DISCONE: Alan Vega & Marc Hurtado – Sniper (Le Son du Marquis)

 
Le collaborazioni di Alan Vega non è che differiscano poi tanto dai suoi dischi solisti o in coppia con Martin Rev: qualcuno gli fa le basi (in senso musicale), possibilmente sferraglianti, ripetitive, alienanti, cibernetiche e acuminate, e lui ci delira sopra cose a caso esattamente come ha sempre fatto in tutta la sua vita. È il flow a fare la differenza: non esiste voce umana al mondo capace di competere con Alan Vega e i suoi streams of consciousness irraccontabili, in cui è racchiusa tutta la paranoia e la forza e la fede e il delirio e la fame di vita del mondo. Una volta che l’hai sentito “cantare” non lo scordi più. A volte il suo flow è appannato (i dischi solisti dal ’90 al ’95 e Why Be Blue), altre volte sono le basi che non vanno (l’agghiacciante Just a Million Dreams dell’85 e il mediocrissimo progetto Revolutionary Corps of Teenage Jesus, dove però Vega era in gran forma), ma la sua visione e la potenza del suo sguardo rimangono indistruttibili e necessarie ora come quaranta anni fa, quando assieme a Martin Rev e al suo Farfisa scassato dipanava i primi farneticamenti in un sottoscala putrido infestato di artisti barboni.
Sniper non si discosta (e come potrebbe?) dalle esperienze precedenti. Ai controlli questa volta c’è Marc Hurtado, metà degli inossidabili terroristi multimediali Étant Donnés (con cui Alan aveva già collaborato nel tonitruante Re-Up del ’99), che garantisce ai suoni un grado di ferocia e obliqua devianza di poco inferiori a Station, capolavoro dell’ultima fase del Vega solista che questo disco non riesce a superare. Da par suo, Alan è in flow assassino come nelle migliori occasioni, vaticinante, velenoso, febbrile, incarognito, mugghiante, ossessionato, digrignante, profetico,  impossessato da demoni invisibili e portatore e generatore di allucinanti visioni e accecanti squarci di luce. Impossibile segnalare qualche brano a discapito di altri in quello che è ancora una volta un unico ininterrotto flusso di coscienza paranoide e dissennato, mi limito a dire che per ora le mie preferenze vanno all’esagitata Juke Bone Done, in cui un Alan in speaker’s corner fattanza sentenzia che “heroes are always cowboys” con la carogna addosso. C’è anche una nuova versione – la terza – di Saturn Drive, con una base che è stata usata anche dai ‘nostri’ Post Contemporary Corporation (il pezzo era Onnagata). Lydia Lunch rantola depravata e arrancante nell’ultimo pezzo, Prison Sacrifice, un raggelante numero da Lee Hazlewood & Nancy Sinatra dei sociopatici. Se già lo amavate continuerete a farlo con ulteriore convinzione, altrimenti continuerà a sembrarvi un povero mentecatto un po’ partito di cervello; anche questo fa parte del gioco.
Per ora l’album sta su Deezer, ma bisogna vedere chi ce l’ha messo e se gli autori approvano; nel frattempo fatevi sotto.

Gruppi con nomi stupidi: MICHELE SANTORO

The sound of revolution

Questa sera, se nel frattempo non esce una nuova legge che ne vieti la messa in onda (sempre dato per scontato che qualcuno non decida di farla breve e li ammazzi tutti), ricomincia Annozero: quale modo migliore per celebrare “a modo nostro” se non segnalare l’esistenza di un Michele Santoro dj? Questo Santoro è nato nel 1984, il che inizialmente può far pensare soltanto una cosa: i suoi genitori dovevano avere un bel senso dell’umorismo del cazzo, quello stesso senso dell’umorismo decisamente sadico che deve aver portato i coniugi Vivaldi a battezzare il proprio figlio Antonio (ovviamente non quel Vivaldi ; il critico musicale che non troppi anni or sono leggevo su Rockerilla chiedendomi se il suo nome in calce alle recensioni fosse vero o finto – beh, se ve lo siete chiesti anche voi: era vero). Poi, wikipedia alla mano, viene fuori che in quel periodo il Michelone nazionale stava muovendo i suoi primi timidi passi nel mondo dell’informazione televisiva come travet al TG3, quindi i genitori non c’entrano niente (a meno che già non fossero seguaci sostenitori, diciamo pure ai limiti della pazzia, del notiziario della Terza Rete); resta il fatto che chiamarsi Michele Santoro e uscirsene oggi come dj mantenendo il proprio nome di battesimo, non so voi, ma a me ha fatto ridere. A scanso di equivoci: non ho ancora ascoltato una nota delle sue produzioni (per gli interessati: sono usciti un pugno di pezzi su Beatport alcuni dei quali si trovano anche sul suo myspace ufficiale, mentre il suo myspace personale per ora è abbastanza disadorno) nè assistito a mezzo suo dj set (lui è di stanza a Milano), mi fa soltanto sorridere il suo nome. Per dirne una: a Modena c’è un tizio che si chiama Cesare Cremonini, e il poveretto non è nemmeno un lontano parente del suo ben più celebre omonimo e quasi-concittadino (in compenso Cremonini 2 può vantare partecipazioni da figurante in un paio di film di Pupi Avati). Queste cose mi mandano in shock anafilattico. Come qualche anno fa, quando avevo letto di un povero stronzo a cui era stato imposto di chiudere immediatamente o modificare il dominio del proprio sito Internet; il problema? Il tipo si chiamava Giorgio Armani. E no, non era uno stilista.
Ah, per dovere di completezza: esistevano anche dei Santoro argentini, suonavano uno stoner abbastanza blando ma ignorante al punto giusto, tutto sommato non erano male. Chissà che fine hanno fatto.