L’agendina dei concerti Bologna e dintorni – 28 marzo-3 aprile 2011

 

immagine presa da ilbonvi.it

Correte a rispolverare i dischi dei Discharge e le VHS di Mad Max (il secondo e il terzo in particolare), e magari già che ci siete fate fare un altro giro al Divx di Threads scaricato l’altroieri: arriva la nube radioattiva. Prima che comincino a nascere vitelli con tre teste e pesci con sei occhi, che l’insalata diventi fluorescente e al posto delle dita ci crescano strane vibrisse retrattili forse faremo in tempo a spararci qualche concerto; nel dubbio, questo è quel che succede in città nella settimana sotto il cielo avvelenato da Fukushima.
Questa sera al Clandestino arrivano gli islandesi più svenevoli e autistici dai tempi del primo dei Sigur Ròs, si chiamano Hjaltàlin e riporteranno l’inverno nel tinello di casa a costo zero, dalle 22.30. Öæðùèèèèðýðvéöööö.
Domani dovrebbe esserci Stefano Bollani che reinterpreta i pezzi di Frank Zappa al Teatro Carisport a Cesena, anche se l’aggiornatissimo sito del posto dice diverso; 3-1 Vaffanculo in ogni modo. Mercoledì a MeryXM suonano i Satan Is My Brother: FSCHHHHHHHHHHHH, FRRRRRRRRRRRRRRRR RRRRRRRRRRRRRRRRRRRRRRRRR KKKKKKKKKKRRRRRRRRRRRRRRRRSCHHHHHHHHH e via dicendo. Al momento non riesco ad accedere al sito dell’XM24 quindi dovrete credermi sulla parola. Inizio presentazione intorno alle 20.30, inizio concerto intorno alle 23. Mercoledì e giovedì al Palanord ci sarà anche Degustacion de Titus Andronicus, il nuovo pirotecnico e mangereccio allestimento di quei mattacchioni de La Fura Dels Baus, inizio ore 21.30, ingresso trenta euro, obbligatorio presentarsi ingioiellati e/o con la faccia da stronzi di chi se la tira così per il gusto di tirarsela: il pubblico sarà di quelli di un certo livello. Giovedì alziamo il dito medio a Van de Sfroos alle Celebrazioni (tra parentesi, sarebbe anche il caso di cominciare a bruciare fino all’ultimo degli agghiaccianti manifesti della Lega Nord di cui Bologna è ultimamente tappezzata…), c’è Tizio al Circolo della Grada (di solito è gratis con tessera Arci ma capace che stavolta chiedono dù spicci, non so).
Venerdì c’è tale Dan Deacon al Locomotiv; lui è l’ennesimo protégé di quelle merde di pitchfork ma ad accompagnarlo c’è la Banda Roncati e solo per questo il concerto vale almeno tutta la risma di biglietti (che stanno a dieci euro l’uno più tessera AICS); l’inizio è fissato attorno alle 22.30, il che lascia un margine di manovra per poi catapultarsi al Sottotetto per quella che probabilmente sarà la jam dell’anno, per non dire del decennio, per non dire della vita: Alien Army reunion, e per chi sa non è necessario dire altro. Dieci euro più tessera Sottotetto il lasciapassare per la Storia. E sabato si replica con Colle der Fomento giù al TPO (dalle 22, dieci euro) a dare la merda a qualunque fiacco MC che quando hanno cominciato manco stava ancora dentro ai coglioni di papà. Magari si riesce a fare la doppia con PropheXy e Stereokimono alla Farm (che sta a un centinaio di metri dal TPO). C’è anche la lardosa Miss Kittin al Link e gli stoccafissi elitaristici Ulver al Bronson (21.30, venticinque euro).
Gran finale domenica con concertone frigotecnico all’XM24 (maggiori informazioni, flyer ecc. appena riesco ad accedere al sito); ci sono anche i Twilight Singers al Locomotiv (sedici euro più tessera AICS, no rianimazione, di spalla dei tizi che si chiamano Craxi, poveri cristi…), Lloyd Cole in chiesa e, per chi ci crede, ennesima tranche dell’infinito Glam Fest all’Estragon.

