Dischi stupidi: Songs About Fucking Steve Albini

 

Il disco precedente si chiamava Shout At The Döner e la copertina prendeva randomicamente per il culo i Mötley Crüe (il titolo, la grafica, le umlaut dappertutto) e i Radiohead (lo sgorbietto pazzerello che fa tanto paranoid android); questo si chiama Songs About Fucking Steve Albini e tira in mezzo, totalmente a buffo, allo stesso tempo il grande capolavoro dei Big Black e l’uomo che l’ha creato. Il pretesto è che l’intero album è stato realizzato interamente in analogico, come vuole il dogma numero uno dello Sgradevole Americano, ma le corrispondenze con la musica, la mentalità e il modus operandi di Albini si fermano qui. Il disco è un ritorno all’ambient di P.S. I Love You allo stesso modo in cui St. Anger per i Metallica era un ritorno al thrash: come infatti l’ambient di P.S. I Love You era fico e coinvolgente e interessante, similarmente i nove momenti di Songs About Fucking Steve Albini sono stanchi, fiacchi e sciatti, durano un’eternità e non portano da nessuna parte. Una gran rottura di palle peraltro supportata da uno humour stralunato e gratuito da latte alle ginocchia. Ah, i titoli sono tutti diversi anagrammi di “Miguel de Pedro” (nome di battesimo del ragazzo). È ufficiale: Kid606 è alla frutta.

Kid606 @ Cassero (Bologna, 12/2/2010)

C’è stato un momento in cui Kid606 ha rischiato davvero di diventare il nuovo reuccio dell’elettronica “da ascolto” per i salotti buoni di gente che non sa nemmeno cosa sia il sudore; era il 2000 e sembrano passati secoli, e il nostro – allora poco più che un ragazzino – veniva ufficialmente lanciato nello stardom di chi se ne intende di musica courtesy of la longa manus di quegli scoreggioni di The Wire, che totalmente a buffo lo eleggono capofila de la nuova scena di San Francisco. Nomi messi lì a caso – Lesser e Matmos tra gli altri. In quel paio di semestri il Kid era ovunque, suonava con chiunque e pubblicava dischi a getto continuo, fino a saturare lui stesso, da solo, quel micro-mercato che era riuscito a creare dal niente; con la sua etichetta Tigerbeat6 licenzia venticinque dischi in poco più di due anni, suoi o di artisti che suonano esattamente come lui. Quegli stessi dischi li ritrovavi due mesi dopo nelle vaschette degli usati a prezzi da elemosina. Nel 2003 quando esce uno dei suoi lavori migliori (Kill Sound Before Sound Kills You, vedi alla voce autocoscienza) il Kid è già merce avariata, passè, come un abito di Armani di due collezioni fa; la scena si è dissolta come un peto di David Toop, velocemente e senza conseguenze. Resistono solo i Matmos, che in compenso diventano sempre più grandi e stimati e intoccabili, e la loro fama è meritata. Lui no; coltiva il suo orticello (nella forma di un’inesausta messe di uscite sempre uguali su Tigerbeat6), resta nel suo, pare fottersene delle luci della ribalta che hanno smesso di brillare e con grande coerenza continua a fare quel che ha sempre fatto, dischi su dischi su dischi di elettronichina giocattolosa coi ritmi spezzati acuminati imprevedibili, traiettorie schizoidi che sembrano disegnate col laser dentro una schermata di Jeff Minter, drum machine che cambiano setup 357 volte nello stesso brano, su tutto quell’angoscioso furore allucinatorio che da sempre governa la visione del ragazzo che ormai è diventato uomo. Nel 2006, dopo l’ennesimo schizzetto su dischetto (il pazzerellone Pretty Girls Make Raves), perdo le sue tracce; ho in casa tutti i suoi CD e buona parte del catalogo Tigerbeat6 e quasi tutti li ho comprati usati per pochi spiccioli.

i ferri del mestiere.

