STREAMO/TrueBelievers/StareBene/DISCONE e altre cose sul nuovoWolf Eyes

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La prima volta che ho letto il nome Wolf Eyes, come quasi tutti in Italia, è stato su Blow Up. Erano i primi anni duemila e si parlava con un certo entusiasmo di qualche uscita a loro nome, poi collegata a tutto un discorso di nuova musica wave e nuova musica industriale, che tuttora mi ronza nelle orecchie. Ho letto e sedimentato, un momento in cui Blow Up e la musica sembravano nutrirsi a vicenda di questa sorta di energia che li spingeva tutti nella stessa direzione. Ho scoperto abbastanza presto che i Wolf Eyes erano, effettivamente, uno dei gruppi più interessanti del periodo: registrazioni carbonare licenziate sul mercato a botte di venti o trenta l’anno, nei formati più disparati e con in calce nomi di etichette assurdi che negli anni a venire avrebbero ossessionato un intero immaginario. Anche solo metterne in condivisione i dischi su Soulseek ti faceva sentire un punk di prima categoria o una specie di grande diffusore della Cultura, a cui un certo punto persino il mondo esterno prima o poi sarebbe arrivato riconoscendo implicitamente il nostro ruolo di teste di ponte (c’era già arrivato, ovviamente, due minuti prima di noi). Ho scoperto abbastanza presto che essere fan dei Wolf Eyes e del NOISE richiedeva una dedizione ed uno stipendio assolutamente maggiori di quelli di cui disponevo ai tempi. Dischi in vinile colorato stampati su un lato solo e tirati in poche decine di copie; cassette a tiratura ugualmente limitata smerciate più o meno a caso ai banchetti di qualche festival europeo a tema in cui era possibile assistere alle performance; amici che risparmiavano per mesi prima di quell’evento e si portavano a casa edizioni immancabilmente limitate e scrause pagando trecento euro a botta; si fa presto a sentirsi inadeguati, uomini non-nuovi, adepti di seconda o terza categoria destinati a una più che prevedibile abiura del NOISE una volta che quei suoni fossero passati di moda.

L’unico modo di continuare a quei livelli, nel noise, è di diventare artista. Ovviamente a un certo punto lo faccio, un po’ lo facevo anche prima ma ora lo faccio con uno spirito. Lo stupore intrinseco alla scoperta che certa musica può interessare a qualcuno che non sei tu. Registro cose con un mangianastri, aggiungo stronzatine fatte con una strumentazione rimediata e composta (vado a memoria) da tre pedali, un mixer, una tastiera, qualche microfono a contatto piazzato ovunque, un vecchio lettore CD dotato di un tasto per i loop e via; il pezzo forte era un Kaoss Pad 2 comprato a un centinaio di euro ad un amico, utilizzato un paio di volte e ributtato nel cestino. Il valore artistico della musica oscillava quasi sempre tra il ripugnante e l’inascoltabile, e le cassette/gli mp3 sono giustamente rimasti in un cassetto finchè la vita è andata necessariamente avanti e mi ha imposto di buttare le macchinette e ricominciare, boh, a disegnare; la mancanza di dedizione alla CAUSA ci ha imposto di rivedere il nostro asse critico ed abbiamo più che volentieri declassato l’harshnoise a un baraccone di idioti che (a parte pochi nomi, dei quali peraltro manco eravamo così convinti) sfruttava l’hype intorno a Wolf Eyes e simili come un trampolino di lancio per fare cagnara con macchinette autocostruite invece che con le vecchie autoghettizzatesi chitarre, senza alcuna idea alla base della musica stessa a parte il puro casino e a qualche cicatrice autoinflitta nei fortunatamente rari concerti dal vivo. Per poi bollarlo come una sega mentale artsy-fartsy non appena abbiamo visto comparire (tipo ai tempi dell’esplosione di un Prurient) il sospetto che la musica di qualcuno si fosse estesa oltre le bestemmie sputate in faccia a un pubblico di dieci stronzi con un microfono effettato a boia. Le storie di ascesa e caduta, nel rock e derivati, sono tutte riscritture apocrife della rivoluzione francese. Nel periodo di monomania riesco persino a farli piacere a qualche collega di lavoro, con il risultato di ritrovarmi di lì a un anno in discussioni in cui è LUI a raccontarmi per filo e per segno progetti di secondo e terzo grado di gente che ha suonato il corno in una cassetta dei WE uscita nel 2004 su American Tapes dicendomi cose tipo questa te la devi assolutamente sentire ti faccio un disco di mp3 mentre tu pensi quanto tempo da perdere ha ‘sto tizio. E poi? Boh, più niente. Circa un lustro fa smettono di uscire dischi a nome Wolf Eyes e i membri si fanno vivi solo in proprio.