 

L’agendina dei concerti Bologna e dintorni – 21-27 marzo 2011

 

al prossimo che sento cianciare a proposito della "dignità dei giapponesi" gli infilo questo vinile su per il culo.

È arrivata la primavera, come diceva anche Marina Rei. L’ex Fragilecontinuo festeggia da par suo con un concerto aperitivo di BeMyDelay + Rella the Woodcutter; oggi pomeriggio dalle 19, prima tutti ai Giardini a suonare le prime trombe della stagione. Martedì gran festa per gli amanti del thrash metal coi riffettini puliti a mitraglia e il giubbetto di jeans con la toppa dei Forbidden e tanti altri loghi improponibili, arrivano i lungocriniti Lazarus A.D. e i molesti latinos Bonded By Blood (originali fin dal nome) in data unica al Blogos (dalle 21.30 con Criminal Side e Injury di spalla; quindici euro). Mercoledì a MeryXM si parla di Frigidaire insieme  a Vincenzo Sparagna (non un coglione qualunque che ha scoperto il più grande giornale della storia dell’Umanità l’altroieri chissà come); imperdibile, dalle 20.30. Poi dopo c’è anche un concerto.
Giovedì il delirio: per i froci stilosi ci sono gli Stereo Total al TPO (dalle 22, non so il prezzo), per gli hipster senza una ragione ma col frangettone colorato gli Everything Everything (purtroppo niente a che vedere con gli Underworld a nessun titolo) al Covo (dalle 22, ingresso boh?), mentre per le teste metal che si sentono molto vikinghe o celtiche nell’animo la nuova edizione della Pagan Fest all’Estragon (dalle 18.30, venticinque euro, non entri se non indossi almeno un capo in pelliccia di vero animale morto possibilmente soffrendo, vegetariani e astemi fuori dal cazzo). Venerdì rispolverate il crocifisso della nonna e la tonaca stile “il nome della rosa” del carnevale scorso, al Locomotiv arrivano i Current 93 in data unica (dalle 22, ventitrè euro più tessera AICS, fondamentale una flebo di sali minerali da casa che probabilmente si evapora); poi un paio di cucchiaiate di horse power e via di nuovo in forma per Villalobos al Kindergarten (trentacinque euro). Sabato si festeggia il decennale dell’Atlantide con Raein, Sumo, Affranti e release party del nuovo D.U.N.E. (dalle 22.30, siateci che dice che l’anno prossimo la chiudono); domenica Glam Fest al Sottotetto coi mitologici Vain e tanti altri gruppi che farebbero diventare eterosessuale ingrifato anche Ratzinger.

Giovedì, venerdì e sabato al dalle 19 alle 3 (sabato fino alle 24 poi gran festone finale al Locomotiv a oltranza) si terrà la nona edizione di Homework Festival: programma da urlo, prezzi ultracontenuti (soltanto cinque euro la sera del venerdì e dieci per il closing party al Locomotiv), cucina tipica, stare bene. Spettacolare l’immagine scelta a rappresentare l’evento; è il panorama che vedo ogni volta che vado verso l’XM. Bella la città.