Avanti veloce fino a un venerdì sera di febbraio 2010: plana a Bologna il ragazzo di cui un tempo fregava qualcosa a qualcuno. Era il 2000 e sembrano passati secoli, perché nel 2000 una data così avrebbe fatto il pienone; questa sera invece in pista si sta larghi, sarà perché è inverno, sarà perché ha nevicato da poco, sarà perché c’è Audion al Kindergarten. Non ho idea di come il Kid abbia trascorso le giornate negli ultimi quattro anni, ma vederlo a pochi palmi da me stasera mi fa un effetto strano e non del tutto piacevole; avevo lasciato un ragazzetto smilzo e beffardo, nervosamente ammiccante dalle pagine patinate delle riviste che contano, e ritrovo un panzone unto mezzo pelato che dimostra quasi vent’anni più dei trenta che ha. Ingenuamente pensavo che la fama perduta non lo avesse minimamente toccato, in fondo ha continuato a fare la sua cosa nella buona come nella cattiva sorte, ma su disco non si poteva vedere quanto avesse accusato il colpo, ora sì: quello che ci si para davanti è un vecchio dalla mostruosa faccia da neonato, un bambino intrappolato nel corpo di un ispanico obeso sformato da scorpacciate di junk food. Un bambino sperduto che si caga sotto dalla paura. Il Kid versione 2010 porta sulle spalle tutta l’immensa drammaticità dell’has been, da solo incarna l’epica della disfatta, la dignità tragica del sopravvissuto. La console è un tripudio di aggeggi ingarbugliati, valvole e fili che si intrecciano come in un delirio corpo-macchina cronenberghiano, una wasteland di cavi e spine e prolunghe che pare uscita da un vecchio film cyberpunk, punteggiata da tre bicchieri colmi di altrettanti diversi cocktail che il Kid miscelerà succhiando avidamente dalla cannuccia come un bimbo che rischia contemporaneamente la congestione e il soffocamento ingollando una Fanta ghiacciata; accanto a un laptop su cui impiegherà svariati lunghissimi minuti nel tentare di rimuovere la plastichina che sta sopra il touch-pad c’è un microfono, del quale si servirà per lanciare di tanto in tanto assordanti urla effettate. Guardandolo bene durante uno dei suoi mix alcolici mi accorgo che indossa un paio di guantini dell’Uomo-ragno con le dita tagliate. La musica che crea (e che fuoriesce dalle casse a volumi da esperimento nazista sul sistema nervoso) è la stessa di sempre: breakbeat molesta, urticante, fastidiosa e beota, suoni plasticosi da cartuccia del Gameboy lasciata macerare al sole, traiettorie diagonali da flipper guasto. Mettete un campionatore in mano a un orangutang, probabilmente il risultato sarà lo stesso. La pista, già di per sé non esattamente guarnita, si svuota lentamente ma inesorabilmente; quei pochi che cercano di ballare, dopo i primi minuti, non nascondono una certa insofferenza. Il Kid continua a ciucciare dalla cannuccia, batte le manine, ogni tanto gira una manopola, dice cose incomprensibili al microfono ipersaturato. Il livello dei bassi è insostenibile, la saturazione farebbe sclerare un sordo; mi scappa la diarrea e temo di non essere il solo. Arrivano i buttafuori a chiedergli di regolare i bassi; lui obbedisce, per dieci secondi, poi li rimette al doppio di prima. Passano quaranta minuti. I buttafuori tornano alla carica; il Kid chiede al microfono: “Volete che diminuisca il livello dei bassi? Alzate le mani se volete che diminuisca il livello dei bassi“, ma nessuno capisce un cazzo, anche perché vista la distorsione più che un discorso pare un pezzo di Masonna, e nessuno alza le mani. Poi, l’imprevisto: il Kid rovina addosso al laptop, forse rovescia uno dei suoi drink su una presa di corrente, non si capisce, fatto sta che il bailamme sonoro viene troncato di colpo. Il silenzio che ne deriva è strano, troppo brutale e immediato per considerarlo un sollievo. Dopo minuti che sembrano eterni la musica riprende a sgorgare, ma non è più quella di prima: parte infatti un abominevole pezzaccio nu-rave che fa cagare il cazzo, poi un altro, poi un altro ancora. Un orso gentilissimo mi spiega che gli si è rotto il monitor, e che quindi ora il Kid “fa quel che può”. Quel che può si risolve nel mixare malamente gli mp3 che ha sul computer, in massima parte merda irredimibile alla Simian Mobile Disco tra cui all’improvviso spunta, incredibilmente, Pull Over di Speedy J, unico diamante in mezzo a un oceano di merda. Poi, dopo un lasso di tempo imprecisato, riprende in mano il microfono, saluta e ringrazia. Incrocio il suo sguardo mentre sono in fila al guardaroba e lui torna dal bar con l’ennesimo bicchiere in mano. Gli faccio il segno delle cornine metal; lui ricambia il gesto con un sorrisetto tristissimo, fissandomi per una frazione di secondo con quei suoi occhioni da bambino scalzo della Bolivia in cerca di adozione. Dal 2000 aspettavo di vederlo all’opera e ora so com’è un live di Kid606. Forse era meglio se rimanevo con la curiosità.