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È abbastanza commovente riascoltarsi oggi i dischi dei Wolf Eyes. L’ho fatto la scorsa settimana: ho iniziato per caso trasferendo dischi da un appartamento all’altro e ripescando dalla pila dei disastri sfilati a qualche distro una delle collaborazioni con i Black Dice. Bello, per niente noioso, per niente gratuito. Ho ricominciato così, un po’ alla volta: Burned Mind che continuo non-originalmente a pensare sia il loro disco definitivo, Human Animal di qualche anno seguente, sempre su Sub Pop, sempre bellissimo. Slicer che forse era uscito su Hanson qualche anno prima, il disco (bellissimo anche questo) con Anthony Braxton. Al momento sono fermo qui. Probabilmente sono partito dai miei preferiti, ma è difficile guardare indietro a quegli anni e trovare un gruppo così amato allora che ancor oggi suona così dentro i tempi. Gran parte del merito è da darsi ovviamente all’eleganza formale dell’estetica del gruppo, oltre ovviamente alla capacità di Nate Young di ottenere un risultato specifico e peculiare a partire da qualsiasi suono. O alla sua capacità di selettore della propria musica capace di buttare sistematicamente nel cestino la roba non interessante o comunque riservarla ad uscite che finisco per non ascoltare. Resta il fatto che il nome Wolf Eyes continua ad essere –parlando di America- la pietra miliare del NOISE così come lo conosco io: al nome Wolf Eyes è associabile quasi tutto quel che so di questa musica, a partire dai padri fondatori per arrivare alle deviazioni freejazz a cui in qualche modo sono giunto ascoltandoli, a una manciata di etichette con nomi tipo Bulb o Hanson o Hospital o American Tapes ma anche Important e Troubleman che li hanno fatti uscire, a duecento side-project dei membri del gruppo, duecento gruppi con cui sono usciti split o dischi in formazione allargata e via di questo passo. Parlando di NOISE, in quella accezione, Wolf Eyes è quasi un genere musicale in sè.

E certo è una notizia che stranisce quella che una nuova formazione del gruppo senza Aaron Dilloway (presente come ospite su una traccia), quattro anni dopo le ultime uscite a nome Wolf Eyes, torna sul mercato con un disco nuovo intitolato No Answer: Lower Floors e viene ospitata su Pitchfork Advance –quindi per certi versi esce con lo stesso hype riservato ai nuovi Strokes* o Yo La Tengo. Siamo ai primi ascolti ma il disco sembra comunque buonissimo: NOISE di sapore molto industrial (in senso buono), per nulla gratuito, costruito su un equilibrio impossibile e su un profilo bassissimo, quasi ad elemosinare nella sua estrema eleganza un posto qualsiasi ai margini dello spettro musicale. Ancora una volta familiare ma al contempo non allineato, ed animato da questo senso di necessità che anche spento il player non accenna ad andarsene: un disco il cui solo essere uscito è una dichiarazione politica che ci colpisce dove fa più male: io ho mollato, i miei conoscenti hanno mollato, il NOISE in molti casi ha mollato. Wolf Eyes è ancora qui in forma smagliante: non sembra potersi permettere di essere altrove.

*mi chiedevo tra l’altro se nel caso di un disco come Comedown Machine sono gli Strokes a pagare per finire su Pitchfork Advance o se è Pitchfork a pagare gli Strokes per l’esclusiva. Quante cazzo di cose che non so.

