Andrea Girolami

Andrea Girolami è una specie di piccola internet. La sua bio sta qui. Parto da un punto ovvio:

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diceva l’amico Technoiglesias (è l’ottantesima volta che lo cito), ai tempi gloriosi dell’esplosione witch house, che il monitor è il nuovo packaging. Nel video di Oneohtrix Point Never si dice che As you look to the screen, it is possible to believe you are gazing into eternity.

d’altra parte il pezzo/video stesso si chiama Still Life. Ti va di dire qualcosa prima che io ti faccia una domanda?

Ho letto tre volte la domanda e sarà che a questa ora sono un po’ bollito ma sono quasi certo sia una supercazzola. Siccome però mi pare brutto rispondere subito con un “no” mi sforzo di dire qualcosa d’intelligente. Pensa al concetto di videoclip, una parola che puzza di vecchio, di MTV degli anni 80-90 e invece siamo ancora qua a parlarne, anzi oggi più che mai. YouTube ha giocato lo scherzetto e la musica di oggi su internet è più che mai dipendente da questo mezzo promozionale, perché in fondo di questo si tratta. Insomma è sparito il supporto, pure quei pochi servizi fotografici nei giornali di musica cartecei ma l’immaginario attorno i gruppi bisogna pur crearlo in qualche modo. Ecco che il video che diventa allora valvola di sfogo assoluto di questi anni per raccontarci le storie di tutti, da Lady Gaga ai Club Dogo ma pure a quelli indie più sfigati di cui si parla qua su Bastonate. “Il monitor è il nuovo packaging” è un po’ approssimativo, gli esperimenti promozionali che coinvolgono l’interattività del computer mi sembrano ancora un po’ complicate e poco efficaci, invenzioni degli Arcade Fire comprese. Più semplicemente titolerei “Il ritorno del videoclip, vendetta a sorpresa

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Adesso ti metto io una foto, quella di Jake La Furia da giovane (o se non è lui gli somiglia una cifra). Primo perché fa ridere (e tenerezza). Poi perché credo che il primo motivo per cui la musica in Italia va peggio che altrove è perché i media/le case discografie/l’industria in generale non è capace di creare la mitologia necessaria attorno l’artista, quella che ci porta a comprare i dischi dei Daft Punk come degli Slint. La solita storia che in Inghilterra un gruppo va sulla cover di NME pure al secondo singolo e tra le tante scommesse molte se ne vincono pure, se uno invece non gioca mai o gioca male….

Il secondo motivo per cui non si riesce a campare di questo è invece per quello che dice Jake in Musica commerciale: “Se la gente non viene ai concerti, se i cd non li vuole pagare / non è che l’Italia è un paese di merda, siete voi che fate cagare”. Purtroppo negli vedo pochissimi gruppi italiani capaci di parlare davvero non dico ad un grande pubblico ma a qualcuno che non sia quello del proprio giardino. Per fortuna ci sono stati I Cani, Le Luci Della Centrale Elettrica e anche se non mi piacciono Lo Stato Sociale a raccogliere un po’ di consenso, ma insomma un panorama così asfittico in termini artistici (opinabile) e di numeri (dischi, gente ai concerti, voglia di fare) e di discorso non è normale. Tu che dici?

Boh ci sono cose su cui non sono d’accordo, e la domanda si compone di due cose. Per prima cosa il fatto che il monitor sia il nuovo packaging in senso stretto non vuol dire che qualcuno lo possa usare come veicolo promozionale, anzi, per certi versi il monitor è anche la liberazione dal concetto di promozione. mentre stai lì a guardare il videoclip dei Dogo arriva qualcuno da dietro e dice che questa cosa che stai guardando non va bene e devi fare altro. Magari tua sorella su gtalk o sedici citazioni su twitter in un minuto che ti obbligano a spostarti sul telefonino, poi ti rimetti a guardare il video ma c’è già una cesura, qualcosa che entra a far parte di un processo dinamico. Un processo nel quale il videoclip diventa una cosa che da una parte conta come numero puro (tipo nel rap sono ossessionati da quanti hit fa un dato video rispetto a un altro) e dall’altra è supposto NON essere guardato necessariamente da cima a fondo. Questa cosa per me nel pop è visibilissima: un video di Lady Gaga, che è comunque uno dei pionieri IMHO di questa comunicazione, è scomponibile. Tipo Applause consta di una ripetizione modulare degli stessi quindici secondi di video in cui Gaga è vestita come la morte o come una bomboniera e balla in un’ambientazione piuttosto che un’altra, e questi quindici secondi vengono ripetuti ad oltranza in un modo anche molto militare -alla fine ne hai la piena. Anche Occhio per occhio di Anna Tatangelo segue la stessa impostazione. E tra l’altro per me è una cosa molto diversa guardare il video di Anna e basta o guardare il video di Anna con tre persone che nel frattempo su talk ti chiedono come stai. Un’altra ancora è guardare il video di Anna, mandare il link a qualcuno che lo guarderà con un delay di un minuto e commentarci la cosa a vicenda, poi lui magari si mette a fare degli screenshot e va su 4chan o cose simili e diventa una questione di secondo grado (ancora il video di 0PN). Vado a capo senza ragione, l’immagine qui logicamente è la copertina del nuovo di Gaga, che potrebbe tranquillamente essere la copertina di un disco di Ferraro

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Ci sono numerosi casi in cui la presa per il culo, i video tarocchi su Vine e tutte quelle cose diventano il nodo centrale della campagna promozionale -tipo gli ultimi due mesi di Miley Cyrus ma anche boh, quella cosa del Winner Taco che immagino tu abbia tenuto sott’occhio- ma questa cosa non dà origine a una vera e propria tassonomia, serve solo a buttarti in mare -e da lì in poi se nuoti o non nuoti è un problema tuo, ecco. Tanto vale imparare a nuotare prima, credo: fare dischi e suonare. Da questo punto di vista io l’indie italiano non lo seguo moltissimo, ma il fatto che sia italiano, di per sé, lo squalifica. Gli Slint sono gli Slint anche perché qualcuno a un certo punto se n’è fatto carico dentro o fuori dagli USA e ne ha iniziato a parlare. Fosse dovuto dipendere dall’Italia, il loro successo artistico non sarebbe esistito. I Daft Punk sono un gruppo che qualcuno, anche qualcuno che scrive di musica (mi viene in mente un certo Pipitone sul blog del Fatto), dalle nostre parti considera un patetico gruppo da due singoli che ha incontrato un’onda critica favorevole. Tra l’altro l’attuale spostamento del canone critico su questa sorta di flusso, diciamo così, tende a fare perdere peso alla narrativa musicale, e questo alla fine è il principale motivo secondo cui il mito del rock (l’artista tormentato o il Liam Gallagher, non fa molta differenza) è molto più in crisi del mercato del rock.

