath al Cocoricò.
Per chi ci crede, domenica al Voodoo Club di Comacchio c’è la Hair Metal Fest in compagnia di due bei relitti mica da ridere: Tuff e Shameless (di nome e di fatto). Nel caso cotonatevi anche i peli del cazzo altrimenti vi lasciano fuori.
la gigantesca scritta LOAL: il concerto nei cerchi nel grano dei KORN
Tanto per alimentare l’insensatezza generale che ammanta tutto quel che riguarda l’uscita del nuovo Korn III, qualche executive pieno di cocaina fino alle orecchie qualche settimana fa se ne è uscito con l’idea geniale: perchè non tempestiamo la Rete di una serie di video “virali” in cui si vedono tanti tanti cerchi nel grano realizzati appositamente? Così, per sport: a quanto pare oggi le cazzate sui marziani sono tornate di moda. E poi tanto, peggio di Untitled non può andare, giusto? Detto, fatto: viene ingaggiato un plotone di “esperti” a deturpare una serie di incolpevoli campi di cereali. Il disco esce, ed è a quel punto che qualche altro executive farcito di amfe fin sopra la punta dei capelli deve aver partorito l’idea geniale: facciamoceli suonare dentro uno dei cerchi. Scommetto che Shyamalan non ci avrebbe mai pensato. Questo è il risultato: un’ora e venti di concerto dei Korn dentro un cerchio nel grano. Per aggiungere componenti ritualistiche a random il concerto è stato registrato durante il solstizio d’estate. A vedersi è anche divertente: con tutti quegli elicotteri in volo radente, pare un reboot di Apocalypse Now. Mancano giusto la Cavalcata delle Valchirie e Robert Duvall che dice stronzate sul surf. A un certo punto Jonathan Davis piange. Se poi nei prossimi giorni arrivano gli alieni e cominciano a distruggere tutto il mondo (a partire dalla Casa Bianca) a sparaflashate di raggi laser, perlomeno sapremo con chi prendercela. Nel frattempo, ecco il concerto:
Ahleuchatistas (+ dj Balli) @ Spazio SI (Bologna, 8/4/2010)
Altra serata di ardite impalcature sonore e accostamenti estremi al SI courtesy of la longa manus dei folli idealisti di Offset; dopo la triturante accoppiata Ruins-Sabot è la volta dei protégé di John Zorn Ahleuchatistas, opportunamente introdotti dalla tempesta di ultraviolenza psicosomatica generata da dj Balli, fresco reduce dalla sua ultima nefandezza – il folle reading-truffa situazionista “B. Corgan” (pare che a Roma abbia dovuto interrompere la performance perchè sennò gli menavano).
Balli si riconferma – se mai ce ne fosse ancora bisogno – l’incubo peggiore di chiunque da un dj set si aspetti schemi collaudati, moduli rassicuranti o – più semplicemente – pezzi con una struttura. Col cazzo: Balli crea l’esatto opposto, e la delirante mezzora imbastita questa sera non è che l’ennesimo tassello di una storia personale che continua a dipanarsi, inattaccabile per credibilità e convinzione, in perfetto bilico tra caos ragionato e ironia fulminante. Un incubo marinettiano di dischi suonati uno sopra l’altro, campionamenti di lezioni di educazione sessuale estrapolati da obsoleti 33 giri di (almeno) cinquant’anni fa, sfrigolii e repentine sciabolate di rumore in onde corte, il sample loopato di un dialogo tra Bombolo e Tomas Milian in cui il primo sta per mangiarsi un suo stesso escremento (con però sopra un po’ di parmigiano), ondate di bassi spaccabudella, clacson, sibili urticanti e rumori ‘trovati’ di ogni tipo, la puntina fatta girare e saltare sul piatto lanoso agitando il giradischi come se si stesse praticando il massaggio cardiaco a un cyborg, vecchi 45 giri jungle suonati a velocità alterate, versi di animali non identificati, gran finale con riproduzione della lettura della sentenza di assoluzione a Pacciani “per non aver commesso il fatto”. Non è niente di nuovo, ma riuscire a rendere ancora appassionante, divertente e imprevedibile questa roba è da veri professionisti, e questa roba Balli la manda avanti da quasi 15 anni. John Oswald la prenderebbe bene.
