(fine)

Questo è l’ultimo post che scriviamo su Bastonate.

Esistiamo dal maggio 2009 e abbiamo scritto 2113 articoli. L’archivio rimane tutto online e abbiamo ripristinato una colonna di navigazione per aiutare a muovervi dentro al sito. Continueremo a fare uscire, in maniera molto sporadica, la newsletter Bastonate Per Posta. Se volete iscrivervi, o anche solo sapere di che si tratta, cliccate qui.

Per tutto il resto ci si becca in giro. Matteo ha scritto una cosa, sta qui sotto. La lista delle persone da ringraziare per questi nove anni è talmente lunga che anche solo pensare di provare a stilarne una ci fa paura. Però davvero, grazie. 

Francesco

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È stato naturale, mi è stato chiesto e ho detto di sì. All’inizio eravamo in quattro, uno dei quali non ha mai scritto una riga; lo vedevo nella lista dei collaboratori, poi non l’ho visto più. Non c’era una linea, la sola vaga idea era parlare di musica ad alto volume di cui fregasse zero al 99.9 periodico e moltissimo allo zero virgola, dissociati ossessionati che probabilmente non esistevano da nessuna parte se non nelle nostre teste. L’ho presa alla lettera, iniziando a parlare di cose di cui non avevo letto da nessuna parte in nessuna lingua o quasi; a volte era roba che mi era capitata tra le mani quando scambiavo cassette per posta, altre volte roba di cui ricordavo di avere letto su qualche fanzine che da allora trattenevo in memoria, altre invece roba che avevo scaricato a caso da mikeattacks tra il 2002 e il 2003 di cui nessuno ancora aveva parlato – per chi non c’era, mikeattacks è stato il vero regolatore del gusto da quando esiste Soulseek; dalle sue cartelle si sono abbeverati, direttamente o indirettamente, quasi tutti quelli che scrivono da qualche parte oggi, di più: la ragione per cui certi gruppi e certe scene hanno trovato spazio in Italia. Non la stampa specializzata, non i blog, non i social network (che allora nemmeno esistevano): le cartelle di mikeattacks su Soulseek.
Poi sticazzi anche di quel proposito; chi c’era buttava su la qualunque, in qualche modo il quadro globale aveva un senso per qualcuno oltre a noi. Io ho cominciato a scrivere delle cose che avevo visto o volevo vedere, una via di mezzo tra appunti sparsi alle sei del mattino di ritorno da una serata chissà dove e qualcosa nelle intenzioni ispirato alla rubrica di Red Vynile su Frigidaire: sentivo qualche cazzata detta da qualche estraneo sull’autobus, in un negozio di dischi, a un concerto, la riproponevo alzando ulteriormente l’asticella dell’ignoranza. Non rileggevo, mai riletto una riga, nemmeno per correggere la punteggiatura; buttavo su e basta. Certo il 99.9 della mia merda oggi mi farebbe scappare via urlando, l’altro zero virgola mi farebbe ponderare la mia mortalità, ragione per cui ho sempre evitato.
Vivevo abbastanza disconnesso, sempre in bilico tra il pezzo della Rollins Band ma reale e il pezzo dei Face To Face senza la poesia; mettere in fila una parola dietro l’altra per molto tempo è stata la mia zattera, il relitto a cui da naufrago mi aggrappavo per restare a galla. Poi tutto tornava a essere il terrificante casino che stare al mondo comporta, ma intanto per qualche quarto d’ora ne ero fuori e tanto bastava. Non era niente, ma per me era importante.
Per quel che mi riguarda il primo stop è stato forzato, otto-dieci giorni che diventano settimane, poi mesi, al ritorno solo macerie. Poi un altro stop forzato, dopo il quale è diventata una necessità, la parte con un senso della giornata.
Poi è semplicemente diventata pesante. Immagino che la conclusione sia comune, altrimenti non leggereste questo ma altra roba, con altri toni, a scadenza più o meno regolare. Mai avrei pensato di chiuderla così: consunzione, lasciare andare senza la parola fine scritta da qualche parte, questi sono gli scenari che conosco meglio. E invece; c’è sempre una prima volta. Diceva bene Lindo quando diceva che la prima fa sempre male; intanto, nel caso, mi metto avanti passando direttamente alla quarta.
Non riscrivo la prima delle mie rime semplicemente perché non ho mai scritto una rima; come se lo stessi facendo in questo preciso istante.
Bella

Matteo

è televisivo, è nazionalpopolare, fa discutere.

