PAGARE LA MUSICA #9 (la china)

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Due giorni fa l’amico/persona bella/fiancheggiatore di lungo corso Andrea Benty pubblicava su inkiostro l’ultima puntata della Psicopatologia spicciola del dj pretenzioso, dedicata al triste momento in cui, sempre meno chiamati a suonare alle feste e nei locali, i dj prendono armi e bagagli e si comprano una consolle per Traktor –non capendoci un cazzo di niente e dando origine ad un’empasse culturale quasi priva di vincitori. Lo stesso giorno l’amico/persona bella/fiancheggiatore di lungo corso Enzo Polaroid rimbalzava la notizia della prima mega-campagna advertising di Spotify, lanciato urbi et orbi su un’idea di musica diciamo anni novanta (la cassetta mista come mezzo per limonare una tipa). Il giorno dopo Girolami ribatte la cosa allargando un briciolo il concetto all’idea di musica e alle sue applicazioni.

Non è proprio da oggi che si usa l’idea di musica per vendere musica, né per vendere altro. Quel che cambia è il nostro atteggiamento nei confronti della cosa: a un certo punto cavalcavamo l’onda, scrivevamo nelle riviste, mettevamo i dischi alle feste e quando andavamo ai concerti qualcuno attraversava la sala e veniva a salutarci, ora grazie a dio se non ti chiedono il sovrapprezzo perché nel locale aumenti il tasso di sfiga. In realtà la questione del perdere terreno, citando il falso James Murphy e il pezzo di Polaroid che lo cita, è una dimensione marginale della faccenda. La cosa più noiosa dell’ennesimo passo verso la pura smaterializzazione del concetto di musica è che ci viene spacciata per l’ennesima volta come l’ennesima vittoria del NOSTRO modo di intendere la musica. Ci sono abbastanza trucchi in tutti questi processi mentali, quasi tutti auto-inflitti.

SPOTIFY

Spotify è arrivato in Italia qualche mese fa, in occasione di Sanremo. Spotify è un servizio di streaming legale e gratuito. Legale vuol dire senza violare la legge, gratuito vuol dire senza pagare soldi. Quello che vince molto in Spotify è quel briciolo di possibilità di creare un network e il fatto che sia la cosa più user-friendly mai apparsa su internet dopo il bottone della scoreggia (me l’hanno fatto gentilmente provare prima dell’uscita, per circa tre giorni ho pensato seriamente che potesse risolvere il problema della fame nel mondo –c’è ancora la fame nel mondo? Al tg3 non ne parlano). Spotify paga gli streaming agli artisti su base quantitativa, e questa cosa –in linea di principio- è pure gentile. Su un articolo apparso su Pitchfork e scritto da un tizio dei Galaxie 500, però, scopriamo che le revenue per gli artisti sono di circa un dollaro per quasi seimila streaming, il che –con un conto della serva- significa circa 0,17 millesimi di dollaro per ogni streaming. Vuol dire che se sei un artista con una discografia di quattro titoli da dodici canzoni l’uno e ognuna di queste ogni anno fa diecimila streaming, il tuo guadagno annuale su Spotify è circa OTTANTUNO DOLLARI divisi per il numero di membri del gruppo. Sarebbe lecito supporre che se il gruppo facesse venti o trenta date all’anno e sul banchetto mettesse solo un salvadanaio a forma di porcello con un biglietto e scritto “non siamo su Spotify, vi scoccia mettere qui dentro le monete di taglio sotto i venti centesimi che avete in tasca?”, alla fine dell’anno avrebbero raccolto il doppio di quello che han beccato su Spotify.