Gli Ahleuchatistas salgono sul palco che Balli deve ancora finire di mettere ordine nel macello – da lui stesso generato – di vinili senza custodia impilati uno sull’altro a lato della consolle. Avevano iniziato come trio grindcore, ma quella di stasera è tutta un’altra band; via il basso, un nuovo batterista reclutato nel 2008 grazie a un annuncio su myspace e della formazione originale è rimasto soltanto il chitarrista e mastermind Shane Perlowin. Shane è molto alto, quasi due metri, ha una faccia da venditore di aspirapolveri porta a porta, tiene la chitarra molto vicino al petto stile quinto Beatle però dissociato e al plettro preferisce le dita, che si tratti di fingerpicking rudimentale o di furioso tapping vanhaleniano poco importa; Ryan (il nuovo batterista, quello di myspace) è un bel biondone dell’Illinois paurosamente simile a Emanuele Filiberto con un fisico da fotomodello di biancheria intima, suona scalzo e – come quasi ogni batterista – ha almeno cinque o sei tic facciali diversi che ciclicamente gli devastano i lineamenti. Il loro prog math-rock al tempo stesso arieggiato e ottundente è quel che uscirebbe da un’ipotetica jam tra i mai troppo lodati 1 Mile North e i Don Caballero di 2; dai primi prendono l’amore per i suoni caldi e laceranti e la stratificazione delle chitarre (debitamente campionate e messe in loop tramite una bella serie di pedali), dai secondi la propensione per soluzioni e passaggi particolarmente contorti ed epilettici e il drumming arrembante, virtuosistico senza fartelo pesare, sclerato e jazzmetalloso, ma sono indicazioni di massima. Insieme legano bene, musicalmente e umanamente: si divertono, scherzano tra di loro e col pubblico e suonano con scioltezza pezzi ingarbugliati come uno studio per piano di Rachmaninov facendoteli sembrare roba facile. Soprattutto, si capisce che quello che stan facendo gli piace: tengono banco per quasi un’ora e mezzo, tornano sul palco due volte per altrettanti bis, sudati e stremati scattano foto alla platea e alla fine del concerto sembra veramente di essere stati a vedere gli AC/DC al Coliseum. Poi tutti a fare delle chiacchiere nel cortile del teatro San Leonardo, dove il povero Sean si è dovuto sorbire un interminabile e sconclusionato pippone (mio) su Mick Barr e su quanto sarebbe bello se andassero in tour assieme. Grandi anche nella pazienza.
RUINS alone + SABOT @ Spazio SI (Bologna, 25/3/2010)
(foto presa da qui)
Serata nefasta per un concerto, c’è Santoro al Paladozza. Forse anche per questo sono pochi i temerari accorsi a un appuntamento imprescindibile per chiunque ami farsi massacrare i timpani con criterio: d’altronde non capita spesso che i Ruins (beh, metà Ruins per stavolta) passino da queste parti (l’ultima volta mi pare cinque anni fa a Reggio Emilia, se la memoria non falla), e ancora più raramente un’accoppiata così micidiale si legge sui cartelloni. Quando i Sabot attaccano, probabilmente Luttazzi ha appena cominciato a enunciare la sua teoria riguardante la corrispondenza tra quel che passa per la testa dell’elettore medio di Berlusconi e le tre fasi del sesso anale. Il duo statunitense da decenni ricollocatosi in uno squat nella repubblica ceca era già passato da Bologna diversi anni fa per una furiosa esibizione agli albori dell’xm24; molti dei presenti di allora sono di nuovo qui a rendere omaggio a una delle band più pure, integre e fieramente underground di sempre, al cui confronto persino i Fugazi diventerebbero azzimate rockstars. Il loro personalissimo sound, una strana fusione tra l’hardcore evoluto dell’asse Black Flag-Minutemen, noise jazzato e punk primordiale, un amalgama letteralmente indefinibile per il quale è stato coniato il termine bass’n’drums (in effetti, che altro vuoi dire?) e a cui gruppi come godheadSilo o i nostri Zu devono ben più di un po’, rende decisamente meglio in versione live piuttosto che intrappolato nelle restrittive maglie di