MATTONI issue #13: ELUVIUM

 
Matthew Cooper è il punto di incontro tra i Mogwai e Ludovico Einaudi. Nei suoi dischi puoi trovare con la stessa facilità tanto le scariche di feedback grondanti malinconia dei primi quanto il minimalismo alla buona da compilation new age nel cestone dell’ipermercato del secondo. Fino a qualche anno fa nei suoi dischi Cooper si dedicava alternativamente all’uno o all’altro aspetto, nel senso che un suo disco era solo chitarra lancinante ipereffettata o solo piano melenso da sala d’attesa dal dottore, ed erano i suoi dischi migliori (nello specifico, l’etereo Talk Amongst the Trees per quel che riguarda strati su strati di chitarre distorte che generano amarezza e chiamano rimpianto, e An Accidental Memory in the Case of Death per l’Einaudi-karaoke però preso male e autenticamente dolente). Da quando ha deciso di fare entrambe le cose contemporaneamente ho perso progressivamente interesse per la sua musica sempre più tetra e svenevole come un armadio polveroso pieno di bambole di ceramica, sarà anche perché inconsciamente lo ricollego a un periodo della mia vita in cui compravo a scatola chiusa qualsiasi disco Temporary Residence, roba che a posteriori probabilmente non rifarei (mi risparmierei così una buona dose di orchiti fulminanti e prese a male assolutamente gratuite).
Quando però sono venuto a sapere che il nuovo album di Eluvium prevedeva in scaletta un’unica traccia di 50 minuti un barlume di attenzione si è riacceso in me. Impossibile anche solo pensare di comprarne una copia fisica: la prima (e unica) tiratura di 200 esemplari assemblati a mano è andata bruciata in meno di 48 ore. È in compenso possibile ascoltare Static Nocturne (questo il titolo del tour de force cooperesco) integralmente su Bandcamp ed eventualmente acquistare l’mp3 al prezzo di otto dollari, ma è una mossa che personalmente non consiglierei a meno che non sentiate il disperato bisogno di un sottofondo vagamente fastidioso mentre sbrigate le faccende di casa più monotone, tipo dare la cera alle piastrelle del cesso; ci sono in realtà circa sei-sette minuti di chitarra languida all’inizio ed altri cinque-sei di piano lacerante verso la fine che sono tra le cose migliori mai incise dall’introverso polistrumentista, il problema è che nei restanti quaranta e rotti non accade assolutamente nulla a parte un continuo e irritante sciabordio di rumore bianco, e comunque anche quel poco di (ottima) musica è sepolto da strati di feedback ondivago e scariche elettrostatiche che rendono l’insieme soltanto lontanamente intellegibile. Io il disco l’ho ascoltato sotto Natale assieme al Christmas EP di Jesu, la