Tu comunque sei uno dei maggiori responsabili di questo spostamento dell’asse cognitivo del pubblico (italiano) verso una dimensione della musica indie più concreta e da vita di tutti i giorni, per via di Pronti al Peggio. Cioè vedere Capovilla che fa il cameriere tende a stamparti in testa una dimensione “umana” del personaggio che o non fitta, con la dimensione istituzionale/artistica che lo stesso Capovilla vuole dare dalla sua apparizione a Pronti al Peggio in poi. Per dire. Per certi versi è lo stesso formato a diventare un tramite, un gestore di status. Non so, vedo Malika Ayane che risponde a un blind test e penso “ecco, lei fa parte dei regaz”, non che io sappia cosa si intenda per regaz. Mi sbaglio? Ti ci senti? Non ci sarà una s03 di Pronti al Peggio?

Hai detto un sacco di cose ma io prendo quello che mi interessa e butto il resto, che poi è quello che si fa oggi online ed il succo del discorso che stiamo facendo.

1) Il fatto di non vedere i video da cima a fondo è una cosa che è passata ormai da un po’, secondo un momento epocale è stato il video dei Canada per El Guincho, loro non so come in qualche modo han capito che l’unico modo di raccontare storie oggi era quello di raccontarne 1000 tutte assieme e lasciare lo spettatore col cerino in mano a dover capire come unire i puntini. Che se poi il regista è bravo un filo rosso per quanto sottile c’è sempre. Da lì li han seguiti tutti e oggi quello dell’accumulo caotico in video è quasi uno standard, guardati anche gli ultimi di David Guetta – Play Hard che tra l’altro è fatto da Andreas Nilsson che è un regista del cristo.

2) La storia del Winner Taco non so di cosa parli ma ho visto che han “ristampato” pure il Cono Palla, siamo alla retromania pure qua, butta così

3) Il fatto che il flusso di cose (immagini, canzoni, porno, articoli) in cui siamo immersi faccia perdere la narrativa che dici tu è una cosa da vecchi. Quella che abbiamo oggi è una nuova narrativa, come dicevo a proposito dei video qui sopra. Ultimamente ho letto questo illuminante saggio Athletic Aesthetics  che spiega perfettamente come sia passati da un’economia della scarsità (io sono l’artista e faccio un disco ogni 2 anni o più) a una dell’abbondanza (io faccio cose in continuazioni perché non mi costano nulla e ho più possibilità di farmi notare e beccare quella giusta). Potrei dilungarmi ancora 5356 mila battute ma dico solo una cosa: Se una notte d’inverno un viaggiatore, andatevelo a rileggere, lì dentro c’è già tutto.

4) co sta cosa di Pronti Al Peggio basta dai, sono anni che è fermo ed è incredibile come la gente ancora mi continui a scrivere per questa cosa anche se oggi con i video che produco per Wired raggiunto tipo 135mila volte più persone e spesso sono anche più professionali sotto molti aspetti. Con i documentari su i musicisti-lavoratori al tempo non volevamo rendere tutto più concreto ma invece cercare di rifondare una mitologia della musica italiana che spesso era basata su una disinformazione bestiale per cui spesso incontravo gente online che pensava che gli Offlaga Disco Pax e i Giardini di Mirò girassero in Ferrari solo perché avevano i video su MTV.

Invece secondo me la vera figata era nella tensione del musicista vicinissimo (quando lavora, quando ha le sbatte come tutti noi, quando lo becchi su i social) e lontanissimo (quando è sul palco, quando è in tv, sulle copertine). Una logica che oggi credo sia passata ovunque, che ritrovo anche nelle foto di Miley Cyrus sbollata in albergo con flash sparato in faccia subito dopo il red carpet mondiale. In Italia però siamo ancora troppo provinciali e non è mai passato questo discorso infatti Pronti Al Peggio non è mai andato in TV dove il trucco e parrucco sono d’obbligo. La colpa credo sia anche di chi vede X Factor e passa le serate a twittarci sopra. Volevo accusare te di intransigenza ma finisco con l’esserlo io: credo quello sia il male del nostro paese. A differenza dell’Inghilterra, dove  è ok perché c’è spazio per gli show tv di questo tipo ma anche per la musica da suonare nei locali, da noi quella roba ha finito per essere sinonimo di musica tout court cannibalizzando il resto (per poco che fosse) e riportandoci indietro di qualche decennio sotto tanti punti di vista di immaginario.

5) Pronti Al Peggio 3 non lo faremo mai perché non c’è il tempo, ci siamo finiti i gruppi italiani da spolpare e soprattutto non ci sono i soldi. Dici che col crowdfunding tiriamo su 40K per fare le cose per bene? Ne dubito. Ma va bene così sono format che hanno fatto il loro tempo, ora c’è bisogno di altro ancora e senza limitarsi alla musica che, se c’è una cosa che Internet e balle varie ci hanno insegnato, è un collante universale, un blob che amiamo ma che serve soprattutto a tenere assieme una serie di argomenti, riferimenti e mondi diversi e anche distanti tra loro (tecnologia e musica, moda e musica, lifestyle e musica etc etc).

Secondo me abbiamo già blaterato pure troppo, ti lascio solo con una delle immagini più forti, belle e vitali che racconta questi ultimi anni e quello di cui secondo me abbiamo parlato. Ci vediamo tutti su Tumblr che è il posto dove discutere di queste cose non certo questo blog da vecchi babbioni come noi.