IL PIPPONE 1 – INFLUENCER(S)

La maggior parte delle cose che riguardano la musica, ai nostri tempi, succedono senza ragione. Non c’è nessuna ragione di accettare o non accettare di stare in streaming su un servizio di questi (Spotify non è l’unico, nell’articolo di Pitchfork si parla di Pandora che se non erro paga ancora meno), specie se hai una moralità flessibile e non hai troppi problemi sul dove finirà la tua musica. Spotify genera un meccanismo orizzontale di condivisione del gusto e della musica tra i vari utenti, ed è una cosa lodevole, ma anche un meccanismo ugualmente orizzontale secondo cui la tua musica di fatto diventa la colonna sonora dello spot di chiunque paghi un’inserzione (compresa roba che magari stai boicottando). Di questi tempi sta imperversando (si fa per dire) una polemica sulla concezione odierna di influencer (cioè più o meno persone come noi, ma con più follower su twitter, che accettano di promuovere questo o quel prodotto in cambio di qualcosa o di niente). Molto gradevoli i pezzi di Dietnam e Spora (entrambi amici/persone belle/fiancheggiatori di lungo corso) sull’argomento, lasciovi il piacere di leggerli e farvi un’opinione qualsiasi -io ne ho una, non collima con i due di cui sopra ma non è basata sull’evidenza empirica (nessuno mi ha mai dato niente in cambio di una buona parola su qualcosa, non mi sono mai dovuto porre seriamente il problema). Per i confini generali di quello che sto dicendo e capire quanto è fuori moda la mia opinione su queste cose a livello macro, vi rimando a un pezzo precedente su queste non pagine. Una cosa del mio passato che non amo ricordare è che ho una laurea in scienze politiche con tesi in econometria, il che significa che ogni tanto mi piace fare inferenze stupide basate su concetti monetari desueti. Questo per dire che sembra MOLTO strano che nessuno abbia mai detto niente su un evidente trend positivo che lega l’aumento del grado di smaterializzazione dei supporti fonografici (uno svilimento lungo trent’anni che va dal vinile al nastro al CD al file audio allo streaming, e il nostro bisogno di progredire come specie ci porterà a svilire ulteriormente le condizioni di ascolto, date retta) e l’aumento della flessibilità dell’etica degli ascoltatori in merito. Comprare e vendere un disco è sempre stato un atto politico in sé, un disco piuttosto che un altro, in un luogo piuttosto che un altro, a un prezzo rispetto che a un altro. Oggi metti i dischi in streaming e download da una parte o dall’altra, il video in streaming esclusivo su Repubblica, il disco in streaming esclusivo su DLSO o quel che è, il pezzo su iTunes o Spotify eccetera e se sei molto fortunato vai nella colonna sonora di uno spot Levi’s e puoi passare il resto della vita a leccarti le ferite nella strada per la banca, tipo Stiltskin (c’è un bel fumetto di Baronciani uscito da poco sul suo blog). Leggevo forse su Internazionale di una causa che andava avanti questi giorni tra gli eredi di Rick James e l’etichetta, che riguarda il considerare gli mp3 su iTunes dischi normali o merce tutelata dal diritto d’autore (la differenza tra l’una e l’altra è una stecca di venti punti percentuali sull’intera royalty, mi sembra di ricordare). Giusto per ricordarci che mentre Spotify ti rivende una gioventù in cui un nastrone ti faceva limonare, qualcuno sta facendo causa a qualcun altro sulle dimensioni della sua fetta. Tra l’altro per quanto mi riguarda succede più spesso il contrario: se ti limoni la tizia a sufficienza, a un certo punto potrebbe decidere di ascoltare il tuo nastrone di merda.

BA

IL PIPPONE 2 – LA FESTA DEI DISCHI

Non sembrava molto, ma questo è un pezzo sul Record Store Day 2013. Succede tra una ventina di giorni, ma quest’anno ne ho un po’ meno voglia degli anni scorsi. Il punto è che il Record Store Day era nato con una precisa volontà ed era quella di riportare, per un giorno, i gruppi nei negozi di dischi. Era un concetto molto puro e molto importante, ed era un concetto brutale e politico. Era la tacita ammissione che il mondo musicale stava diventando un ginepraio in cui infilarsi, nel lungo periodo, non avrebbe giovato –in fin dei conti- a nessuno, e dava per un giorno su 365 la possibilità a chiunque di tornare un attimo indietro e fare un consuntivo. Il RSD era, nelle parole illuminate del mio collega che vi invito a rileggere per capire qual è lo spirito giusto con cui affrontarlo, una giornata dedicata a tutti i pazzi temerari romantici eroi di ieri e di oggi che hanno deciso di guadagnarsi da vivere smerciando dischi.