un CD (ed è forse la ragione per cui la band stessa nel 2006 ha ristampato praticamente l’intera discografia – da tempo introvabile – in un unico cd di mp3 a 192k, come a ribadire l’importanza primaria del materiale eseguito in concerto rispetto al momento dell’incisione in studio). Temprati da innumerevoli performance (questo è il tour del loro ventesimo anniversario), da incalcolabili assi di palchi calpestati, da centinaia di migliaia di kilometri macinati su furgoncini scassati, i Sabot lavorano ai fianchi, con fulminea improvvisazione e impressionante fluidità, una setlist che comprende tanti loro superclassici (per chi li conosce) stravolti, trasfigurati, scorporati e riplasmati l’uno nell’altro senza soluzione di continuità, come ectoplasmi deformi in un quadro di Francis Bacon. È incredibile quanto rumore si possa produrre con soltanto una batteria da quattro soldi e un basso con un solo pedale. Pochissime le pause e notevole la visione d’insieme: il bassista Chris Rankin (50 anni il prossimo 1° maggio, celebrati con una festa di compleanno a cui chiunque vorrebbe partecipare) imbraccia lo strumento con la svagata nonchalance di un pedofilo con l’impermeabile all’uscita di una scuola elementare, mentre l’androgina Hilary Binder – l’unico incrocio possibile tra un androide, Meira Asher e un camionista incazzatissimo in libera uscita – si accanisce sui tamburi come se non ci fosse un domani, tanto che a meno di metà scaletta la canottiera militare da Soldato Jane che indossa è già fradicia di sudore. Musica nata per essere marginale, per risuonare tra le pareti dei centri sociali più fetidi dopo lunghe notti di passione e rabbia. Speriamo che i Sabot possano tenerci compagnia per molti altri anni ancora.
(foto di Offset)
Tatsuya Yoshida ha l’aria di un programmatore di software sull’orlo dell’esaurimento nervoso. Indossa una maglietta arancione più grande di un paio di taglie e pantaloni militari del colore della merda di coccodrillo; si muove con la calma innaturale e la furia trattenuta di un serial killer a riposo che soltanto a costo di sforzi sovrumani riesce a mantenere un contegno. Porta sulle spalle ossute tutto il peso delle deliranti architetture sonore progettate nel corso di una carriera che ha già oltrepassato il quarto di secolo, e ha problemi con la pedaliera e un microfono. Durante il soundcheck si agita e smania e comincio a temere il peggio quando mi rendo conto che userà la stessa cenciosa batteria dei Sabot, e per giunta lo vedo scagliare esasperato una bacchetta sul rullante e andarsene dopo l’ennesimo capriccio della spia che sembra proprio non voler saperne di funzionare. Miracolosamente viene risolto l’inghippo e l’uomo torna sul palco. Si siede dietro le pelli, schiaccia un pedale e… dà inizio a una delle dimostrazioni di violenza e devianza mentale più radicali e agghiaccianti che io abbia avuto modo di testimoniare in tutta la mia vita. Free grind, noise, jazz, polka, opera lirica (…), industrial, prog, math rock, thrash metal e, beh, più o meno qualsiasi altra cosa sia mai stata prodotta da uno strumento qualunque viene triturata passando attraverso quel colossale frullatore umano che è Yoshida, uniche armi braccia gambe la batteria e un Kaoss Pad azionato seguendo criteri manicomiali. Ogni tanto lancia qualche acuto raccapricciante tra una rullata schizofrenica e l’altra ed è tutto lì, il senso di tutto quanto sta proprio in quei terrificanti gorgheggi da castrato strafatto di assenzio che sembrano parlare un’altra lingua, magari la lingua di qualche orribile mostro lovecraftiano che, sommerso nell’abisso più insondabile, da eoni dorme il suo sonno millenario. È roba pericolosa. Roba che risveglia gli istinti più animaleschi e inconfessati. Che istiga a commettere una strage. Va avanti per venticinque minuti, al termine dei quali nessuno oserebbe pretendere di più, e il silenzio arriva quasi come una ricompensa. Un gigante.