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STRATEGIA DELLA TENSIONE EVOLUTIVA #3 – Amadeus imita Jovanotti a Tale e Quale Show (con gli ovvi richiami ad Amedeo Minghi)

(pezzo a quattro mani, Franci + Accento Svedese)

Francesco F Senti scusa, mi hai girato un video di Amadeus che canta Ragazzo fortunato di Jovanotti al Tale e Quale show e ora sarò di cattivo umore per tutto il giorno nonostante qui abbia potuto vederlo soltanto senza audio. La prima cosa a cui ho pensato è che diocristo con quella barbina e quei capelli lì Amadeus è davvero la  copia un po’ sciapa di Costantino della Gherardesca, il che tutto sommato implica che uno dei massimi intellettuali italiani della nostra epoca è fisicamente il mashup tra Amadeus e Lorenzo Cherubini con la vergogna che basta a non vestirsi come uno dei due. C’è altro? Dimmi dell’audio, ti prego. Dimmi perchè. Dimmi perchè Gabriele Cirilli che parrucca PSY e Gangnam Style non è -evidentemente- un punto d’arrivo. 
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Accento Svedese Pensa se avessi sentito l’audio. Amadeus è stonatissimo ed in sovrappiù per imitare Jovanotti fa la zeppola, con l’unico risultato di somigliare più a Max Tortora che imita Silvio Muccino che imita Amadeus che imita Jovanotti – una cosa psichedelicissima e pericolosa, insomma – che a Jovanotti stesso.
Poi canta Ragazzo fortunato, il cui testo, se applicato alla triste figura di Amadeus, si trasforma all’istante in un delizioso ossimoro. Amadeus, che ormai è talmente alla frutta da ridursi a partecipare a quel fantasmagorico carrello dei bolliti che risponde al nome di Tale e Quale Show (a proposito, ci sono anche Fabrizio Frizzi, Riccardo Fogli e financo Gabriele Cirilli, che l’ultima volta ha imitato Wanda Osiris ma quando dalla regia hanno fatto partire Gangnam Style ha iniziato a ballare come PSY – meglio dei barbiturici con l’alcool, insomma) perchè artisticamente parlando non si è mai più ripreso dal suo jumping the shark, il litigio con Pedro all’Eredità, che istantaneamente ha trasformato Pedro in una celebrità sotterranea ed ha rappresentato l’imbocco del viale del tramonto per il buon Amadeus.
Amadeus, che a Deejay Television quando ero piccolo veniva sfottuto da tutti (Fiorello compreso – ricordo una puntata estiva all’Aquafan in cui Fiorello canzonava Amadeus perché si era ustionato naso e faccia) e che continuo a chiedermi come abbia fatto ad arrivare così in alto, in quell’imitazione ha stonato tantissimo, si è rotolato per terra, ha baciato Loretta Goggi, ha entusiasmato la sua compagna Giovanna Civitillo, ha imbarazzato perfino quel gran maestro di classe & stile che risponde al nome di Claudio Lippi ma ci ha fatto assistere a quella che nel suo complesso è stata una delle scene televisive più tristi ed imbarazzanti di sempre, e questo basta. Quell’imitazione di venerdì sera in prima serata – che più che un’imitazione è un autentico rip-off – sta lì a certificare che Jovanotti è diventato uno dei più grandi intellettuali pop italiani senza nemmeno rendersene conto, anche se spiegare bene il perché è molto difficile.

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La rubrica pop di bastonate che oggi s’intitola RISPETTIAMOLI IL RAP o ANCH’ESSA È UNA CULTURA

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“Il pubblico del club è cambiato: adesso, vi sono più punk e rockettari, più negri, meno gente di Wall Street, più ragazze ricche e annoiate che vagolano qua e là. Anche la musica è cambiata: non più Belinda Carlisle che canta I Feel Free, bensì un negro che latra, se odo correttamente, una roba intitolata Her Shit on His Dick.” Avete mai ascoltato i dischi di Neffa dopo il rap? Io sì, i motivi sono due. Il primo motivo è che Neffa fino a Chicopisco ha dato semplicemente troppo alla musica pop italiana: potremmo fare una sommaria stima e concludere che, eccezion fatta per le chitarre e la gente che ha collaborato con lui fino al 2000, la somma del valore artistico di ogni artista italiano in attività non arriva al valore artistico della discografia di Neffa. Più o meno. Il secondo motivo è che lessi qualche recensione di Arrivi e partenze all’uscita del disco e sembravano tutte abbastanza d’accordo sul fatto che si trattasse del disco più cool che fosse  dato ascoltare al momento tra quelli cantati in italiano. La discografia anni duemila di Neffa non è una gran cosa, comunque: Arrivi e partenze è un disco decente ma nulla di più in cui qualche buon momento affoga in mezzo a mezza dozzina di figure arenbì all’italiana, costruite su skill inesistenti e alle spalle di una fanbase che forse non si meritava tanto odio. Il successivo I molteplici mondi di Giovanni forse l’unico momento in cui Neffa dice qualcosa di interessante, anche se non abbastanza da diventare una pietra miliare: bei singoli, bella tenuta d’insieme, una bella sensazione di lungo periodo che assegna ad Arrivi e partenze un meritatissimo sentore di disco-prova. Alla fine della notte è pura accademia e pane per i denti di qualcun altro, possibile macchina da singoli e motore per una carriera ad inerzia. Parliamo già di qualcosa come sette anni fa: da lì in poi Neffa esiste come una specie di dogma a cui non prestiamo troppa attenzione per non incazzarci, cosa francamente inevitabile ai tempi dello scivolone Due Di Picche; tra l’altro va anche messo agli atti il nostro, nel senso di mio, dissociarsi dall’attuale rivalutazione critica di J-Ax e degli Articolo 31 in generale (rivalutati dopo quindici anni di giustissimi sfottò perché avevano una mezza dozzina di pezzi hardcore sparsi in giro per diversi dischi e/o avevano anticipato l’andazzo attuale, come se questa non sia la peggior colpa degli Articolo 31 e come se J-Ax abbia realizzato qualcosa di rilevante dallo split a oggi). L’unica volta che ho visto Neffa dal vivo è stato in piazza a Ravenna nel 2007: cantò solo pezzi da Arrivi e Partenze in poi, più Aspettando il Sole nel bis ma senza la parte rappata.