“La verità è che ci rode non aver più 15/20 anni ed essere lì, a strafottersene, a guardare il concertone dal vivo, ancora lontani dai veri problemi e invece a gridarli come se fossero già nostri, a sventolare bandiere ma anche no, a pensare domani di far buca a scuola, a cantare, ballare, bere e pomiciare. E invece siamo qua sui nostri computer a commentare la festa un po’ incattiviti, a fare la pulce ai cantanti, perché noi dentro quella festa non ci siamo più.” Lo dice un mio contatto Facebook, spiazzandomi sensibilmente: non so quanti di voi hanno mai considerato –anche alla lontana, anche per fare un favore alla morosa o non so manco io che altro- di prendere un treno e andarsi a vedere il concerto del Primo Maggio in piazza San Giovanni. A me non è mai capitato. Sono quegli impulsi legati al rock di massa a cui non sono mai riuscito ad accordarmi nonostante io sballi per il rock di massa dal giorno uno –tipo quelli che vanno a vedere Arezzo Wave, presente? Non so, mi fa proprio schifo l’idea. Questo per dire che forse sull’argomento in essere sono un po’ insensibile, e magari indegno d’aprir bocca, non so. 

Sono rimasto inchiodato al muro da quella cosa che scrisse Luca Frazzi vent’anni fa: “a chi servono, se non a se stessi, i CSI primi in classifica?”. Mi torna in mente una volta a settimana, e anche di più quando le contingenze lo richiedono. Ad esempio oggi è il 2 maggio e ancora infuria il dibattito in merito al Concertone. Il Concertone (nomignolo del tradizionale Concerto del Primo Maggio in piazza San Giovanni a Roma) è una sorta di Sanremo per indierockers all’amatriciana: è televisivo, è nazionalpopolare, fa discutere. Il fatto di non essere Sanremo e non avere quel tipo di selezione all’ingresso (a Sanremo si preferiscono gli anzianotti e i giovani che potrebbero passare per tali) ha reso inevitabile che il bill di ogni edizione si costruisca sulla base dello scontro ideologico tra la volontà di essere cutting edge, di rappresentare in un contesto televisivo/nazionalpopolare la musica di oggi, e l’incapacità strutturale di essere cutting edge in un contesto televisivo/nazionalpopolare. Il fatto è che questo scontro ideologico è talmente alla luce del sole da far sì che il Concertone sia impossibile da amare davvero e impossibile da criticare fino in fondo. Al di là delle questioni politiche, in effetti, le discussioni in merito al Concertone sui social seguono tutte una manciata di direttrici. E vado ad elencare: 1 com’è possibile che in questo paese esista ancora un pubblico che riesce a sentirsi rappresentato politicamente o musicalmente da Teresa De Sio e dai Modena City Ramblers? 2 Come si può permettere a gente come Galeffi di calcare indisturbata un palco che fino a 10/15 anni fa competeva agli Afterhours? 3 Chi cazzo è Galeffi?

Fine. Poi naturalmente ci sono le contropolemiche: perché siete infastiditi (il generico voi che chiama in causa una fantomatica maggioranza silenziosa di hater e mezzeseghe) dall’esistenza di Teresa De Sio? Perché non date una possibilità a Galeffi? Perché fate così orgogliosamente sfoggio della vostra ignoranza? Poi ci sono le contro-contropolemiche e i vari gradi di giudizio, tutte cose che moltiplicano i livelli di astrazione legati allo scrivere di musica in quel modo che ti mette in imbarazzo quando ti rileggi a due o tre giorni di distanza; poi arriva qualcuno che chiude i conti sentenziando “e comunque il concerto di Willie Peyote era tutto esaurito”, ché noi si parla male degli artisti per ridurgli il flusso di cassa. Però tutto questo chiacchiericcio è così grosso e pervasivo da far nascere interrogativi più interessanti in merito al Concertone, e alla situazione di quella musica lì in Italia. Metto i primi tre che mi vengono in mente.