MATTONI issue #1: Teeth Of Lions Rule The Divine
La cosa più significativa a cui i Sunn O))) abbiano mai preso parte non è uscita a loro nome. In altre parole: il disco migliore dei Sunn O))) non è dei Sunn O))). A fine 2000 Greg Anderson e Steven O’Malley salgono su un aereo e vanno a trovare Lee Dorrian per passare le vacanze di Natale insieme; il giorno dopo capodanno affittano uno studio di registrazione a Nottingham per 48 ore e ci si chiudono dentro a jammare senza sosta (la formazione è completata dall’ex-Iron Monkey Justin Greaves alla batteria). L’estate successiva Dorrian, assieme a Billy Anderson, screma il materiale e reincide parte delle vokills; questa è la genesi di Rampton, tra i dischi più ingiustamente dimenticati dello scorso decennio, sicuramente tra i più radicali e cruciali, forse l’unico capace di portare a un nuovo livello contemporaneamente doom, sludge e noise, a traghettarli nel terzo millennio meglio di chiunque altro e anni prima che la kritika ke konta scoprisse l’acqua calda sdoganando alla cazzo – per l’appunto – i Sunn O))). Rampton (che è il nome del famoso manicomio del Nottinghamshire, fondato nel 1912 e tuttora operativo) esce sotto la ragione sociale Teeth Of Lions Rule The Divine, che era il titolo di un pezzo degli Earth contenuto su quello Special Low Frequency Version che i Sunn tanto amano plagiare; il brano che apre l’album si intitola He who accept all that is offered (feel bad hit of the winter), è vagamente ispirato a una serie di brutti trip che colpirono Dorrian al ritorno da un micidiale lost weekend ad Amsterdam e dura mezz’ora. I primi nove minuti sono occupati da rullate di batteria spastiche quanto incontrollate, apparentemente prive di costrutto, su cui lentamente si dipana un feedback che inesorabilmente cresce in intensità rendendo l’atmosfera da freak show all’LSD ancora più opprimente, il senso di minaccia latente via via sempre più tangibile. La voce di Lee Dorrian, trasfigurata, deforme, immane, esplode sguaiata al decimo minuto, contemporaneamente all’eruzione di chitarra e basso, un’orgia di bassissime frequenze ad accompagnare un rantolo che non conserva più nulla di umano. Di quel che latra non si capisce niente, e probabilmente è un bene: le farneticazioni sono minuziosamente riportate parola per parola, con certosina pazienza, in un libretto allucinante dove confluiscono stile liberty, stampe del ‘500 e outsider art della più perturbante mai concepita, ma i testi scritti a mano in sghembi e diseguali caratteri gotici rendono la decifrazione un’autentica tortura per gli occhi. Il flusso di coscienza prosegue fondamentalmente inalterato per venti minuti che possono diventare ore, o giorni, non a caso il pezzo termina sfumando, rendendo impossibile determinare la durata effettiva di questo delirio che rimane ad oggi la cosa più emozionante e realmente estrema a cui 3/4 dei componenti abbiano mai preso parte (resta fuori, per manifesta superiorità, Lee Dorrian, già presente nel lato B di Scum, in From Enslavement To Obliteration e ideatore principale di quella pietra angolare del doom e della musica pesante in genere che è il primo demo dei Cathedral, In Memorium).
Con questo inizia una nuova rubrica di Bastonate, si chiama MATTONI e parla ogni volta di un pezzo diverso che duri 20 minuti o più.