Non dico che sia bello quando una storia come quella tra Neffa e il rap si chiude, ma è difficile negare il fascino malato di un artista affermato che ricomincia da zero e parte per una guerra non sua, senza manco assicurarsi di avere le armi. È stato difficile, insomma, non tifare per l’artista Neffa anche dopo Arrivi e Partenze.  Il che non toglie che a nessuno verrà mai in mente un contributo di Neffa alla musica pop italiana che non sia quello di aver preso il rap da piccolo e averlo fatto diventare grande. Non proprio da solo ma quasi: assieme a lui una legione di sociopatici di cui ai tempi del primo disco solista diventò alfiere, più qualche gruppo sparso in giro per l’Italia.

Poi non lo sapevamo cosa sarebbe successo al rap in Italia dopo quella storia, e uno ha pure il diritto di dissociarsi. L’avevo letto, o più probabilmente scritto, da qualche parte: negli anni ottanta l’immagine era diventata immaginario. Il rap in italia gli anni ottanta se li è persi quasi in blocco, quindi si è dato una conformazione anni novanta. Negli anni novanta è l’immaginario a diventare immagine, così si viveva in un periodo in cui tutto era street e sdrucito e oversize e il rap ha avuto modo/tempo di essere hardcore prima che tutto andasse in vacca. Poi l’hip hop ha questa sua natura omnicomprensiva che si mangia tutto e diventa altro rimanendo se stesso e bla bla bla, in sostanza qualsiasi cosa preveda o abbia previsto hip hop diventa hip hop. Più quello che l’hip hop si mangia per conto suo. Tra i risultati più evidenti c’è pure il fatto che uno può fare rap, vincere un reality show ed avere i featuring di Clementino e Fibra nel disco. Non è nemmeno chiaro, a questo punto, se Moreno sia un bene o un male per l’hip hop italiano (voglio dire, in ogni caso a questo punto il pubblico s’è mangiato talmente tanta merda che il prossimo disco di Guè Pequeno potrebbe essere scritto da Morandi e nessuno noterebbe le differenze). A capo senza motivo.

Un altro risultato evidente è che per quanto mi riguarda, e non credo di essere l’unico, Neffa in qualche modo non ha mai smesso di essere un artista hip hop. In qualche modo, quindi, non ho nulla da dire sul fatto che la bonus-track a fine corsa nel suo ultimo CD sia un pezzo di due minuti che contiene il primo rap di Neffa dalla fine di Chicopisco ad oggi. Piuttosto divertente, tra l’altro, che la cosa non sia stata pubblicizzata più di tanto, della serie che la traccia è presente solo sul disco fisico e quindi se n’è avuta notizia solo due/tre giorni dopo l’uscita (per i tempi di internet è un’era geologica). La gente è semplicemente uscita di testa e si è divisa abbastanza equamente tra colpevolisti e innocentisti. I primi lamentano la tempistica e il principio: in fin dei conti Chicopisco è stato venduto come addio al rap, l’ha detto lui, mica io, e proprio ora che il rap è diventato LA COSA, insomma è quantomeno sospetto. I secondi sono dei cazzoni nostalgici che hanno ascoltato due volte e deciso che Jeff Pellino è ancora un guaglione e la manda, o anche più o meno testualmente “dà ancora la merda a chiunque”. È ovvio che un minuto e mezzo di (quel) rap in fondo a un disco non-rap è un argomento invalido sia per chi accusa l’Uomo di essersi svenduto (non si sa a cosa, e come se poi fosse la prima volta) sia per chi si precipita a confrontarlo con i nuovi e con le nuove incarnazioni dei vecchi;  quel che non è ovvio è se dobbiamo augurarci o meno altro rap di Neffa, un EP o qualcosa del genere, che ci dia modo di schierarci pro o contro.

Personalmente, in ogni caso, il mio tuffo al cuore l’ho avuto. Il disco intero si chiama Molto Calmo, non l’ho ancora ascoltato ma qualcuno di cui mi fido mi ha detto che non è malaccio.

il listone del martedì: UNA DECINA DI COVER DEI BLACK SABBATH

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Uno dei modi più efficaci di comprendere la musica pesa degli ultimi anni è di ripercorrere la carriera dei canadesi Cancer Bats. Il problema è che non ha moltissimo senso farlo perché i Cancer Bats sono un gruppo noiosissimo. Cioè i dischi per due o tre pezzi tengono pure botta, sono roba diciamo così cattiva, ma non rimangono in testa e non hanno quel che si dice una personalità debordante, con tutto che qualcuno ne parla come del più grandioso gruppo live che possa capitare di vedere di questi tempi. E questa è abbastanza una parabola, intendo: non è così necessario spingersi oltre e cercare di diventare i Pantera (o almeno i Turmoil) della propria epoca. A maggior ragione se quello che cerchi di diventare è musicalmente (grossomodo) identico a te. Così i Cancer Bats sono una specie di enciclopedia della musica estrema che dovrebbe piacermi e invece no, cioè questo non-meglio-precisato incrocio tra Soilent Green e cloni dei Discharge a caso, del quale non si può dire male perché vuoi sputare sopra a qualcuno che mena. Le solite paturnie del vecchietto che ai suoi tempi la musica era migliore: fossero usciti su qualche etichetta metal di seconda levatura verso il ’97 li avrebbero tutti tacciati di scarsa personalità e relegati ad un angolino sperduto della mente completamente precluso ai posteri (il fatto che questa cosa continui a succedere 15 anni dopo con la musica sostanzialmente identica e con i gruppi un po’ più in primo piano non depone molto a favore del metal, diciamo così).