Ti buco le gomme

Obsolescente qual sono e fui, meno che prodigo di benemerenze per/pro chicchessia, viene da rammentarmi  solo di partenze onorarie dei neuroni che furono. Non c’ho cazzi, insomma. Ho finito davvero di domandarmi chi diavolo me lo faccia fare di sbavare dietro eterne mobili uscite discografiche/cinematografiche/[…]-iche: ché basta le ciance sul tempo che manca – o il più probabile eghezzi pensiero del “siamo noi che manchiamo al tempo” (o al tempio?) – e piuttosto ci si guardi in faccia, nostra o altrui, e si dica finalmente che, sì, cazzo, lasciate che ognuno si gratti l’emorroidi sue. Perché con la scusa dell’espressione, del abbiamo-dentro-tante-cose-universali-da-dirci, ci siam dimenticati anche solo di come parlare di un cazzo (non del) o delle gravidanze in/desiderate. E tuttavia no, giù tutti a sdilinquirsi di parole e ri-trovarsi tra gentechescrivedimusica e parlare, indovina, di musica. E se becchi chi, dottorante o scribente o stante cinema, toh, non si parla d’altro che di quello. A meno che, ovviamente, non sia il momento di dire “tette-froci-italiasuca-domenicacinquepappine” e cose così. Non un progetto coerente, completo, coeso, personale, radicale all’orizzonte; non uno, dico. Ché inevitabilmente anche la cosa migliore e davvero valevole (e ce ne sono, ah se ce ne sono) deve per forza autoriflettersi su di per zine, collettivi, scene, distro, promo, maldicenze e robe del genere. E’ un po’ il problema generale di guardare in faccia gente che, obiettivamente, spacca il culo, sia a risultati che a impegno, e finire poi per chiedersi perché anche questi non escono da una teoria dei sistemi che vede quattro culi e una capanna come limite massimo. Altresì detto, a che pro? La risposta io ho smesso di cercarla tra dischi, film, jpeg, libri, poesie e quel cazzo che volete voi. Mi son detto che effettivamente fermarsi a guardare il panorama ha più senso. Lo si dice sempre, dai, ma poi davvero chi si ferma mai a farlo? Questo nonostante il fatto che vivendo nell’anno domini xx (jamie) ci si debba forzatamente relazionare con l’ambiente para-networkista, con il disco che ancora non è ma già si sa (cfr. Accento Svedese qui), con le musiche che ci sfuggono tra i padiglioni auricolari e manco le ritroviamo più. Il messaggio, da parte di uno che vuole la luna di Gianni Togni, sogna di sodomizzare se stesso, pensa che l’hauntologia sia più cosa di un Mignola o di Bioshock (design spettacolare, gameplay noia), non riesce a finire l’ultimo Baronciani perché gli viene il magone, tenta di evocare Cerebus, è:

BASTA, più che Bastonate. Tabula rasa, Kaput, amabile Seppuku con le viscere in mano per eliminare additivi critici, chimica ricreativa, complessi narcisistici e scappatoie sonore. Che ognuno Non ascolti quel cazzo che gli pare, venendosi addosso. Come si diceva altrove: magari sto esagerando. Magari anche no.

Fino a domani, tra un’ora, un minuto, ora, quando si ricomincia con CM Von Hausswolff, Zona MC, Rival Schools, Parts & Labor..

Ipse Dixit Xidit

Gruppi con nomi stupidi: HAYAINO DAISUKI

Heilige!!!

 
Letteralmente “hayaino daisuki” significa “io amo la velocità” in giapponese. Ma “amare” non basta per rendere in italiano il termine “daisuki“: Daisuki significa ‘amore’ nel modo in cui una ragazzina di sedici anni ‘ama’ Brad Pitt. A fornire la spiegazione è Jon Chang, ex vocalist degli indimenticati Discordance Axis (una delle formazioni capitali se si vuole tentare di comprendere che cosa è diventato il grindcore nel terzo millennio), ora alla guida dei (se possibile ancora più schizzati) Gridlink; dai Gridlink provengono 3/4 degli Hayaino Daisuki (nello specifico, oltre a Chang, il virtuoso chitarrista Takafumi Matsubara già alla guida dei geniali Mortalized, e Teddy Patterson III, occhialuto bassista a quattrocento corde di Human Remains prima e Burnt By The Sun poi), alla batteria c’è una piovra schizofrenica che risponde al nome di Eric Schnee.  Non esistono foto degli Hayaino Daisuki; gli unici scatti ufficiali in circolazione (sul loro ultraminimale myspace e nella copertina del loro primo EP) ritraggono quattro ragazze che imitano varie pose degli Slayer periodo Show No Mercy-Hell Awaits-Reign In Blood. In quattro anni gli Hayaino Daisuki hanno registrato venticinque minuti scarsi di musica: in tutto otto canzoni distribuite in due EP dai titoli wertmülleriani, Headbanger’s Karaoke Club Dangerous Fire (2008) e il recentissimo Invincible Gate Mind of the Infernal Fire Hell, or Did You Mean Hawaii Daisuki?  Entrambi i dischi vengono pubblicati dalla stilosa HydraHead del grafico Aaron Turner in confezioni DVD superlusso con inclusa manicomiale fanzine (con contributi anche di rinomati disegnatori orientali – parte dell’artwork dell’ultimo è opera di Stan Sakai). Detta così sembra un’irredimibile menata per relitti universitari con gli occhiali fanatici del metallo peNsante e/o avanzi da fumetteria obesi che fregano la pensione alla nonna per andarsi a comprare l’ultima action figure di Todd McFarlane, invece, merda, i dischi degli Hayaino Daisuki sono divertenti, che si sia passata una vita ad ascoltare metal o che si ignori bellamente l’argomento, l’effetto è lo stesso: si esce come dopo aver aspirato dell’elio da un palloncino, bevuto sedici caffè, fatto quaranta giri sulle montagne russe e infine diviso un flacone di amfetamine con la mamma di Requiem for a Dream. Assoli al fulmicotone da guitar hero epilettico in una sala giochi di Tokyo, strilli acutissimi (di Chang e diversi guest più o meno influenti) da maiale bastonato a morte, una sezione ritmica che fa più danni di un carico di rulli compressori su un treno merci senza pilota lanciato a 300 kilometri all’ora contro un asilo nido, il tutto condito da deliranti liriche in giapponese stretto e un senso di frenesia da kamikaze preso bene che è assolutamente impossibile da descrivere. Questa è la nuova droga. Un album sarebbe chiedere troppo (o finire direttamente in una cella imbottita nel manicomio più vicino).