DISCONE: Martin Rev – Stigmata
A chi non conosce il personaggio, ma anche a chi lo conosce ma ignora le motivazioni alla base di questo disco, “Stigmata” sembrerà uno scherzo malriuscito, un pessimo giochino situazionista o un’ulteriore, agghiacciante dimostrazione di irrimediabile inettitudine (non bastassero in tal senso tutti gli sgangherati, rustici, abborracciatissimi album precedenti); diventa invece assolutamente straziante se ne si conoscono le cause. È il 2008 quando esce, completamente in sordina (gli stessi proprietari dell’etichetta che aveva sotto contratto Martin al tempo, File-13, ricevettero il master all’improvviso e in maniera totalmente inaspettata, una mattina davanti alla porta dell’ufficio sotto forma di un’anonima busta sigillata), “Les Nymphes“, concept album astruso e manicomiale su qualche imprecisata usanza degli antichi greci; evidentemente Martin era entrato in fissa con l’idea di concept album visto che, parallelamente alla gestazione di “Les Nymphes“, aveva iniziato a lavorare al materiale che avrebbe poi fatto parte di un nuovo e ulteriore concept allora in stato embrionale, in pratica una messa da requiem riveduta e corretta da par suo. Alla stesura partecipava, come sempre, la moglie Mari, da oltre trentacinque anni musa, collaboratrice, ispiratrice e compagna di vita dell’uomo; fin dagli inizi nei Suicide, era lei a scattare le foto, a elaborare la grafica dei flyer dei concerti, a progettare le immagini di copertina. A lei Martin dedicava ogni album (andate a controllare sul dorso del primo Suicide; andate a vedere come si intitola il primo pezzo del suo primo disco solista). Perfino la sigla con cui era registrato all’equivalente americano della SIAE, MaRev, non corrisponde, come molti pensano, all’abbreviazione del proprio nome e cognome, bensì alle generalità della moglie da sposata: Mari Reverby. Insomma i due stanno lavorando al disco nuovo quando Mari improvvisamente si ammala e muore, stroncata da un male fulminante. Martin è sconvolto, annientato. Per un po’ non trova la forza di reagire, pensa che sia tutto finito. Si chiude in un insanabile dolore, tronca i contatti col mondo. Poi la folgorazione: grazie anche a lunghi risolutori colloqui con l’amico Alan Vega, si impone di portare a termine la lavorazione dell’album, che nel frattempo aveva assunto un significato ben più tragico e profondo, un requiem personale, il suo morto da piangere. A uscirne è un disco impressionante, un viaggio nei meandri dell’anima di un uomo devastato, una vela nel vento, una sonda che scruta nell’oscurità più impenetrabile con commovente fermezza e donchisciottesca audacia, tra elementari ventate di synth sepolte da echi catacombali e fantasmatici uuh-uuh che squarciano il buio come vaganti ectoplasmi. È uno dei dischi più spaventosamente sinceri e inermi che siano mai stati messi al mondo, di un’intensità e una carica di dolore tali da prostrare: si esce defatigati, profondamente provati dall’ascolto di Stigmata, eppure lo stato d’animo che l’album apporta è di liberazione, direi perfino di gioia. La gioia che infonde la fragorosa manifestazione di fede assoluta di Martin, nella consapevolezza che Mari ha spalancato le sue ali e in letizia è volata tra le amorevoli braccia del Divino (come si legge nella struggente dedica finale). Da accostare idealmente ai film di Bresson, di Paul Schrader, al Cattivo Tenente di Ferrara e al Diamante Bianco di Herzog, e in generale a tutti quelli che silenziosamente, nell’ombra, continuano incrollabilmente a credere.
(foto di deSna.B)
PS: dopo lungo cogitare ci è sembrato di poter stabilire che il brano eseguito in apertura del concerto di spalla ai Pan Sonic fosse una schizoide versione “cantata” di Sophie Eagle, il brano che apre Les Nymphes.
Badilate di cultura: Vitaliano Trevisan
Chi abbia visto in questi giorni C’era una volta… la città dei matti, romanzato biopic su Franco Basaglia trasmesso su Raiuno domenica 7 e lunedì 8 febbraio (e graziato di un titolo che rivaleggia in appeal con prodìgi della nostra lingua tipo Ai cessi in tassì o Fatti, strafatti e strafighe), potrà aver intercettato, nel mare magnum dell’azzeccatissimo cast di facce da galera e/o TSO immediato, un viso familiare. È il nazo acrimonioso ma perspicace Nanut, interpretato da Vitaliano Trevisan. Costui è un personaggio che gli intellettuali conoscono bene: dalla fine degli anni novanta scrive libri amarissimi, tetrissimi e intrisi di cinismo ben oltre la soglia del tollerabile, pesantemente