True Believers E Tanto se ribeccamo: Grant Hart

Non ho la più pallida idea di cosa abbia fatto Grant Hart negli ultimi dieci anni (al 1999 infatti risale la sua ultima testimonianza discografica, il solo album Good News for Modern Man). In parte non ho voluto saperlo, perché ogni volta che scandagliavo la Rete in cerca di notizie su di lui (la stampa specializzata aveva da tempo smesso di curarsene) trovavo solo irrispettosi resoconti su message board americane che raccontavano di concerti in bettole davanti a 35 persone, di mostre in infime gallerie d’arte disertate da chiunque contasse qualcosa, dell’uomo finito a fare il meccanico di auto di lusso per pagarsi la droga. No, non è questo il Grant Hart che conosco e, alquanto egoisticamente (dopotutto sono solo un essere umano, a differenza di lui che è un angelo), non è nemmeno quello che mi interessa. Allora ho preferito rifugiarmi nel passato, quando Grant Hart era l’altra metà degli Husker Du, la perfetta controparte di Bob Mould il riflessivo, il meditabondo; lui era quello euforico, quello estroverso, il pagliaccio chiassoso che raccontava l’atroce follia della vita attraverso sfavillanti pop songs troppo belle per poter mai essere dimenticate. Ma anche oltre, quando Grant Hart era l’agitato menestrello nel periodo immediatamente successivo alla dissoluzione tossica del gruppo, incapace di trovare requie nelle maglie della forma-canzone, quando i pensieri correvano molto più veloci della penna e ogni pezzo era diverso dall’altro, ognuno la negazione del precedente, ogni volta che credevi di averlo raggiunto lui era già altrove, sempre altrove. Lui era capace di plasmare a proprio piacimento la materia pop, di rivoltarla come un calzino digerirla e ricrearla di nuovo con nuove regole, un genio troppo costantemente in orbita per sapersi anche gestire lungo una carriera che è un’alternanza schizofrenica di vette assolute di fantasia e creatività concentrate in brevi periodi di superlavoro intervallati da lunghi anni di silenzio totale. Come se all’improvviso si ritrovasse nuovamente stupefatto abbacinato assorbito dalla vita al punto da non voler fare altro che viversi le giornate, per poi solo in un secondo momento trasferire il vissuto in dischi, in canzoni che sono fuori dal tempo per quanto bruciano di vita.
Da qualche tempo, Grant Hart è tornato a essere Grant Hart. Dopo una sosta durata dieci anni, che cominciavamo a credere definitiva, se ne esce con un disco registrato in tre giorni: tipico di lui. Hot Wax è il titolo, e – incredibile ma vero – è il suo lavoro migliore dai tempi di Intolerance (1989). Esattamente come allora, ogni canzone è unica e diversa dalle altre, ogni canzone è un ineccepibile manuale su come si scrive la perfetta pop song, e ogni canzone porta dentro di sé tanta tristezza quanta gioia entrambe in dosi tanto massicce da far male al cuore. L’album è stato assemblato negli studi canadesi dei Silver Mount Zion con l’aiuto di gente del giro Constellation, ma non ne risente affatto. È, in tutto e per tutto, la manifestazione dell’incommensurabile talento di un musicista immenso che si chiama Grant Hart.
A celebrarne la statura abbiamo scelto un brano del passato, scritto di getto dopo il tumultuoso split degli Husker Du: è 25 41 (twenty-five forty-one), il civico dell’appartamento dove Hart era andato a convivere assieme al suo compagno di allora, oltre che l’indirizzo della prima sala prove del gruppo (coincidenza che continua ad alimentare il dubbio se Mould e Hart siano mai stati amanti – anche se entrambe le parti hanno sempre negato). Un pezzo che racconta la fine di una relazione, ma anche la fine del più grande gruppo che abbiamo conosciuto nella nostra vita. “Ora tutto è finito, tutto è storia passata, ogni cosa è stata impacchettata, al 25 41…“.

25 41

Jimmy gave us a number
and Jerry gave us a place to stay
and Billy got hold of a van and man,
we moved in the very next day

to 25 41
Big windows to let in the sun
25 41.

well, I put down the money
and I picked up the keys
We had to keep the stove on all night long so the mice wouldn’t freeze.

You put our names on the mailbox
and I put everything else in the past
It was the first place we had to ourselves, we didn’t know it would be the last.

25 41
big windows to let in the sun
25 41.

Now everything is over
Now everything is done
Everything’s in boxes, at 25 41.


Things are so much different now
I’d say that the situation’s reversed
and it’ll probably not be the last time I have to be out by the first.

25 41
Big windows to let in the sun
25 41
Big windows to let in the sun.