L’agendina dei concerti Bologna e dintorni – 30 agosto-4 settembre

Suicide? Per me... numero 1!!!

 
Prima di sborrare nei pantaloni al pensiero dei Suicide in data unica italiana a Bologna mercoledì 1 settembre (performing the album Suicide per giunta) è meglio per voi che consideriate un paio di argomenti:
– il concerto si terrà al Locomotiv, il cui il tetto di metallo e le finestre rimaste sigillate per 3 mesi (esattamente dal primo giugno, data in cui si è svolto l’invivibile concerto dei Lali Puna – per la cronaca: niente prevendite, coda interminabile alla biglietteria, dentro il pieno totale e una situazione ambientale indecente con temperature ben oltre i 450 fahrenheit) avranno contribuito a creare un microclima interno che al confronto il deserto del Mojave è una cella frigorifera.
– per “un disguido” le prevendite non sono state attivate neanche stavolta, il che nella migliore delle ipotesi significa come minimo uno scenario all’entrata peggio dell’assalto degli indiani alla diligenza in “Ombre Rosse”, nella peggiore un bagno di sangue in piena regola. Suicide? Homicide.
– il concerto terminerà TASSATIVAMENTE entro la mezzanotte e i volumi saranno con molta probabilità poco meno che risibili, perchè se no i vicini si incazzano e telefonano agli sbirri.
un esempio di show dei Suicide (è vero, quella volta c’era solo Martin Rev: in tal caso moltiplicate per due il numero di vecchi sul palco). Se siete in cerca di un bel karaoke del cazzo su Frankie Teardrop oh Frankie-Frankie abbiate un’idea di cosa invece subirete.
– in tutto questo, il prezzo del biglietto è di 22 euro. È anche vero che la stessa sera a Firenze c’è Leonard Cohen (prevendite già chiuse da secoli), i cui biglietti per i settori più sfigati se non ricordo male partivano da una cinquantina di euro… a ognuno il suo.
Questo giusto per amor di cronaca (senza considerare le manovre da Tetris che si dovranno compiere una volta entrati nel forno-carro bestiame per aggiudicarsi una postazione vagamente decente tentando di dribblare i pezzi di merda con la sigaretta accesa). Chi non ricorda il passato è condannato a ripeterlo; io sarò lì intorno alle 21.30.
Il resto della settimana:
Lunedì 30 agosto festeggiamo la fine dell’estate all’Echoes con Riva Starr ai controlli; tanto martedì non c’è un cazzo e si resta a smascellare.
Di mercoledì abbiamo già detto. Giovedì ci sono Arcade Fire e Modest Mouse al Parco Nord per i turisti della musica (e della vita); in fondo, paragonati ai ventidue dei Suicide, i 32 euracci d’ingresso ci sembrano ora quasi equi. Per chi invece ha voglia di perdere un po’ di chili in eccesso via ettolitri di sudore, magari al suono di qualche bella jam viaggiosa che con un trombone grosso come un braccio è la morte sua, al Nuovo Lazzaretto per pochi spiccioli si potranno ascoltare i canadesi Barn Burner, gli statunitensi Unrestrained e i nostrani “nervosetti” Cervo. Inizio ore 21 (ecco altri che se la passano bene col vicinato).
Venerdì 3 per gli assidui frequentatori di modelle piene di cocaina c’è Boosta al Kindergarten; più interessante sabato con la prima esibizione mondiale dei DDR s.p.k.r. per l’inaugurazione di stagione del Decadence (quindici euri). Poi di corsa a sentire Sven Vath al Cocoricò.
Per chi ci crede, domenica al Voodoo Club di Comacchio c’è la Hair Metal Fest in compagnia di due bei relitti mica da ridere: Tuff e Shameless (di nome e di fatto). Nel caso cotonatevi anche i peli del cazzo altrimenti vi lasciano fuori.