1 Perché Sfera Ebbasta e Cosmo sono cutting edge e la Bandabardò no? Voglio dire, è vero che la patchanka ha sfrangiato i coglioni, ma almeno ci si è attaccata addosso come un brutto male e ha generato un senso identitario e geografico forte, il quale per giunta non mi sembra abbia più grandissima rappresentanza al di fuori della Puglia. Ecco: a che cazzo serve uscire dalla patchanka se l’unica alternativa percorribile sembra esser figlia di trent’anni di puttanate imperialiste senza identità?

2 Visto e considerato che a gente come Agnelli e Brunori vengono affidati programmi televisivi su base regolare, che entrambi vanno a ramazzare nello stesso bacino del Concertone senza fare una piega, che la stampa di settore tende a sbrodolarsi le mani sui risultati artistici di tali programmi e tutto il resto, chi cazzo se ne frega di chi suona al Concertone?

3 Altra domanda: avete mai conosciuto un gruppo per via del fatto che ha suonato al Concertone? Questa in realtà è una domanda seria: a me non ne viene in mente nessuno a parte i i Bud Spencer Blues Explosion, una cosa di cui non mi sento particolarmente grato alla CGIL.

Ambivalenze

Domani saranno passati esattamente 12 anni dalla release dell’ultimo disco dei Tool, che si chiamava 10000 Days e non era un bel disco. Oggi i Tool hanno postato il primo pezzo di musica da allora, anche questo totalmente dispensabile. La notizia del ritorno dei Tool viene purtroppo oscurata dal fatto che oggi anche gli ABBA (i Tool svedesi) hanno annunciato il ritorno sulle scene dopo essere rimasti nel congelatore 35 anni. Di mia parte ho sentimenti ambivalenti: non credo che possano davvero cambiare il giudizio su di loro e sui loro fan, i quali stanno ripassando da mesi la serie di Fibonacci nell’attesa del nuovo disco, ma ogni volta che penso a quanto mi fanno schifo ormai i Tool mi torna in mente questo video e penso sempre, insomma, bella Maynard.   

Madonna che schifo Jon Hopkins

Insomma oggi esce un nuovo pezzo di Jon Hopkins che si chiama Everything Connected e lo trovate qui. Spoiler: sembra che il disco nuovo, di cui EC è l’anticipo, non si discosterà dal discorso generale che Hopkins aveva intrapreso con il pluridecantatissimo Immunity. La cosa curiosa è che un paio di giorni fa è uscito un meraviglioso articolo sul foglio, firmato da Camillo Langone (il quale, ricordiamolo, scrisse il celeberrimo Togliete i libri alle donne: torneranno a far figli) e intitolato Ascoltare Ghali al mattino rischia di rovinare la giornata. La teoria dell’articolo è piuttosto particolare, in sostanza lo critica perché

1 è in generale un artista di merda

2 non è vero, come dice Saviano, che ha l’accento milanese.

3 non è vero che il flow di Ghali può convertire i nazi, vedi ad esempio l’odierna ondata fascioislamica.

E lo ringrazia per avergli salvato la giornata, perché per pulire le orecchie ora sarà necessario ascoltare fino a sera Jon Hopkins. Per il quale Langone spende una definizione di tre parole: “elettronica elegantissima, europeissima”.

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È vero che le persone di una certa estrazione culturale e con un percorso professionale di successo (coloro che io chiamo Gli Scopati) consigliano di passare oltre, non mischiarsi con certa marmaglia e non essere infastiditi dalle cose che scrivono i Camillo Langone, ma voi come vi sentireste se vi foste trovati al posto mio? In uno degli articoli sulla musica più brutti che ho mai letto l’autore mi mette a conoscenza del fatto che io e lui abbiamo almeno DUE gusti in comune. Ghali non mi ha mai detto un cazzo, Jon Hopkins lo ascolto volentieri. Immagino sia lo stesso tipo di straniamento politico-musicale che i faberiani sperimentano ogni volta che Matteo Salvini si ricorda di dichiarare pubblicamente il suo amore per De André (un altro bellissimo video del fine settimana è quello di Gianni Alemanno che legge L’Avvelenata e confessa la passione sfrenata che i giovani militanti di destra avevano per Guccini negli anni settanta), o anche il motivo per cui magari i Pearl Jam mi piacciono pure ma di portare la maglietta non se ne parla: non vogliamo essere associati a certa gente. Voglio dire, è roba che mi succede quasi inconsciamente. Così magari ti trovi anche a sopravvalutare certi discorsi musicali e ti trovi di fronte ad effetti collaterali del tutto indesiderati. Ad esempio, Camillo Langone voleva tirare soltanto due insulti a Ghali, e senza volerlo ha fatto il dim mak a Jon Hopkins. Oggi ho riascoltato Everyhing Connected, la quale non sembra discostarsi dal discorso generale che Hopkins aveva intrapreso con il pluridecantatissimo Immunity, e di averla trovata una vera merda. Cioè, pensateci: finché se ne va via tranquilla con quell’incastro ritmico a inseguimento alla JonHopkins-maniera è bella e tutto, ma se uno s’ascolta con un briciolo d’attenzione l’esplosione wagneriana della seconda parte del disco