La domanda naturalmente è: visto che tutto sommato è la stessa storia di gruppo qualunque e già al primo giro era così poco interessante, insomma, a che pro tirar fuori un pezzo sui Cancer Bats? Buona domanda. Comunque nel 2011 il gruppo si è imbarcato in una delle imprese più brutalmente dannose della storia, vale a dire un tour in cui giravano sotto il nome Bat Sabbath con una scaletta di sole cover del gruppo di Tony Iommi. Ancora una volta: a che pro? Ancora una volta: buona domanda. Sull’onda di quella entusiasmante esperienza oggi esce un EP di cover che mima la copertina del terzo disco dei Sabbath e snocciola versioni che avremmo a malapena accettato da un gruppo di amici nostri in terza liceo, giusto un pelo più prodotte. Avremmo simpaticamente stroncato il gruppo concedendogli il silenzio e l’ignore che merita (la cosiddetta manovra Polaroid), ma ci dà tutto il diritto di piazzare l’ennesimo mattone sulle cover: quali sono le vostre cover preferite dei Sabbath? Bella domanda, ancora una volta. Ancora una volta, delle vostre preferite in realtà non mi frega assolutamente un cazzo. Eccovi quindi le OTTO cover dei Black Sabbath più belle di sempre secondo il sottoscritto, includendo solo quelle che mi vengono in mente in questo momento.

THE REPLACEMENTS – IRON MAN

Indiscutibilmente la più bella cover di sempre, a dispetto di quello che potrei aver scritto di qualsiasi altra cover. La trovate spulciando la sezione bootleg del vostro client per scaricare musica illegale preferito: i Mats si presentano al CBGB’s ubriachi fradici e suonano un set di cover tra cui appunto Iron Man: il riffone di Iommi più o meno uguale all’originale e via di armonica a bocca e urla sguaiate senza senso. Tra i pezzi più malati (spiace usare questo termine ma è quello esatto: malati, cancerosi, infetti) della storia della musica.

PANTERA – ELECTRIC FUNERAL

I Pantera sono tendenzialmente l’unico gruppo metal che può permettersi una cover dei Sabbath senza svaccarla: hanno diverse versione tutte bellissime, menzione speciale per la Planet Caravan in coda a Far Beyond Driven, ma il colpo di genio è una versione calligrafica di Electric Funeral uscita nel secondo volume di Nativity in Black. Nativity in Black è il cover album dei Sabbath per antonomasia: l’intellighenzia dell’heavy metal di metà anni novanta (primo volume) e dei primissimi anni duemila (secondo) si impegna in versioni creative di pezzi del gruppo. Naturalmente nella maggior parte dei casi si tratta di vere e proprie atrocità, dovute anche al bisogno di includere gruppi crossover a bizzeffe sull’onda dell’Ozzfest. Nondimeno, la versione dei Pantera sceglie la fedeltà assoluta e mette Phil Anselmo a duellare (e se non fosse una bestemmia mi verrebbe da dire stravincere) con Ozzy Osbourne in casa di quest’ultimo. Che poi la più grande cover band dei Sabbath mai esistita sono i Down, quindi insomma.

TODAY IS THE DAY – SABBATH BLOODY SABBATH

Piazzata a tradimento in fondo a Temple of the Morning Star ed assolutamente in tono con il resto del programma del disco. Vi ricordate quando Steve Austin era un figo?

BRUTAL TRUTH – CORNUCOPIA

CONVERGE – SNOWBLIND

Roviniamoci: il miglior cover album dei Black Sabbath è uno split Brutal Truth – Converge uscito su HydraHead nei primissimi anni duemila –non ho voglia di controllare. Svetta la versione di Cornucopia dei Brutal Truth, ovviamente, inclusa anche nel live di addio Goodbye Cruel World.

PEARL JAM – IRON MAN

Scherzo. Però nel live a Seattle che conclude il tour di Binaural, qualche mese dopo il disastro di Roskilde, Eddie Vedder sale da solo sul palco per un bis e suona (scazzando, tra l’altro) il riff di Iron Man. Momenti di musica assoluta.

KYUSS – INTO THE VOID

Già che li citavano tutti come influenza principale, i Kyuss fanno uscire una cover di Into the Void quando già come gruppo non esistono più (il finto split Kyuss/Queens of the Stone Age uscito su Man’s Ruin quando Josh Homme ancora non aveva capito bene cosa volesse fare da grande), e fissano un nuovo livello di eccellenza e personalità nell’affrontare la materia. Quanto sono noioso quando non ho niente da dire.

WILLIAM SHATNER – IRON MAN

Non avrei mai cagato il suo Seeking Major Tom se non fosse per la recensione apparsa qui, ma è comunque uno dei flussi di coscienza più brutalmente gratuiti ed insensati della storia del rock. La cover di Iron Man è puro Trucebaldazzi antelitteram: base identica all’originale e l’Uomo a berciare in primo piano. Roba che i Fuckemos ci fanno la figura dei Pink Floyd.

Cose assurde che succedono.

CaveIn_Cover

Una cosa che -così, a caso- ci riconcilia con il mondo della musica è che l’uscita n.13 dell’etichetta degli Unsane (Coextinction,  già dato) è una registrazione nientemeno che dei Cave In, risalente tra l’altro al 2002: due pezzi finiti su Antenna e uno di Tides of Tomorrow, la fase prog-melodico-malcagata del gruppo di Boston che amiamo più o meno da sempre e che da adesso in poi è endorsata da Chris Spencer in persona.

Basta poco a farmi contento. Il disco non l’ho ancora sentito, l’ho comprato in digitale a scatola chiusa -solita trafila di sempre- e ora lo piazzo in auto. Ci sono cose peggiori da comprare con tre euro.

Marco Pecorari

Marco Pecorari (o Il Pecora o Peco o Pec o direttamente P  però inserendo Er davanti) viene da una cittadina in provincia di Ferrara, io sono un razzista e posso dire che queste cose non aiutano il carattere. Marco Pecorari scrive di musica e figura come metà del blog più bello e peggio tenuto dell’internet italiano, che si chiama Spadrillas in da Mist ed è ricomparso qui dentro giusto ieri dopo un congelamento piuttosto lungo. Se lo conoscete sapete che con il Pecora non si sta mai parlando  di una sola cosa, quindi si inizia un mesetto fa chiedendogli che musica sta ascoltando e si incrociano le dita. Avviso: siamo intorno alle cinquantamila battute e quindi non ho inserito link o altro. Vado a capo, poi il grassetto è mio e il non grassetto è suo.

Che musica stai ascoltando?