DISCONE: Robert Hood – Omega

 

Loro sono organizzati
Tu difenderti dovrai

(Steno)

Se mai esistesse la categoria “disco necessario“, Omega sarebbe l’unico a entrare a farne parte – perlomeno da oggi fino a, boh, probabilmente per sempre. È il 2010 e noi siamo questo. Non c’è altro da dire, non c’è altro da dire. E, se c’è, non credo di avere le parole per dirne. Disco dell’anno. Del decennio. 

With a little bit of luck
We can make it through the night

(MC Neat)

 

 







PICHFORKIANA DEATH METAL: Defeated Sanity, Humangled, Inherit Disease, Mortification, Severe Torture

DEFEATED SANITY – Chapters of Repugnance (Willowtip)
Brutal death tecnico velocissimo da un gruppo che di tedesco ha solo il passaporto; modelli dichiarati i Suffocation di Breeding the Spawn e i primi tre album dei Disgorge americani (nei quali peraltro ha brevemente militato il vocalist A.J. Magana), il tutto shakerato e rivomitato con un coefficiente di violenza perfino superiore alla somma delle parti. Peccato per la batteria registrata tipo “mastello”, unico difetto di un gioiellino di disco. Curiosità: il batterista si chiama Lille Gruber (ah ah, uh uh). (8.0)

HUMANGLED – Fractal (Abyss)
Death groove metal crasso e fetente alla vecchia, con punte di ignoranza nella letale uno-due Brutalize the Pedophile / Liquidfire (il cui invasivo e mongoloide chorus si stampa in testa e non se ne va più); loro hanno una storia lunghissima alle spalle, tra cambi di moniker e repentine virate ora verso il grind, ora cyber death metal (il mini Foetalize, peraltro graziato da una cover geniale), ora death gore purulento. Il mixaggio è ad opera di Dan Swanö e anche solo per questo Fractal merita quantomeno l’ascolto. (6.7)

INHERIT DISEASE – Visceral Transcendence (Unique Leader)
Brutal ipertecnico con concept cyber-futuristico alla base, ben esplicato dalla suggestiva copertina in bilico tra Matrix e La Guerra dei Mondi di Spielberg; i gargarismi vocali del voluminoso singer Obie Flett somigliano sempre più al rumore di uno scarico del cesso intasato, il che può rappresentare un punto a favore come un handicap (dipende dai gusti, a me prende bene). Più difficile restare indifferenti di fronte al mostruoso lavoro di batteria del tritacarne umano Daniel Osborn (titolare anche della one-man band Misanthropic Carnage). Non per tutti i gusti ma estremamente interessante. (8.0)

MORTIFICATION – Twenty Years in the Underground (Nuclear Blast)
I più famosi baciapile australiani celebrano il ventennale con una doppia raccolta assemblata, probabilmente, solo e soltanto per il LOAL: cinque reincisioni di vecchi e nuovi classici e il resto estrapolato da bootleg registrati col walkman da qualche disperato tra il 1990 e il 1993. Ci sono anche quattro pezzi acustici (…) da un unplugged in Norvegia. Basta la parola. (0.8)

SEVERE TORTURE – Slaughtered (Season of Mist)
Quinto centro (su cinque) per i macellai olandesi. Non cambia la formula – brutal death drittissimo con il santino dei Cannibal Corpse in bella vista – in compenso si lavora ai fianchi un songwriting sempre più ferale, complice una produzione cristallina come mai prima d’ora, in grado di rendere ancora più temibili composizioni già in partenza devastanti; a completare il quadro la solita piacevole alternanza nelle liriche tra sbrodolate di sangue & interiora e simpatiche invettive anticristiane che al confronto Glen Benton è un mansueto sacrestano. Loro sono una macchina da guerra. (7.8)

Copertine fighe 2000-2009 spin-off: the psycho edition

MATTONI issue #1: Teeth Of Lions Rule The Divine

 