neve sulle strade e tutto il resto, e l’effetto nel complesso è stato pure abbastanza deprimente (nel senso buono), e magari finché continua a fare freddo e a venire buio presto Static Nocturne può pure avere un suo perché, ma per ora non ho nessuna voglia di ripetere l’esperimento e difficilmente me ne tornerà in futuro. Peccato, a mettere insieme quei dieci minuti celestiali ne usciva il pezzo più bello di Eluvium, così invece è soltanto poltiglia sfrigolante per semiautistici e lunatici solipsisti irrimediabili.

Gruppi con nomi stupidi: MOANAA

 
Loro sono polacchi e sicuramente nella loro lingua “Moanaa” significa qualcosa di oscuro e tetro e introspettivo o comunque in tema con l’introverso e umbratile post metal che propongono, ma a chi di język polski non mastica nemmeno una parola, e magari è stato giovane in Italia intorno agli anni ottanta, il loro nome evocherà tutt’altro. O forse è soltanto una mia fissazione, la stessa che per esempio mi ha impedito di prendere minimamente sul serio il pastiche fantahorror-ultragore Il Labirinto del Fauno dal preciso istante in cui viene fuori che il nome di un personaggio era – per l’appunto – Moana. A scanso di equivoci, questi Moanaa sono quanto di più lontano possa esistere dal più vago odore di proibito e pornesco: musi lunghi, sguardi fissi verso il pavimento, magliette dei Minsk a tutto andare, e spesso e volentieri il temibile grugno dell’inquietante visual artist K-vass (una specie di Z’EV rasta se riuscite ad immaginarvelo) sbattuto in faccia ai concerti. Roba da ammazzare la libido anche al più infoiato dei camionisti dopo sei mesi passati ininterrottamente al volante. Lo scorso maggio hanno messo in rete un EP di tre pezzi che per qualche incomprensibile movimento della psiche mi ricorda Sweet Daisy degli Sludge (uno dei gruppi più criminalmente ignorati di sempre), chissà perchè, forse perchè dura mezz’ora; lo si può ascoltare su bandcamp o dal loro myspace. Non è male. Chitarre liquide alternate a legnate moderatamente cattive tipo versione blanda dei Mouth of the Architect, sporadici inserti di vocals filtrate (altrimenti il mood è sul sofferente andante), da qualche parte i santini dei Pelican, dei folli Isis e dei Neurosis post-A Sun that Never Sets (il che non è che sia esattamente una bellezza, ma fa lo stesso), qualche fuga psichedelica di tanto in tanto, ma roba tranquilla, da cannetta leggera poco prima di addormentarsi, e il disco termina veloce così come era iniziato, e ridendo e scherzando un ascolto tira l’altro mentre il sonno tarda ad arrivare. Con una produzione più sporca sarebbe stato un gioiellino. Sono giovani, si faranno.