(non ho un retroterra classico; quando dico “wagneriano” intendo “operistico, pomposo e ideale per essere sfottuto da Woody Allen o suonato dagli altoparlanti di un elicottero nel momento di dover assaltare un villaggio nel sudest asiatico”)

è proprio l’esatto motivo per cui Langone si può permettere di ascoltare un disco pensato per la ballotta e chiamarlo, orgogliosamente, “europeissimo”. Madonna che schifo Jon Hopkins.  

Soulfly – s/t (vent’anni dopo)

Sottotitolo: perché uno dei dischi più brutti e tristi della storia dell’heavy metal continua ancor oggi a godere di una certa qual reputazione artistica?

Il ’98, musicalmente parlando, è una bestia strana. Se lo mettiamo a confronto con la sbornia dei ventennali con cui abbiamo riempito i fogli negli ultimi 5 anni, è un anno relativamente scarico. Ci sono dischi con cui abbiamo molto a che fare anche oggi, ad esempio il disco dei Neutral Milk Hotel, ma tutto sommato è roba che fa la sua figura più oggi che allora. In quell’anno sono usciti tanti dei miei dischi preferiti, specie di estrazione rock: End Hits, Up, Philophobia e roba simile, ma se andiamo a guardare di fino sono più passioni personali che opinioni condivise. Il fatto è che il ’98 forse è il primo anno musicale in cui abbiamo davvero a che fare con la morte dell’immaginazione: il grunge è finito, il punk melodico è finito, il britpop è finito, la dance di orientamento pop-rock è praticamente finita. Non è che non ci siano movimenti musicali importanti, ma per la prima volta sembra che nessuno di questi sia destinato a diventare il nuovo mainstream. La principale cosa musicale che sta succedendo a livello di immaginario è che dopo anni di tentativi in provetta, quasi tutti di successo commerciale, tutti si sono convinti che la strada per il futuropassi per l’incrocio tra generi. Il metal è totalmente allo sbando, ma ancora non ce ne stiamo rendendo conto. I gruppi grossi della prima spremitura anni ’90 (Pantera, Type O Negative e simili) hanno ceduto il passo alla generazione immediatamente successiva, quella dei vari Korn/Deftones/Machine Head: per la prima volta nella storia del genere, la generazione successiva suona meno duro della generazione precedente. Il metal estremo registra la cosa e decide di asserragliarsi sulle proprie posizioni; dal punto di vista del sangue blu il gruppo-guida del periodo sarebbero i Sepultura, ma i Sepultura si sono sciolti l’anno precedente.

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La storia delle origini dei Sepultura non è molto diversa da quella delle altre band: ascolti qualche disco heavy metal, ne rimani folgorato, metti su un gruppo. Poi ascolti qualche disco heavy metal più violento di quelli che avevi ascoltato, la testa ti esplode e decidi di iniziare anche tu a fare a gara a chi suona più duro. La prima particolarità dei Sepultura è che questo succede a Belo Horizonte, nel sud del Brasile, in un periodo nel quale il Brasile è ancora identificabile come terzo mondo. In questo la biografia dei Sepultura ha qualche parentela con le storie raccontate in documentari come Heavy Metal in Baghdad, i film che raccontano il bisogno di essere metal in realtà che dal punto di vista politico sociale ed economico sono ai margini del mercato mondiale (cioè di essere metal in un posto dove essere metal è inconcepibile, o magari esplicitamente vietato). La seconda particolarità dei Sepultura è che a dispetto dell’ambiente ostile da cui prendono le mosse (tipo registrare con ingegneri del suono che non hanno mai ascoltato un disco metal), sono considerati sin dagli esordi uno dei gruppi metal più interessanti sul mercato: adottati fin da subito dalla critica, esplodono soprattutto con l’arrivo di Scott Burns a produrre, all’epoca di Beneath The Remains e Arise (ancora oggi listati a merito tra i classici assoluti del thrash/death). Da qui in poi è solo questione di sapersi amministrare: si trasferiscono a Phoenix, ingaggiano Gloria Bujnowski come manager e continuano a inanellare successi: Chaos AD li trasforma in un gruppo groove metal di classe mondiale. Su Roots scrissi questa cosa qui e non voglio ripetermi. Socialmente i Sepultura sono la classica gateway drug del metal, un gruppo violento ed estremo che potevamo ascoltare senza diventare per forza di cose degli esegeti del grindgore –ma qualcuno li ha ascoltati e lo è diventato. Certe caratteristiche del gruppo hanno a che fare con l’idea della big band squassata da conflitti e segnata dalla personalità dei suoi membri, altre caratteristiche puntano a fare il piedino a tutti i discorsi sulle radici e LA SCENA ed essere sempre fedeli alla linea, qualunque essa sia.