Se dovessi descrivere il RSD oggi non mi verrebbero mai in mente le stesse parole. Il RSD di oggi è la festa dei dischi, non la festa dei negozi: una data in cui esce una vagonata di roba figa (ci sarebbe anche da discutere: il vinile rosso di Kiss Me Kiss Me Kiss Me non è roba figa bensì lo stanco e triste parto della mente di qualche testa di cazzo che spilla soldi a dei vecchi collezionisti idioti non essendo stato manco capace a crearne di nuovi), resa incidentalmente disponibile in posti che non siamo soliti visitare. È una specie di ubiquo festival musicale a cui partecipa gente che non lo diresti mai ma sta ancora da qualche parte in mezzo alla città. Nel sito del Record Store Day trovate una lista dei negozi partecipanti. Partecipare vuol dire (taglio con l’accetta) mettere in piedi qualche iniziativa o fare delle promo. MA PERCHÉ? Record Store Day vuol dire giornata dei negozi di dischi, non giornata dei negozi di dischi che partecipano all’iniziativa. Non ho mai visto fare l’appello dei partecipanti alla festa del papà. L’EP Phosgene Nightmare dei Black Angels, uscito per il RSD due anni fa, è scaricabile su iTunes da un anno e mezzo. Per dire del primo che ho cercato.

In quanti beneficiano economicamente dal RSD? Difficile a dirsi. Un artista pubblica un vinile a tiratura limitata a sostegno di una causa qualsiasi, e in qualche modo promuove se stesso come depositario di una tradizione “originale” –a prescindere dal fatto che lo sia o meno- e mi chiede di crederci ed operare in tal senso. Non ho problemi con chi vuole farsi bello con il Record Store Day, ma dovrebbe avere la decenza di non rimangiarsi la parola dopo tre mesi e piazzare il disco su iTunes. Allo stesso modo noi dovremmo avere la decenza di renderci conto che iTunes. Oggi come oggi potremmo declassare senza problemi il Record Store Day a Record Sales Day, per passare nel 2015 a Musica Sbòra in Aprile. Nel 2016 magari lo scaliamo a massimo sistema e lo celebriamo via Spotify.

USCIRE DALLA CRISI

Mi rendo conto che è un atteggiamento bambinesco, ma non credo che potremo mai uscire dall’impasse in cui siamo precipitati (lo penso in generale, ma ora parlo della musica) se non ci rimbocchiamo le maniche in prima persona e non iniziamo a lavorarci ognuno nel suo piccolo. Possiamo tranquillamente riprenderci il Record Store Day uscendo di casa il sabato prima e andando a spenderci un centone di dischi non-in-offerta al negozio. Non lo facciamo perché abbiamo altre cose a cui pensare e perché il budget per i dischi è ormai prosciugato dalle offerte di Amazon e dalle rate della reflex digitale. Iniziare a chiamare le cose con il loro nome, dare un valore al tempo che passiamo online e offline, pagare le cose che sosteniamo, scoprire a chi vanno i soldi che paghiamo, chiederci come vogliamo che sia il mondo e come non vogliamo che sia. E in una maniera un po’ romantica e sfigata, provare a risalire la china un passo alla volta invece che, boh, un hashtag alla volta.

11 pensieri su “PAGARE LA MUSICA #9 (la china)

  1. “Record store day. Buoni i primi, merda tutto il resto”. (cit.)

    Bellissimo pezzo questo, detto soprattutto da uno che condivide ogni riga della seconda parte del discorso, ma poi a conti fatti non fa quasi un cazzo per dimostrarlo.

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