QUATTRO MINUTI: James Blackshaw – All Is Falling (Young God)

 
VIA

Sarebbe anche un MATTONE, non fosse che il disco è diviso in otto “momenti” senza titolo; il regazzino che già ci aveva abbondantemente sfracellato i coglioni con lunghissime suite tra fingerpicking ipnotico di stretta osservanza Fahey e inserti di effettistica alla buona si lascia prendere da manie di grandezza (voglio dire, ancora più del solito) e gioca la carta del minimalismo orchestrale con (tra gli altri) violini, flauto, sax, voce e violoncello. L’effetto globale oscilla tra lo stucchevole, il patetico e il so bad it’s good, anche se l’ultima traccia è molto bella (ma sono solo otto minuti su un totale di 45). Verrebbe da dire: un po’ come l’ultimo degli Swans, ma poi

STOP

L’agendina dei concerti Emilia Romagna – 9-15 agosto

 

Bologna è una wasteland da far scappare via piangendo tanto T.S. Eliot quanto Billy Idol; in compenso, i concerti in giro per l’Emilia Romagna non mancano. L’unica soluzione praticabile per i drogati di live risiede in un nomadismo ancora più serrato rispetto a settimana scorsa. Intanto i cyberterroristi che stanno sul pezzo questa sera saranno tutti a celebrare gli Skinny Puppy al Rock Planet; personalmente sarò altrove a rosicare semplicemente perchè me ne ero scordato e ormai è troppo tardi. Domani si torna tutti tredicenni foruncolosi alle prese con le prime tempeste ormonali di una pubertà complicata; camicia a quadri e calzoncini altezza ginocchio l’abbigliamento raccomandato, ci sono Lagwagon e No Use for a Name al Velvet. Unico handicap: il prezzo (venticinque euro per un amarcord di quanto eravamo brutti, repressi e impresentabili è decisamente troppo). Mercoledì 11 i reduci troveranno pane per i loro denti al Coccobello di Carpi con Federico Fiumani versione “Confidenziale”: via i panni del sodomita impenitente (forse) per una sensibile performance in acustico, voce e chitarra e tanta nostalgia per quando non avevamo ancora il ciuffo ramato. Giovedì 12 tutti a Marina a ingurgitare acidi come fossero caramelle, ci sono i Besnard Lakes al bagno Hana-Bi; consigliata maschera antigas per tentare di contrastare il fetore di piede lercio degli hippy con sandalo e ascella feroce che, ne siamo convinti, accorreranno a frotte. Venerdì 13, a dispetto della data minacciosa, l’appuntamento più atteso (perlomeno da queste parti): i Real McKenzies al What Is Rock? a Portomaggiore. Campeggiatori, sappiate quel che state facendo. Sabato e domenica tutti ad ammazzarsi di gavettoni e maratone dj-istiche nel delirio ferragostano; occhio giusto a non finire accoltellati da qualche napoletano in libera uscita.