La cosa più significativa a cui i Sunn O))) abbiano mai preso parte non è uscita a loro nome. In altre parole: il disco migliore dei Sunn O))) non è dei Sunn O))). A fine 2000 Greg Anderson e Steven O’Malley salgono su un aereo e vanno a trovare Lee Dorrian per passare le vacanze di Natale insieme; il giorno dopo capodanno affittano uno studio di registrazione a Nottingham per 48 ore e ci si chiudono dentro a jammare senza sosta (la formazione è completata dall’ex-Iron Monkey Justin Greaves alla batteria). L’estate successiva Dorrian, assieme a Billy Anderson, screma il materiale e reincide parte delle vokills; questa è la genesi di Rampton, tra i dischi più ingiustamente dimenticati dello scorso decennio, sicuramente tra i più radicali e cruciali, forse l’unico capace di portare a un nuovo livello contemporaneamente doom, sludge e noise, a traghettarli nel terzo millennio meglio di chiunque altro e anni prima che la kritika ke konta scoprisse l’acqua calda sdoganando alla cazzo – per l’appunto – i Sunn O))). Rampton (che è il nome del famoso manicomio del Nottinghamshire, fondato nel 1912 e tuttora operativo) esce sotto la ragione sociale Teeth Of Lions Rule The Divine, che era il titolo di un pezzo degli Earth contenuto su quello Special Low Frequency Version che i Sunn tanto amano plagiare; il brano che apre l’album si intitola He who accept all that is offered (feel bad hit of the winter), è vagamente ispirato a una serie di brutti trip che colpirono Dorrian al ritorno da un micidiale lost weekend ad Amsterdam e dura mezz’ora. I primi nove minuti sono occupati da rullate di batteria spastiche quanto incontrollate, apparentemente prive di costrutto, su cui lentamente si dipana un feedback che inesorabilmente cresce in intensità rendendo l’atmosfera da freak show all’LSD ancora più opprimente, il senso di minaccia latente via via sempre più tangibile. La voce di Lee Dorrian, trasfigurata, deforme, immane, esplode sguaiata al decimo minuto, contemporaneamente all’eruzione di chitarra e basso, un’orgia di bassissime frequenze ad accompagnare un rantolo che non conserva più nulla di umano. Di quel che latra non si capisce niente, e probabilmente è un bene: le farneticazioni sono minuziosamente riportate parola per parola, con certosina pazienza, in un libretto allucinante dove confluiscono stile liberty, stampe del ‘500 e outsider art della più perturbante mai concepita, ma i testi scritti a mano in sghembi e diseguali caratteri gotici rendono la decifrazione un’autentica tortura per gli occhi. Il flusso di coscienza prosegue fondamentalmente inalterato per venti minuti che possono diventare ore, o giorni, non a caso il pezzo termina sfumando, rendendo impossibile determinare la durata effettiva di questo delirio che rimane ad oggi la cosa più emozionante e realmente estrema a cui 3/4 dei componenti abbiano mai preso parte (resta fuori, per manifesta superiorità, Lee Dorrian, già presente nel lato B di Scum, in From Enslavement To Obliteration e ideatore principale di quella pietra angolare del doom e della musica pesante in genere che è il primo demo dei Cathedral, In Memorium).

Con questo inizia una nuova rubrica di Bastonate, si chiama MATTONI e parla ogni volta di un pezzo diverso che duri 20 minuti o più.

Tanto se ribeccamo (the INFINITE LOAL issue): FEAR FACTORY

La storia LOAL-metal più LOAL-metal degli anni 2000? Quella dei Fear Factory. Il gruppo di cui più volte avete letto QUESTE ORRIBILI PAROLE in una recensione/intervista dedicata. Nonostante l’opinione comune dello staff di Bastonate (o quantomeno la mia opinione) sia che già Obsolete era di troppo, i paladini del techno-metal del cazzo hanno continuato a sfornare dischi fino ad oggi. Il problema è che ai tempi di Digimortal, AD 2001, quasi tutti decisero che di sentire sempre lo stesso riff era ora di basta, e si beccarono stroncature anche dalla loro sorellina –e comunque era un disco molto più riuscito del precedente, o comunque un po’ meno paraculo.

Il disco andò così di merda che il gruppo si spaccò sull’onda del fallimento: Burton C. Bell uscì sbattendo la porta a inizio del 2002 e il gruppo decise di non proseguire, sciogliendosi de facto nello stesso periodo. Roadrunner pensò, ehi, celebriamo la cosa e facciamo uscire il loro miglior disco di sempre. Tanto ce l’abbiamo nel cassetto. Il disco si chiama Concrete ed è una specie di embrione grind/industriale di Soul Of A New Machine, registrato da Ross Robinson e messo ad invecchiare dentro la scrivania di qualche A&R sfigato, una cosa DAVVERO fuori di senno con versioni tiratissime di pezzi che andarono su Soul più pezzi inediti sul genere –così disturbato ed anacronistico che non impressionò un cazzo di nessuno a parte me.