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Lo scioglimento dei Sepultura è un fulmine a ciel sereno, in parte perché è la fine di un gruppo strategico e in parte perché si tratta di una delle storie di gossip più fastidiose della storia del metal. Le cose vanno così: i restanti membri del gruppo stanno pensando di cambiare diversi membri del loro staff e sollevare Gloria Cavalera dal suo incarico, per via del fatto che –a detta loro- le priorità della manager in questione sono sempre meno legate alla band e sempre più alla figura del marito. La notizia viene comunicata a Max Cavalera alla fine del tour di Roots: Gloria ha perso da poco un figlio ventenne in un incidente stradale. Vengono fuori rivalità e scazzi, e Max Cavalera esce dal gruppo. Da qui in poi inizia una nuova fase, segnata da un fuoco incrociato di dichiarazioni, soprattutto da parte del cantante. Le tempistiche sono curiose, perché tutto l’impianto ideologico del loro ultimo disco si fonda sull’idea di Sepultura come tribù indissolubile legata nel sangue e a cui i membri pagheranno eterno rispetto. 

Roots era un disco di metal contaminato, o comunque vogliate chiamare questo genere. L’elemento crossover è farina del sacco di Max Cavalera, a detta sua: è lui ad avvicinare il produttore dei Korn, spingere per l’inserimento di certi elementi di musica tradizionale e collaboratori più o meno extragenere (Carlinhos Brown, Mike Patton, Jonathan Davis). All’atto pratico, Roots allenta di parecchio le cinghie anche rispetto al comunque monolitico Chaos AD. Ne guadagna in dinamica e in personalità: a 20 anni di distanza è ancora un disco con un senso. Ho letto un’intervista a Cavalera, ai tempi, in cui diceva di aver già programmato i due dischi successivi della band: uno che proseguisse la via delle contaminazioni, e subito dopo un disco violentissimo. Questa cosa di avere un futuro scritto cozzava un po’ con l’idea di istinto e unanimità alla base dei Sepultura, ma non si può dire che il gruppo non avesse gestito oculatamente il proprio progresso fino a quel momento.

Se aveste chiesto ai Sepultura chi fosse il genio del gruppo mentre il gruppo era in vita, probabilmente avrebbero iniziato a menarla con la storia della magica alchimia. Effettivamente i Sepultura erano una macchina da spettacolo piuttosto eterogenea. Le cose più particolari nella musica del gruppo le mettono Kisser e Igor Cavalera: la chitarra solista di stampo quasi psichedelico, le batterie tribal-industriali che poi verranno copiate da migliaia di epigoni. Max Cavalera era un frontman di razza: la sua capacità di entrare in contatto con il pubblico, per giunta in una lingua di cui conosceva sì e no i rudimenti, era quasi sovrumana. Nel momento di separare i letti i tre membri superstiti hanno conservato il nome e cercato un cantante. L’altro ha cercato un nome e dei musicisti.