Dici in questo momento? italiana: Ooze da trieste, sludge. Sonic Jesus da non so. Roba mi dicono alla BJM e Dead Skeletons, gruppi che non ho mai ascoltato. Mi piaciono.

Straniera: Exuma, un personaggio assurdo della Florida ma originario delle Bahamas che parla di robe strane, che ovviamente è già morto.

Ti riporto una recensione di una tipa su amazon, della Florida. Come tutte le persone ignoranti ignora che il tipo abitava nel suo stato e non in Africa:

Please know what you are ordering here and try and ignore the “avant-garde, trendy, b.s.” spewed about the wonders of this music. I have been listening to music from many countries in a quest to learn more about the spirit and sounds of countries I have yet to visit, Africa being one of them. And in actuality, the music I have heard from many, many African artists is amazing!!! My absolute favorite country for beautiful, loving and soulful music.

This is NOT that. Not in any way, shape or form. Make no mistake….

Based on the previous reviews for Exuma I and II, I bought both Exuma I and II. I cannot get through either one of them. The music is pure evil. It speaks repeatedly of Satan, hell, fire, death, demons, devils, zombies, even including satan’s reincarnation in the birth of a child. This is disgusting. I am no prude, believe me. But, I could write a book about what’s wrong with this music. Is this some sort of devil worshiping crowd pleaser? Otherwise, I cannot imagine any sane person listening to it.

Please know I would describe this music as repulsive, repugnant and offensive.

I am returning both CD’s and should probably have my car blessed with holy water.

Cathy S., Gainesville, FL.

Oh, I WAS FORCED to give this nightmare “music” one star in order to submit this review. Honestly, if ever there was a call for it – this could be rated on a negative scale.

Per il resto ti dico: è un periodo che vedo molto più che ascoltare, molti film italiani del periodo anni ’70, serie americane non trasmesse in italia o trasmesse col contagocce. Ieri ho visto un documentario bellissimo, me lo sono sognato di notte. E’ una storia tipo L’Amico Ritrovato, solo che i protagonisti sono il serbo Vlade Divac e il croato Drazen Petrovic. Non penso ci sia bisogno di aggiungere altro, chi non sa di cosa stiamo parlando o si informi o non è degno. Ah, il titolo è Once brothers. Continua a leggere

piccoli fans: FLYING KIDS / RAINBOW ISLAND


Un matrimonio in paradiso: il nuovo progetto che coinvolge l’amico DjPikkio (uno dei cinque o sei più grandi geni attivi nella musica oggigiorno) sarà la prima uscita dell’etichetta fondata dagli amici e sostenitori di lungo corso Renato, Federico e Tommaso. L’etichetta si chiama Flying Kids, il gruppo si chiama Rainbow Island, la copertina consta di svariati tondi evidentemente creati dall’amica di ancor più lungo corso Giudit, e quindi insomma quando si fanno le cose di qualità in famiglia noi siamo in prima fila a dar via il nostro cuore e il nostro culo. In bocca al lupo. Sul nome FlyingKids, in grassetto sopra, c’è il link a una pagina facebook su cui dovete cliccare MI PIACE più forte che potete.

E insomma, nel disperato tentativo di dimostrare che qua oltre che degli amici c’è pure un sacco di ciccia, embeddiamo lo streaming della prima traccia del disco, incubo à la Black Dice di fattura che dir pregevole è poco.

Carlo Bordone

Mio fratello portava a casa le riviste di musica pescate a casaccio tra quelle generiche: Rumore e  Rockerilla soprattutto, Dynamo quando usciva, Rockstar, il Mucchio e tutto il resto. Leggevo i nomi dei gruppi e mi facevo le mappe mentali di cosa era figo e cosa no, voglio dire, mio fratello non aveva tutta ‘sta collezione di dischi e io scroccando dagli amici riuscivo a coprire metal, grunge e punk rock e morta lì. Leggere di tutta ‘sta gente figa mi ha costretto –molto prima di possedere un lettore CD- ad allargare la mia rete di contatti a cui poter far doppiare i nastri, a frequentare i negozi di dischi compiacenti il cui proprietario era disposto a doppiarti la cassetta dal CD in nero, a scambiare le cassette via posta eccetera. La stampa musicale era ancora un luogo pieno di bianchi e di neri, sfogliavi una rivista e venivi investito dall’idea che ascoltare un disco brutto potesse causare sensazioni davvero spiacevoli. Carlo Bordone scriveva di musica allora e continua ancora oggi a farlo. Questo potrebbe essere la prima intervista di una serie, che comunque immagino non avrà cadenza molto più che –boh- bimestrale. Le prime due domande servono a scaldarsi. Le foto sono per sfottere.

Quand’è che hai iniziato a scrivere di musica?
Come dicono le scrittrici esordienti del genere rosa, “ho sempre scritto”. In effetti all’università pubblicavo (ah ah ah) una fanzine che scrivevo e leggevo solo io. Si chiamava Tamalpais. Battuta a macchina, fotocopiata, tenuta assieme con la pinzatrice. Come tutti i fanzinari, mi sono messo a contattare etichette, distributori, band, e ovviamente non ho mai visto un promo che fosse uno. In compenso mi sono sparato grandi scambi epistolari con Jon Ponemann, Greg Ginn, Geoff Travis e compagnia.
A scrivere su un giornale vero ho iniziato nel 1996. Il giornale era “Rumore”. Già da un paio di anni trasmettevo su una radio torinese , Radio Flash, il cui direttore artistico era Alberto Campo. Facevo un programma con altri tre miei amici, ci chiamavamo Groovers. Con uno di loro (Pierpaolo Vettori) ho condiviso la stessa firma sul giornale per i primi due o tre anni. Prima recensione, un disco dei Posies. Prima intervista: i Guided By Voices. Tra le “guest star” del nostro programma radiofonico c’era anche il nostro amico Maurizio Blatto (che nel programma spacciavamo come Maurizio “Bacharach” Blatto, nipote di Burt ed esperto di gossip dell’alta società). Con lui abbiamo a volte scritto qualche pezzo a sei mani per Bassa Fedeltà, leggendario bimestrale garage/punk/r’n’r e costola di Rumore, diretto da Luca Frazzi: il capolavoro fu un’ode commossa a Franco Califano, redatta in tempi non sospetti.
Nel 2000, subito dopo un’intervista ai Marlene Kuntz nel bar della stazione di Cuneo (avranno portato sfiga?) me ne sono andato da Rumore per ragioni che ho dimenticato. Dopo essere transitato per un paio di numeri su Blow Up (credo che neppure SIB non se ne sia accorto) ho chiamato John Vignola, che conoscevo da qualche anno, per sapere se c’era la possibilità di collaborare sul Mucchio. C’era. Da allora non mi sono più mosso. Continua a leggere