E comunque il gruppo rimase sciolto e i membri iniziarono anche a parlarsi dietro –con questo schema un po’ à la Pantera. Dino Cazares, in particolar modo, si applicò molto nel gettar merda addosso agli ex-compagni; al punto che –ehi! gli altri smisero di guardarsi in cagnesco tra di loro e riformarono la band passando il bassista alla chitarra e mettendo al basso un ex-Strapping Young Lad. Che è un po’ come Rock Star, il film dico: se il bassista se ne va, fai entrare al suo posto il bassista di una cover band.

Per sottolineare l’intenzione palingenetica e profondamente innovativa all’interno della band, il disco della reunion venne intitolato Archetipo. Il sottotitolo Sì, volevamo  rifare Demanufacture pari pari; no, non ce l’abbiamo fatta non è stato incluso nella copertina, probabilmente per motivi di font. Manco un anno dopo uscì Transgression, un altro disco nuovo su cui persino i membri della band hanno qualcosa da ridire.

Siamo dalle parti del 2006. Nel frattempo i membri della band decisero di dare fondo alla loro creatività con i side-project. Wolbers ed Herrera in particolar modo si dimostrarono estremamente lungimiranti, dando vita a un gruppo di nome Arkaea che suona, uhm, la stessa identica musica dei Fear Factory. Mentre Burton C. Bell riuscì a chiudere il cerchio, partecipando al momento più triste e ridicolo dei Ministry (The Last Sucker) con delle parti vocali, tour compreso. Verso metà del 2009 arriva una notizia shock: Dino Cazares e Burton C. Bell si sono riconciliati sono pronti a ripartire con i Fear Factory, con un nuovo bassista e un nuovo batterista (Gene Hoglan, un altro ex Strapping Young Lad).

WOW! E gli altri due Fear Factory? Non sono stati informati, e comunque ‘sti gran cazzi (libera interpretazione di qualche comunicato stampa). Il problema è che i FF non si sono mai sciolti. E quindi? E quindi niente. Avvocati. Non è nemmeno chiaro chi abbia fatto causa a chi, tra l’altro: sembravano essere stati Wolbers e l’altro, ma a quanto pare erano Bell e Cazares ad aver minacciaoto un’ingiunzione. O forse no.

Mentre chiunque nel rock-rama sta cercando di capirci qualcosa, a partire da Blabbermouth (che è più o meno l’house organ della Fear Factory inc.), la realizzazione del disco nuovo dei Fear Factory (nel senso di Bell e Cazares) va avanti spedita e tranquilla, con tanto di data di pubblicazione, copertina (quella sopra, tra l’altro DIOCRISTO una scopiazzatura di UN LORO DISCO) e tracklist annunciate e persino un pezzo nuovo su youtube. Che sembra confermare i sospetti che potevamo avere dieci anni fa su un nuovo disco dei Fear Factory, ma in un modo un po’ più glamour. Ad incorniciare l’idea che sia la cosa fatta più a cazzo di cane di tutta la storia del rock (ad eccezione forse del Devin Townsend Project), il sito e il myspace dei Fear Factory riportano in bella mostra notizie degli Arkaea -probabilmente il webmaster lo paga Christian Olde Wolbers.
Che devo dire. Almeno Max e Igor Cavalera quel disco di merda l’han fatto uscire sotto un altro nome.

Pan Sonic + Martin Rev @ Locomotiv, Bologna (28/11/2009)

(foto di deSna B.)