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Max Cavalera non se la sentiva di fare un disco solista, e così fondò un gruppo. Aveva un certo ascendente sulla scena crossover, in fondo ne era il fratello maggiore: parlava bene dei gruppi, frequentava i musicisti. Ne chiamò svariati per aiutarlo a mettere insieme il disco: Fred Durst dei Limp Bizkit (prima che diventasse Fred Durst e basta), Chino Moreno, Benji dei Dub War. Anche il gruppo era stato fondato dentro al giro; lui aveva scritto un pugno di canzoni. Per essere esatti più che scrivere aveva provato a riscrivere le canzoni di Roots, ricicciando la stessa idea terzomondista e lo stesso pantheon di personaggi del folklore amazzonico, con l’aggiunta degli stessi strumenti (berimbau, percussioni tribali) e poco altro. Impossibilitato a tagliare tutto con la personalità organica della chitarra di Kisser e della batteria di suo fratello, aveva deciso di spingere sul pedale delle ibridazioni: dentro al calderone dei pezzi c’erano andati a finire anche due strumentali di orribile ispirazione prog rock e una inqualificabile cover di Jorge Ben. Per la produzione Cavalera aveva deciso a ri-affidarsi a Ross Robinson, che nel ’98 era ancora il produttore più richiesto nei quartieri alti del metal (e in quell’anno avrebbe fatto uscire il manifesto ideologico del RobinsonSound, l’omonimo degli Slipknot). Al centro dei testi: le autocelebrazioni, la disputa coi Sepultura, la morte del figlioccio e tutte le cose che già stavano dentro a Roots. Il disco, il gruppo e la più brutta canzone contenuta nel disco si sarebbero chiamati Soulfly. 

Le audizioni per trovare il nuovo cantante dei Sepultura, per un certo periodo, furono leggendarie. Per certi versi ricordano quelle che qualche anno dopo i Metallica avrebbero fatto per sostituire Jason Newsted, solo un po’ meno glamour: nomi che continuavano a saltar fuori, si dice/si dice/si dice, poca ciccia. Il problema è questo: Max Cavalera era insostituibile. Era sostituibilissimo dal punto di vista musicale: anche in tre erano talmente compatti e rodati che avrebbero potuto prendere uno stronzo qualsiasi con la voce grossa e un po’ di presenza scenica, e tirar su uno spettacolo sonoro degno dei Sepultura. Ma tutta la dimensione carismatica e di culto attorno al gruppo era andata a farsi benedire, e il gruppo l’avrebbe pagata chiunque fosse il cantante.

Paradossalmente per Cavalera era più facile farla franca: avrebbe provato a ricreare dei nuovi Sepultura in vitro, con altri musicisti, continuando a fare dichiarazioni sulla tribù e lo spirito, blastando gli ex-compagni con quel fare ascetico di chi è sempre superiore a tutti, nella speranza che il bagaglio ideologico da fricchettone fosse così insolito in quel contesto da giustificare qualunque musica si fosse poi degnato di fare uscire. Successe esattamente questo.

La differenza musicale tra Soulfly del 1998 e Roots del 1996 è la stessa che passa tra metal e nu-metal. Roots è un disco metal in ogni suo aspetto: è realizzato con l’idea di essere brutale, cattivissimo; le due variazioni sul tema servono più a far parlare della musica di quanto servano oggettivamente a cambiarla. Le pose tradizionaliste dei Sepultura dell’epoca sono pagliaccesche ed esagerate come lo può essere il metal. Soulfly invece è realizzato con la precisa idea di fare un disco contemporaneo. Le variazioni sul tema sono più numerose ma meno incisive. In Roots c’era un produttore rampante a girar manopole per conto di un gruppo con cinque dischi in saccoccia, in Soulfly lo stesso produttore è ormai affermato e s’è trovato a lavorare quasi da zero -si pensa a un suono, si fa il gruppo, si fa il disco. C’era perfino un simbolo tribale stampato da qualche parte, sai mai che qualcuno volesse tatuarselo. Entrare a far parte della Soulfly Tribe era relativamente facile, tant’è che molti ci si trovarono dentro a loro insaputa -compri il disco e diventi quella cosa lì. Rimanerci dentro, da musicisti, era più complicato: al momento di entrare in studio per registrare il secondo disco, manco due anni dopo, Max Cavalera aveva già licenziato tre membri (nelle interviste li accusò di essere dei poseur poco interessati al lati spirituali della faccenda).