Navigarella: GIORNALISTI MUSICALI VS. NEMICI DELLA MUSICA

Lana del Rey ha cantato dal vivo una versione non disprezzabile di Heart-Shaped Box, e quando dico non disprezzabile intendo dire in realtà darsi fuoco. Mentre la rete si divideva più o meno a metà tra colpevolisti a prescindere e innocentisti a prescindere (tutto si può dire di Lana del Rey meno che non sia stata coerente nel non far nulla per farsi odiare da chi la ama o farsi amare da chi la odia, in questo vera popstar-chiave del nostro millennio), Courtney Love ha detto una cosa su twitter tipo AHAHAH STAI CANTANDO UNA CANZONE SULLA MIA FIGA. Continuano le celebrazioni della morte di Kurt Cobain.

C’è una prima anticipazione del nuovo disco degli Animal Collective, uno dei pochi gruppi bolliti da anni e anni che in realtà no. Anche il disco nuovo sembra poterci piacere molto.

Sta per uscire il secondo disco della Corin Tucker Band. Il primo disco della Corin Tucker Band è una delle pochissime testimonianze audio del fatto che si possa fare musica rock normale senza necessariamente venire inclusi in un gruppo di spocchiose teste di cazzo che fanno musica rock mimando un anacronistico ritorno alla normalità nel disperato tentativo di venire considerati un nuovo trend di gente a cui forse non frega un cazzo di niente ma io guarderei bene cosa c’è sotto (cosa che tanto per dire non è riuscita alle molto più considerate Wild Flag, cioè le ex-Sleater Kinney senza Corin Tucker, autrici di un disco brutto e triste in culo su cui si è sviluppato un minuscolo hype un paio d’anni fa). Il secondo disco della Corin Tucker Band, a giudicare dai primi due estratti, promette d’esser quasi meglio del precedente, e meno male che ci sono i volti nuovi di vent’anni fa ad indicare nuove strade da percorrere ai volti nuovi di adesso.

A proposito di anacronismo, c’è un flame molto divertente sul facebook di Edoardo Bridda. Edoardo Bridda sarebbe il boss o uno dei boss di SentireAscoltare. Sulla sua pagina ha postato il link a una recensione di Ondarock dei Wild Nothing uscita (a quanto pare) un mese prima del disco. Lamenta il fatto che quelli di Ondarock si sono sempre dichiarati contrari a questa cosa e via di questo passo. Nei commenti al post si scatena una specie di guerra delle coscienze, interviene perfino Claudio Fabretti con un tono tipo “io sono il boss di Ondarock, sono intervenuto qui ma ora c’ho degli altri cazzi da fare e comunque di quel che fate voi me ne frego”. In realtà è lo scontro tra due modelli di giornalismo musicale: il primo si sbatte a duemila per essere sempre sul pezzo, il secondo si erge a roccioso bastione del mercato musicale tradizionale, supporta etichette distributori e artisti e se ne va per la sua strada. La cosa più tenera è farsi il viaggio e pensare che dietro tutto questo ambaradan ci sia una lotta senza esclusione di colpi per diventare il web magazine italiano più influente della storia E una recensione arrivata un mese prima influenza irrimediabilmente l’ascolto, bruciando la recensione dell’altro sito e determinando in maniera indelebile il gusto dell’ascoltatore in merito al disco dei Wild Nothing. Bridda mette il tutto sotto forma di domanda: e voi cosa farete? Pubblicherete la recensione dei Wild Nothing in questi giorni o quando sarà uscito il disco? Difficile a dirsi, ma immagino che Bastonate non pubblicherà la recensione del disco di merda dei Wild Nothing, parlo senza averlo ascoltato MA avendo letto la recensione di Ondarock, prima della data di uscita ufficiale. Né dopo, credo, ma non si può mai dire. Ho scritto cose per entrambe le webzine, una parte del mio passato che non ricordo con orgoglio.

 

E dato che abbiamo iniziato a rompere i coglioni alle webzine, andiamo con una rapida rassegna di recensioni italiane del nuovo disco dei Baroness. Ora, il disco per quanto mi riguarda è una ciofeca prog anni settanta suonata con un briciolo di gusto e senza un briciolo di botta, con un approccio tipo “ora ti spiego il post rock e tu lo capirai anche se metallaro e ignorante” (che dopo dieci anni di Neurosis in tutte le salse mi sembra pure un po’ patetico). L’elenco serve a dimostrare quanto e come un disco per il quale è in corso un PLEBISCITO (di quelle che ho letto la stroncatura più violenta è quella di metalitalia, in numeri un 6,5) contenga in quasi tutte le recensioni un riferimento al fatto che è un disco che dividerà gli ascoltatori.