In origine il cartellone di stasera prevedeva il solo Martin Rev, senonchè la data di ottobre dei Pan Sonic è saltata perché uno dei due (Mika Vainio, quello pazzo) era finito in coma etilico per l’ennesima volta. Dunque, recupero in extremis ora con conseguente reboot della serata da happening per squilibrati e reduci bolliti a evento mondano dell’anno per galleristi froci, intellettuali con gli occhiali, gente che ne sa di musica, esponenti della scena e in genere tipi giusti che vanno nei posti giusti. Locale pieno con fila all’ingresso, c’è chiunque deve esserci: è l’ultimo tour dei Pan Sonic (ma sarà poi vero?), mancare significherebbe scomparire dalla scala sociale. A Martin Rev di tutto questo, comunque, non frega un cazzo. Maglietta con supereroe e occhialoni da sole da cyborg scervellato, magro come un chiodo e scavato come una scultura di Giacometti, avanza caracollante portandosi dietro quasi quarant’anni di leggenda, marciume e marginalità rigorosamente newyorkese; sul palco una tastiera e un microfono, nient’altro. Solleva per un attimo gli occhiali per configurare qualcosa sulla plancia di comando rivelando occhi enormi e neri scintillanti nel vuoto, due fari di tenebra a squarciare la luce. Schiaccia un pulsante e parte una base che non riconosco, dev’essere un pezzo dal suo album nuovo, Stigmata, che non ho ancora ascoltato (è uscito il giorno prima); contemporaneamente comincia a percuotere la tastiera con pugni e gomitate, come un bambino suonerebbe il pianoforte dei nonni, premendo tutta la pianta della mano su tasti a caso e producendo soltanto caos dissennato. Poi afferra il microfono, e ci urla dentro un testo che, con buona approssimazione, fa più o meno così: HEY! HEY! HÙA! HÒE! HÈAH! HÙH! HÒAEY! per alcuni minuti, il tutto alternato ad altri pugni e gomitate sulla tastiera e occasionali coreografie da ballerino spastico strafatto di crack. La base è martellante e implacabile, i volumi sono assordanti, insensati. Il brano finisce senza che ci sia tempo di chiedersi perché, di cercare di razionalizzare quanto abbiamo appena visto, e subito parte quello successivo, che identifico immediatamente: è In your arms, il secondo pezzo di To Live (2003, probabilmente il miglior album della sua carriera solista), schitarrate anfetaminiche e drum machine assillante alla Ministry del periodo cyber-metal primi anni novanta. Tempo pochi istanti e Martin riprende ad avventarsi sulla tastiera rendendo il tutto un delirio cacofonico impressionante nella sua demenziale casualità; non prova nemmeno a fingere di ricordarsi il testo, si limita a emettere a pieni polmoni suoni a caso, grugniti scimmieschi, agghiaccianti belati, poi un balletto, alza le braccia al cielo, batte perfino le manine, poi ancora pugni e gomiti. Al quarto brano ho i timpani che implorano una tregua e dalla prima fila mi sposto verso il centro del locale. Incontro un’amica che non vedevo da molto tempo e le chiedo come sta. Mi risponde: “stavo molto meglio prima di sentire questo cialtrone“. Il concerto va avanti, la dinamica non cambia: parte la base, pugni alla tastiera, versi al microfono, con Martin via via sempre più febbrile e frenetico. Tra la fine di un brano e l’inizio del successivo descrive un semicerchio attorno al microfono a passetti veloci, poi schiaccia un tasto e tutto ricomincia di nuovo. Prima di iniziare il penultimo pezzo azzarda addirittura un “hey!“, che nel suo linguaggio significa certamente “grazie”. Conclude con una To live di oltre dieci minuti, accanendosi sui tasti stremati generando sul finale un allucinante, lunghissimo drone che è probabilmente il suono di quel che si ascolta all’Inferno. Un’ora esatta di performance in perenne bilico tra sublime e patetico, tra titanico e gratuito, a stagliarsi netto il profilo impassibile di uno dei più grandi catalizzatori di depravazione, decadimento e alterazione mentale di tutta la storia del rock.
I Pan Sonic, che pure hanno inciso due dischi con il compare di Rev – il non meno disturbato e deviante Alan Vega (che da anni pare occuparsi più di arte che di musica), hanno in serbo tutt’altra roba: a volumi minimi, decisamente fastidiosi ma stavolta al contrario (mi permettono di udire chiaramente tutte le cazzate che la gente dice intorno a me), srotolano una serie di rumorini microtonali, singultini da digestione laboriosa, pulsazioni da elettrocardiogramma di un novantenne, scariche elettrostatiche tipo la radio quando non prende, vrrrrrrrr frrrrrrrr di trapano del dentista e altri glup glip glop glap glep assortiti da far scendere la catena al più volenteroso degli ingegneri del suono; è tutto molto affascinante e i suoni indubbiamente ben curati e spesso anche belli, almeno per quanto l’incessante blaterare del pubblico – molto chic ma assai poco educato – mi permetta di distinguere, ma è anche roba che la coppia potrebbe tirare fuori agevolmente con la mano sinistra e gli occhi bendati, qualcosa di simile al concetto di b-side, di out-take o di cazzeggio domenicale spippettando sui marchingegni con gli amici fonici nerd, comunque qualcosa di decisamente non all’altezza di quello che vorrebbe essere un commiato ufficiale e definitivo. La portano avanti per cinquanta minuti, poi decidono che è abbastanza. Seguiranno dj-set adeguatamente raffinati. Simulazione di orgasmo.

(foto di deSna B.)