Sun Kil Moon – Admiral Fell Promises (Caldo Verde)

 
Ormai ho perso il conto delle uscite targate Mark Kozelek negli ultimi anni. Che l’uomo avesse deciso di passare alla cassa non è più un mistero per nessuno da almeno un decennio, e per carità, è una scelta che rientra nel suo pieno diritto; ricordo ancora una sua intervista, doveva essere l’inizio del 2001, in cui dichiarava di vivere in una stanzetta in affitto con l’incubo perenne dello sfratto esecutivo, all’epoca evitato per un soffio grazie al cachet percepito per la sua partecipazione in Quasi Famosi. Veniva veramente da chiedersi perchè gli altri sì e lui no. E che diamine! Gentaglia impresentabile imperversava ovunque (tanto per ricordare, una delle new sensation dei tempi erano i bruttissimi Kings of Convenience), mentre otto anni di carriera irreprensibile con i Red House Painters bastavano a malapena a coprire parte delle spese di una vita di stenti. Mi si era stretto il cuore nel leggere quelle parole, e ad aver saputo il suo indirizzo gli avrei immediatamente spedito qualche dollaro e un paio di scarpe per l’inverno. Musicalmente nessun problema comunque, finchè la qualità ha tenuto: l’EP Rock’n’Roll Singer (2000) era decisamente buono, così come What’s Next to the Moon (2001, raccolta di classici degli AC/DC dell’era Bon Scott spogliati di ogni alito di vita e aggressività, trasfigurati e resi irriconoscibili), per quanto strampalato e bizzarro – o forse proprio per questo – continua ad avere un suo perchè. Nel frattempo era finalmente uscito anche il canto del cigno dei Red House Painters, Old Ramon, bloccato per anni da beghe burocratiche con la major incompetente di turno che non voleva pubblicarlo ma nemmeno intendeva cederne i master, e anche quel disco era un bel disco. Con la nascita dei Sun Kil Moon, poi, la penna dell’uomo era tornata a volare alto: l’esordio Ghosts of the Great Highway (2003) è un capolavoro assoluto, perfettamente in grado di tenere testa alle cose migliori degli anni d’oro, a volte perfino capace di superare vette di ispirazione e lirismo fino ad allora ritenute inviolabili (pezzi come Salvador Sanchez o la torrenziale Duk Koo Kim aggiornavano l’antico canovaccio portandolo al livello successivo grazie all’innesto, perfettamente riuscito, di poderose distorsioni e perfino – incredibile! – qualche assolo). Ghosts of the Great Highway è stato anche l’ultimo sussulto di ispirazione prima del diluvio di uscite assolutamente prescindibili a voler essere buoni: l’album di cover dei Modest Mouse si dimentica agevolmente; i mille live per sola voce e chitarrina sono una noia mortale, tutti, dal primo all’ultimo; la ristampa di Ghosts of the Great Highway comprende un secondo CD di scarti e out-takes che definire ‘superfluo’ sarebbe fare uno sgarbo alla categoria; di April  (nel mezzo c’è stato il ruolo di spalla “saggia” dell’insopportabile Jason Schwartzman nel caruccio Shopgirl, innocuo adattamento cinematografico del romanzo d’esordio di Steve Martin) sono molto belli solo gli ultimi due pezzi, il resto è pilota automatico puro, un tedio da orchite fulminante che si fa fatica a crederci. E ora il ritorno con il moniker Sun Kil Moon, nella pratica nulla cambia: c’è solo Kozelek con la sua chitarrina spagnoleggiante, del resto assumere personale da mettere dietro agli strumenti – e affittare una sala prove, per giunta – avrebbe comportato spese. Gli ingredienti sono gli stessi delle ultime 5.674 uscite: voce mormorata riverberata mugugnata, chitarrina languida mezzo brasileira, comunque sempre picchiettata tipo plin-plon, qualche foto virata in seppia di particolari desolanti e/o posti abbandonati in culo al mondo, ed ecco pronto un altro disco. Anche i testi sembrano assemblati tramite un generatore automatico di liriche ‘alla Mark Kozelek’: ricordi d’infanzia, qualche figa che forse gliel’ha data (questo non lo dice mai direttamente, lo lascia intuire, perchè sennò poi le anime belle si scandalizzano), modelli di macchine (nota bene: Kozelek non sa guidare), nomi e marche, luoghi e date buttati lì un po’ a cazzo, l’Oceano, la spiaggia, ancora ricordi. In tutto questo manco mezzo secondo che non lasci il tempo esattamente come l’ha trovato. Quel che più intristisce è il senso di automatismo smascheratamente alimentare che emerge implacabile dal quadro generale, come se Kozelek avesse scritto e registrato il materiale con la mente già proiettata alla prossima uscita – probabilmente un live in Oklahoma in edizione limitata, gli stessi pezzi più qualche ripescaggio dei Red House Painters per accontentare i reduci, o magari una mezzoretta scarsa di cover di qualche gruppo scrauso, tipo i REO Speedwagon o Ted Nugent, il tutto rigorosamente riarrangiato per lagna salmodiante e chitarrina plin-plon, in ogni caso roba nemmeno brutta, semplicemente inesistente. Che fine indecorosa per uno dei più grandi poeti della musica rock degli anni ’90.