debitori di conclamati professionisti dell’allegria come Cioran, Canetti e soprattutto Bernhard (lui dice che no, ma tanto per non alimentare questo tipo di paragoni poi chiama i protagonisti di tutti i suoi romanzi Thomas); più o meno dalla metà del decennio successivo, all’attività narrativa affianca quella teatrale, curando alternativamente o contemporaneamente testo, regia e drammaturgia di opere portate in scena, tra gli altri, da Toni Servillo, Anna Bonaiuto e egli stesso; ha all’attivo anche un monologo scritto appositamente per Roberto Herlitzka, uno con una faccia capace di spaventare il Diavolo in persona. Questione di affinità: anche Trevisan infatti, in questo frangente, non scherza manco per il cazzo. Con quel cranio adunco da folletto malevolo, con quello sguardo gretto e malvagio da usuraio dickensiano e quel ghigno perenne da depravato lobotomizzato, se il povero Steven Jesse Bernstein l’avesse incontrato per strada o a scuola probabilmente non avrebbe mai scritto Face (e neppure avrebbe coltivato psicosi maniaco-depressive sfociate infine nel suicidio). L’impatto è notevole. A prima botta pare un folle mash-up tra Emidio Clementi, Hobgoblin e Ulrich Mühe versione Le vite degli altri però crudele; roba che sembra uscita dagli agghiaccianti incubi urbani di Ulrich Seidl quanto dalla penna di un Moebius in acido, che avrebbe mandato in estasi Fellini e ispirato Giacometti, comunque vada, una faccia che se la vedi non la dimentichi. Una faccia da cinema come ce ne sono poche. Se ne accorge lo scaltrissimo Matteo Garrone, già allora in aria di santificazione (che diverrà definitiva dopo l’exploit di Gomorra), specializzato in dark movies fastidiosi e artatamente perturbanti, evidentemente preoccupato di spingere ancora più giù il pedale del proibito e dell’urticante dopo il nebbioso e frocesco L’imbalsamatore (dove imperversava l’inquietante caratterista Ernesto Mahieux, un nano storpio con tre dita nella mano sinistra): scrittura Trevisan, all’esordio davanti alla macchina da presa, come protagonista dell’abominevole Primo amore, lontanamente ispirato alla figura di Marco Mariolini “il killer delle anoressiche”. È un’epifania: tanto il film è rivoltante, presuntuoso, normativo e programmaticamente sgradevole fino all’autoparodia, quanto Trevisan è spaventosamente inappuntabile nell’incarnare fino alla più invereconda delle atrocità psicologiche una lucidissima follia senza causa né scopo. Sarà per quella faccia che si ritrova, sarà per il fascino magnetico da non-attore à-la Bruno S. paradossalmente conferitogli dall’inesperienza, sarà infine perché il film è ambientato praticamente a casa sua, ma raramente come in questo caso la fusione tra persona e personaggio diventa inscindibile, totale. Ho sentito storie fantascientifiche sulla lavorazione, del tipo che, iniziata da poco la pre-produzione, Trevisan chiama Garrone nel cuore della notte per discutere di persona a proposito di variazioni importantissime sulla sceneggiatura, Garrone la mattina dopo prende su e – da Roma – raggiunge in macchina, in un’unica tirata, in piena estate, quel paesino sperduto nell’hinterland vicentino più bieco dove Trevisan vive, il tutto solo per sentirsi dire qualcosa come “Secondo me in questa scena devo indossare una camicia bianca“. Che l’uomo sia pazzo, a questo punto, diventa ben più di un’eventualità. Stupisce piuttosto che riesca a disciplinarsi (o a trovare registi che lo sopportino, non so dire) al punto da ripetere per altre due occasioni l’esperienza cinematografica, comunque sempre in luoghi e dimensioni a lui ben famigliari – crf. Riparo (2007), dramma saffico e multietnico (c’è anche Maria De Medeiros, la fidanzata di “Butch” in Pulp fiction) nuovamente ambientato nel nordest più estremo; il recente Dall’altra parte del mare (2009) non l’ho visto, ma ho letto che è in parte ambientato a Trieste.
Che in C’era una volta… la città dei matti Trevisan impersoni un matto del nordest è in un certo senso la chiusura di un ciclo; meno ovvio rilevare l’assoluta efficacia di un’interpretazione straordinaria per ispirazione e rigore, dimostrando di aver compreso i meccanismi che governano la produzione cinematografica con una velocità impensabile per un profano, imprevedibile perfino alla luce di una rivelatoria dichiarazione rilasciata al Mucchio Selvaggio nel 2007, in cui affermava che Ciò che più mi piace [del mestiere di attore] sono il vuoto dell’attesa, il non essere e l’abbandono. Mantenendo il controllo. Aveva già capito tutto.