Intanto, il gruppo americano rimarrà vittima di un’antica contraddizione: se proponi sempre le stesse cose, sei monotono e pecchi di capacità evolutiva; ma se cambi strada e tenti qualcosa di nuovo, sbagli comunque e l’accusa è di aver ceduto la purezza artistica alle sirene del mercato. (metal.it)

“Yellow & Green” è quindi il disco che pone definitivamente i Baroness su un altro piano, rispetto al metal estremo e al post hardcore delle origini, e lo fa con lucidità e cognizione di causa, applicando strutture e concetti cardine della storia del rock al proprio stile originario, approdando a una sintesi stilistica inaspettatamente viva e fertile. (metallus)

Per ascoltare “Yellow & Green” ci vogliono orecchie nuove e maggiore sensibilità, bisogna riconoscere l’evoluzione del sound e i motivi alla base di questa scelta. Per gli scontenti ci sono sempre i dischi rosso e blu, per tutti gli altri “Yellow & Green” potrebbe essere un valido motivo per spendere ore e ore cullati dalla bellezza che solo la musica può offrire. (spaziorock)

grazie a una band come i Baroness è possibile che si inauguri una nuova stagione nel mondo della musica metal. Una stagione che dividerà, che creerà scompiglio, che farà perdere ai Baroness il pubblico più intransigente, ma farà loro guadagnare il rispetto di chi, anche dal metal, chiede un’evoluzione. Ed oggi, si dica chiaramente, i Baroness sono una delle forme più evolute di metal con la quale possiate confrontarvi. (sentireascoltare)

Non abbiate paura ad avvicinarvi a questo Yellow And Green: aprite la vostra mente ed ascoltatelo fino a farlo entrare in circolo dentro di voi, solo così riuscirete a mettevi in contatto con le anime di questa band eccezionale (che è vero non hanno ancora messo a fuoco perfettamente la propria strada, ma che sicuramente hanno dimostrato di sapersi mettere in gioco) (metallized)

Scandalo, capolavoro. Si sono venduti, anzi no, hanno fatto il loro miglior disco. No, no, è un album vergognoso, l’ho cestinato subito; però si sono rinnovati nel migliore dei modi. Stanno facendo come i Mastodon, sono meglio dei Mastodon. Abbiamo già sentito, e probabilmente sentiremo ancora a lungo, i pareri più disparati sul nuovo album dei Baroness, nome sempre più conosciuto che sta travalicando i confini del panorama sludge metal a cui era relegato. Alcuni giudizi ci sembrano affrettati, altri espressi con eccessiva presunzione, tanto perché al giorno d’oggi se non ascolti i Baroness sei un po’ “indietro” (però fino a pochi anni fa eravamo ancora quattro gatti a vederli, chi è indietro allora?) (gotr)

Il bello dei “nuovi” Baroness è, forse, anche questo: ascoltare capitolo per capitolo con viva e rinnovata curiosità, senza sapere bene dove porterà lo step successivo. Un genuino disorientamento che, se per alcuni sarà testimone di un decadimento mentale e qualitativo senza freni, per noi è il simbolo di quella decomposizione di cui in avvio: il salutare decesso dell’ordinarietà verso nuovi orizzonti, nuovi traguardi. (storia della musica, e questa è IMPORTANTE che ve la leggiate tutta, possibilmente sotto l’effetto di qualcosa)

Il listone del martedì: DIECI COSE CHE CREDETE VERE IN MERITO ALL’INDIE ROCK E INVECE

Questo listone ha padri putativi nobili, si fa per dire. Non vogliamo (non è vero, vogliamo) reintervenire nel dibattito su cosa s’intende per indie oggigiorno, non vogliamo cagare ulteriormente il cazzo alLo Stato Sociale e quando parliamo al plurale in realtà intendiamo io, che mi chiamo Francesco e ho idee bizzarre e stupide sulla faccenda. Questo listone si basa su un paio di assunti teorici:

1)      la parola INDIE non identifica più un genere musicale trasversale e di supermoda fatto di gente vestita in modo pittoresco che passa il tempo a fotografare il proprio duckface ma –come da senso originario- musicisti che suonano generi musicali imparentati con il rock e non operano nel mercato discografico emerso, lasciando a quelli di cui sopra l’altrettanto improprio appellativo di hipster.
2)      Questa cosa è comunemente accettata.
3)      Niente, solo le prime due.

Il dibattito sta impazzando furioso, cioè nell’ultima settimana ho letto più di un post in merito, nella fattispecie un tirone di Hamilton Santià e Simone Dotto rilanciato da Enzo Polaroid e messo in pari a un articolo di Birsa su Vice. Riassunto: nel mondo dell’indie attuale tira aria nuova, ma l’aria nuova è la stessa aria nuova che tirava prima che tirasse aria nuova e ha lo stesso identico odore dell’aria che hai mollato per cambiare aria. C’è stato un ricambio generazionale e non è contato un cazzo. Oggi i gruppi si riuniscono un po’ e nel farlo vendono (svendono) l’integrità di essersi suicidati prima che andasse tutto a puttane in cambio di non essere più morosi con le rate dell’appartamento a Providence. Le risposte che si possono dare sono diverse, dalla polaroidesca bisogna senz’altro considerare l’idea che probabilmente abbiamo sempre voluto tutti quanti la stessa cosa, o quantomeno ora è così alla birsesca VAFFANCULO. Noi, sempre inteso io, non abbiamo le idee chiarissime in merito, ma è innegabile che siamo di fronte al primo periodo interessante nella storia della musica dai tempi in cui si sussurrava fosse in corso un’asta tra le major per mettersi in scuderia gli Earth Crisis. La battaglia da combattere non è più contro un sistema ben identificabile come mainstream, ma contro una serie di accettabilissime soluzioni di compromesso che stanno svuotando di significato la musica che ascoltiamo senza che nessuno (a partire dai giornalisti/blogger musicali, il più ridicolo branco di mentecatti di cui abbiamo mai fatto parte a parte forse i boyscout e il Club degli Editori) abbia sviluppato un sistema immunitario che faccia suonare un campanello d’allarme. La seguente lista di false credenze in merito all’indie rock vorrebbe essere uno spunto di riflessione, esauritosi peraltro nella nostra riflessione da qui a quando abbiamo chiuso il pezzo, e tralascia volutamente (non è vero) le declinazioni etiche del discorso. Il fatto che sia giusto o sbagliato rendere del proprio mestiere un mestiere o quanto ti renda una persona migliore scopare di più, cioè saper suonare un basso, non è una cosa che c’interessa. Nè tantomeno se condurre una vita/carriera da musicista indie sia in qualche modo una cosa auspicabile. Ci teniamo volutamente a distanza di questo genere di cose per rivendicare orgogliosamente il nostro ruolo di ascoltatori puri e di indierockers impuri, non siamo parti in causa del discorso, abbiamo pochissimo da perdere e quel poco che abbiam da perdere non sono soldi. E nel caso qualcuno se lo chiedesse, indie è un modo puccioso di dire indipendente. Continua a leggere