William Fitzsimmons @ Locomotiv, Bologna (22/11/2009)

(foto di Paolo Casarini)

Lui è un dissociato molto fortunato: figlio di genitori ciechi, infermiere nei manicomi, avrebbe continuato in eterno a suonare il suo folkettino malinconico e agreste nel disinteresse generale se qualche cool hunter più rintronato e imbottito di bamba del necessario non avesse deciso di usare alcuni suoi pezzi come sottofondo per le scene madri di un telefilm americano con dottori problematici. Apriti cielo: da allora diventa il più scaricato su iTunes nella categoria folk e, di conseguenza, il nuovo nome da citare per svoltare nelle conversazioni e il nuovo eroe di chiunque abbia fatto di “scopami, sono un tipo sensibile” la propria filosofia di vita. Ma rispetto ad altri cialtroni intimisti tipo Bon Iver e agguerriti stracciapalle coccolati da Pitchfork del cas(zz)o tipo i Fleet Foxes, gentaglia a cui Fitzsimmons viene spesso accomunato, l’uomo ha dalla sua una buona dose di autoironia che aiuta a sdrammatizzare e – soprattutto – almeno tre/quattro canzoni sinceramente belle. Oltre naturalmente a un temibile barbone foltissimo e ispido da fare invidia agli ZZ Top, cifra stilistica più evidente del suo crederci sul serio. Il nuovo The Sparrow and the Crow (notare il titolo uccellesco e menagramo e campagnolo come da prassi) è ancora caldo di pressa, lui viene da Pittsburgh, come George Romero, e ha appena divorziato dalla moglie: perfetto.
Apre Laura Jansen, giovane cantautrice americanolandese forte di un repertorio ancora esiguo (due EP autoprodotti e un album recentissimo) ma di gran classe: voce e tastiera e nient’altro, per una ventina di minuti ci catapulta tutti quanti in un jazz club buio e umido e fumoso a New Orleans in piena notte. Ed è anche simpatica: “questo pezzo non l’ho scritto io, altrimenti vivrei in una villa gigantesca e dormirei in un divano grosso sei volte il mio, che peraltro è pure sfondato”, e parte una cover totalmente trasfigurata di un pezzo dei Kings of Leon, pura merda da pestare che dopo il suo trattamento diventa oro fuso. Gran finale con pubblico incitato a schioccare le dita a tempo. Che bello se Laura Jansen si chiamasse Cat Power.
Poi è il turno di Fitzsimmons. Sul palco è solo con la sua chitarra acustica, scruta le assi che ha sotto i piedi come contenessero in sé chissà quale verità, ha l’espressione di un cane randagio, occhiali rotondi orrendi e sproporzionati, un camicione di flanella che anche nel 1992 sarebbe stato demodè e una voce flebile e strascicata che pare il grido d’aiuto di un invertebrato che sta morendo di noia: sembra buttare male. Ma dura poco. William comincia a dire cazzate tra un pezzo e l’altro. Cazzate divertentissime. Si prende in giro da solo, racconta aneddoti tristissimi sulla sua vita (svelando tra l’altro un recente passato da clochard) come fossero barzellette da spanciarsi dalle risate, conosce i tempi comici meglio di un provetto entertainer; ridono tutti, anche quelli che probabilmente non capiscono una parola di inglese, l’intero locale rimbomba di risate. Dopo il terzo pezzo compare la band, un bassista con un paio di baffi a manubrio da motociclista gay veramente ipnotici, un batterista che si darà da fare con solo cassa e rullante e occasionalmente al banjo, e di nuovo Laura Jansen alla tastiera e ai cori; la musica, da folk triste che era, diventa un rockettino rurale senza spigoli alla Mojave 3, con Fitzsimmons che continua a prendersi e prenderci in giro come fossimo a una serata di stand-up comedy per aspiranti suicidi (il prossimo pezzo sembra allegro, ma parla del divorzio. Sono sempre io, eh?; E ora ecco a voi una delle quattro persone più belle presenti sul palco: Laura Jansen!!!) e riesce a coinvolgere il pubblico in un singalong per un pezzo che si intitola You still hurt me. Ridendo e scherzando, un’ora e un quarto passa via come fossero cinque minuti, l’atmosfera è quella di una serata in osteria con gli amici migliori, gli applausi sono sinceri, il divertimento genuino. Segue assalto al banchetto del merchandise, dove le magliette di Fitzsimmons andranno via come il pane. C’è anche Laura Jansen, che invita tutti a iscriversi alla sua mailing list e stringe la mano a tutti e firma autografi con dedica chiedendo a tutti come si chiamano. Siccome è olandese mi sento in dovere di dirle che Paul Verhoeven è uno dei miei registi preferiti. Lei è d’accordo.

(foto di Paolo Casarini)