Funzionò tutto a meraviglia. Soulfly vendette benissimo e venne accolto con entusiasmo: la visione musicale e il respiro etnico-tribale del disco vennero promossi a pieni voti. Il disco era bruttissimo: il poco di buono che aveva era copiato da un disco che già possiedevamo e suonato da musicisti non all’altezza. Umbabarauma, una cover metal di Jorge Ben che manco in quinta elementare, spopolò. Il Brasile perse i mondiali con la Francia in finale, la famosa storia della crisi di Ronaldo. Dei Soulfly scrisse una bella cosa Teo Segale: erano soffocati tra il bisogno di suonare quei riffoni nu-metal, e i continui richiami a una tribù i cui membri, se esistessero, si odierebbero apertamente.

I Sepultura alla fine presero uno stronzo qualsiasi con la voce grossa e un po’ di presenza scenica. Against uscì qualche mese dopo, venne sostanzialmente stroncato, vendette poco. Bastava ed avanzava a dare una visione del futuro che sarebbe toccato ai Sepultura: mestiere, testa bassa, dischi scialbi. Riascoltato oggi è un disco onesto, sicuramente non all’altezza dei dischi da Schizophrenia a Roots, ma molto più gradevole e massiccio di qualsiasi cosa a cui abbiano messo mano i Soulfly. Il tempo non è stato clemente col gruppo: i dischi successivi (che scopro oggi, con orrore, essere dieci) sono uno più brutto dell’altro. Per un disco si poteva anche far finta, poi insomma.

If 17 different things hadn’t conspired in the exact right order, we wouldn’t be sitting here.”
(The Newsroom)

Il metal funziona finché qualcuno è disposto a menare più forte di quello che era arrivato prima di lui. I miei ricordi del ’98 sono complicati: volevo ancora ascoltare il metal, ma qualcosa non andava. Lo scioglimento dei Sepultura fu la vangata finale sul corpo esanime di un genere che stava morendo. Fossero andati avanti assieme, forse l’agonia sarebbe stata rimandata di qualche anno. Nessuno ha preso il loro posto: i gruppi che seguirono non avevano la gavetta, né tantomeno la scorza, per prendere in mano le redini del genere. Può succedere. Il fatto è che riascoltare il primo disco dei Soulfly a vent’anni esatti dalla sua uscita è veramente imbarazzante.

comprare magliette dei gruppi a 40 anni

Qualche sera fa ho comprato la maglietta di un gruppo che non mi piace, perché ho pensato che potrebbe essere una bella maglietta da mettere sotto una giacca o qualcosa del genere. Non che io porti giacche. Non voglio dire ovvietà sulle t-shirt dei gruppi, ma se ci pensate è uno dei pochissimi punti a favore dell’ossessione per la musica anche dopo i trent’anni. Per prima cosa costano poco: dieci massimo quindici euro per una t-shirt. Seconda cosa sono esclusive, nel senso che in giro non incontri mai nessuno con la tua stessa maglietta, a parte qualche situazione limite (tipo i concerti dei Pearl Jam in cui tutti si presentano con la maglietta di Alive). Terzo, le si utilizza molto di più di quanto si utilizzerebbe i vinili del gruppo.

E poi dopo i 30/35 è possibile saltare l’infausto ostacolo ideologico che ci impone di comprare magliette per sostenere, e quindi in qualche modo di legare il nostro acquisto a questioni di gradimento. Il più grande problema delle t-shirt dei gruppi, se ci fate caso, è che tendono a essere tanto più brutte quanto più il gruppo è buono, forse perché i gruppi buoni sono così fissati con la musica che non han tempo di pensare a quelle cagate, o forse perché i buoni designer influenzano in negativo la musica (ok, a parte quattro sfigati citati da chiunque). Qualcuno scriva un saggio su questa cosa. Così insomma, quando arrivi a una certa età puoi permetterti mentalmente di lasciare sul banchetto la maglietta brutta dei Melvins e magari comprare quell’altra bellissima degli M+A (o comunque cazzo si chiamino ora gli M+A), senza porsi il problema di cosa si chiederanno quelli che ti vedono con quella maglietta addosso (“NO! ASCOLTA VASCO ROSSI! non potrò mai avere un rapporto umano con quest’uomo”).