True believers: Harvey Williams

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Lo capivi dalla faccia che Harvey Williams non sarebbe mai diventato non dico una rock star, ma nemmeno una figura di riferimento cosiddetta “di culto” nella mappa del genere da cui proviene: occhiali all’ultima moda tra i secchioni pestati a sangue dai bulletti, taglio di capelli da geometra sensibile (ma anche nostalgico del Terzo Reich) e colorito ceruleo da programmatore che ha appena finito due turni di straordinari non pagati, Williams era uno che nel giro Sarah Records ci sguazzava (collaboratore per The Hit Parade e Blueboy nonché amico di Bob Wratten dei Field Mice, andrà poi a finire nell’organico di una delle successive incarnazioni, i Trembling Blue Stars), ma era troppo timido e schivo e sfigato per emergere, perfino se paragonato all’intera accolita di dissociati semi-autistici che componevano il roster dell’etichetta. Tra il 1988 e il 1992 con la ragione sociale Another Sunny Day rilascia una manciata di 7 pollici stampati in tirature risibili, con artwork criptici e anonimizzanti ai limiti del puro fastidio visivo (colori orrendi, contrasti accecanti, foto sfocate, caratteri minuscoli e praticamente illeggibili); quattordici canzoni in tutto, questo è quanto costituisce l’opera omnia della band su Sarah Records (restano fuori la partecipazione alla compilation Something’s Burning in Paradise per Subtle e il singolo Genetic Engineering/Kilburn Towers del 1990, unica uscita su Caff Corporation), poi facilmente racchiusa in un cd, London Weekend, pubblicato in contemporanea con l’ultimo singolo New year’s honors. Quel che rende straordinario l’esiguo ma micidiale canzoniere dell’uomo è l’estrema visceralità dell’intero repertorio. Oltre a una particolarità: Harvey Williams è stato l’unico essere umano al mondo a riuscire a copiare gli Smiths meglio degli Smiths stessi. Anche se si tratta di brani scritti, pensati ed emessi nell’arco di quattro anni, il senso di “unitarietà” di London Weekend è impressionante, ogni canzone è legata in qualche modo alla precedente, di cui diventa una sorta di upgrade della storia personale e dei pensieri del protagonista (ovviamente Williams stesso). Come nella maggioranza dei dischi che in qualche modo hanno segnato la nostra esistenza, anche qui si parla di amori: amori immaginati, amori totali, amori vanamente desiderati e brutalmente disattesi, amori straziati e strazianti, ma anche del passare del tempo e del disgregarsi di antiche amicizie (What’s happened to you, my dearest friend?), di quegli attimi di furia nichilista cieca, totale (l’insuperata invettiva You should all be murdered, vetta assoluta del percorso musicale di Williams, con un testo che avrebbe potuto scrivere Charles Whitman poco prima di iniziare a fare fuoco), di disperazione senza riscatto (Rio, quanto di più distante dai Duran Duran sia umanamente immaginabile) e di cieca gioia immotivata, di ricordi e rimpianti e di speranza, e in generale di tutte quelle cose che rendono la nostra vita diversa da quella di un paramecio. Another Sunny Day parte come robetta indie-pop da clone periferico dei Jesus & Mary Chain ma senza le giacchette stilose nel flexi inciso su un solo lato Anorak city, per poi entrare in orbita già dal singolo successivo, praticamente una dichiarazione di intenti: I’m in love with a girl who doesn’t know I exist, una perla di introspezione pop di nemmeno due minuti che si mangia a colazione Belle & Sebastian e compagnia inerte, e anticipa di qualche anno i numeri dei Magnetic Fields del monumentale 69 Love Songs. E tutto quanto London Weekend è così: perfino un sordo si accorgerebbe della verità che esce da quei solchi, di quanto Williams abbia vissuto sulla sua pellaccia di nerd dal cuore massacrato ogni singola parola, fino all’ultima delle situazioni di cui canta. Per chiunque sia vivo si tratta di un ascolto indispensabile.
Dopo due dischi “solisti” (l’EP Rebellion del 1994 e California del 1998, entrambi gradevolissimi ma, come dire, lontani migliaia di miglia dalla radicalità di Another Sunny Day) e altrettanti lustri di silenzio totale e anonimato ferreo (da nerd quale è, trova lavoro alla BBC come archivista), nel 2008 rispolvera il marchio Another Sunny Day per incidere i contributi a un paio di compilation (tra cui un tributo a Bruce Springsteen per il quale rischiava di rubare il pezzo ad Alan Vega); ricomincia pure a esibirsi live, seppur con estrema parsimonia. Il 17 agosto scorso la benemerita Cherry Red ristampa London Weekend, a lungo introvabile (a meno di non affidarsi al downloading illegale, s’intende), con l’aggiunta di sei bonus tracks.

Another Sunny Day – You should all be murdered

One day, when the world is set to rights
I’m going to murder all the people I don’t like
The people who have left me down without reserve
The people who are cruel to those that don’t deserve

The people who talk too much
The people who don’t care
The people whose lives are going nowhere

The people who just give in
The people who don’t fight
The people I don’t like.

The people who broke my heart so bad it never mends
The people who wrecked my life and all my so-called friends
The people who don’t know when to forget and forgive.
These are the people who do not deserve to live.

The people who talk too much, The people who don’t care
The people whose lives just leave me crying in despair
The people who told me I was wrong and they were right
The people I don’t like.