Bibliografia personale magliette di gruppi/FF: 

Sotto la maglietta (Prismo) (ad essere sincero è l’unico articolo leggibile che ho scritto sull’argomento)

10 magliette che ho indossato anche se assolutamente vergognose

10 magliette ad argomento musica a cui si dovrebbe dare fuoco

Ho visto un concerto dei Protomartyr

 

 

Il cantante assomiglia a Bob Mould periodo Workbook/Black Sheets of Rain/Sugar: ributtante, cianotico, completamente scoordinato, però alto; oppure a Bob Stinson, però vivo. Gli altri ai Mission Of Burma riformati – bruttissimi a prescindere dal contesto – però giovani e senza la carogna. Per qualche motivo importano a qualcuno. Musicalmente sembrano una copia della copia della copia della copia della copia della copia dei Fall ma senza i pezzi e con un tizio bolso e paonazzo e stremato al posto della cosa vera (ricordo di avere visto la cosa vera nell’ultima occasione dalle mie parti e dovrei sentirmi grato per avere gli anni che ho, ma ho come l’impressione di essere il meno vecchio nel locale). Infama qualche nemico invisibile come in una fiacca replica dell’hooligan degli Sleaford Mods senza la provenienza geografica, gli argomenti né tantomeno il flow, poi a una certa lascia perdere e si limita ad assecondare la marea. Probabilmente è il loro milionesimo concerto consecutivo senza manco un day off a fissare le pareti di qualche bettola. Comunque, è come se lo fosse: mi sento stanco io per loro, sulle spalle miliardi di kilometri, facce e posti che mi ricordano altre facce e posti, nelle orecchie l’eco di amplificatori come in un pezzo di Bob Seger, e nemmeno suono uno strumento. Detroit per chi non ci ha mai messo piede significa Motown Sound, Stooges, Ted Nugent, MC5, Underground Resistance, Eminem, Mick Collins; oggi, anche Protomartyr. È il 2018.

Lo scalpo

Tanto rumore per nulla?  

«Basta andare su un qualsiasi sito di secondary ticketing e dare un’occhiata ai nomi degli artisti e ai biglietti che vengono venduti(1). Non è cambiato nulla e non ci possiamo fare niente. In più, anche se per assurdo potessimo un giorno chiudere questi siti, che facciamo, chiudiamo Facebook dove i ragazzi (e non solo) vendono e rivendono biglietti tutti i giorni?(2)». 

Non c’è soluzione?  

«Ho la netta sensazione che il costo ufficiale dei biglietti sia troppo basso.(3) Se la gente continua imperterrita a comprarli sul mercato secondario vuol dire che ha i soldi per farlo. (4) (…) C’è confusione, chi compra sul secondary poi magari si rivolge agli organizzatori ufficiali perché i prezzi sono alti (5)». 

Quindi?  

«Ritengo logico che il biglietto possa avere un prezzo variabile, che possa cambiare nel tempo. Questo potrebbe sconfiggere il mercato secondario, il tanto strombazzato tagliando nominativo crea solo problemi e ulteriori costi. (6) La soluzione potrebbe essere il biglietto “dinamico”. Un settore può costare 100 euro e a seconda della richiesta, può essere variato in alto come in basso. Se ne vendono? Alzi il prezzo. Non se ne vendono? Lo abbassi, anche di 20 o 30 euro».(7)

A un annetto e mezzo di distanza da quel famoso servizio delle Iene, il boss di Live Nation risponde ad un’intervista sulla Stampa parlando del discorso del secondary ticketing. Cerchiamo di fare qualche punto partendo dalle frasi contrassegnate dai numeri in grassetto.

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1 Ricordiamoci sempre chi sta parlando, mi raccomando.

2 Sembra che il problema legato al secondary ticketing si estenda alla gente che mette l’annuncio su FB “vendo due biglietti per Vasco a Firenze, dovevo andarci con la Cinci ma mi ha fatto le corna”. Naturalmente è corretto: formalmente si deve parlare di secondary ticketing per ogni caso in cui un biglietto viene venduto e poi rivenduto. Questo in realtà nasconde un problema più grosso: parlare di “secondary ticketing” permette di pulire un po’ la questione generale. Se lo si chiamasse ad esempio bagarinaggio si andrebbe più vicini a descrivere di cosa si sta parlando, immagino. Gli inglesi i bagarini li chiamano scalpers, e la parola mi piace così tanto che spesso sono propenso ad utilizzarla anche in italiano. Quindi ad esempio quando uno ti vende un biglietto dei Coldplay a 500 euro io dico che ti sta scalpando il biglietto.

3 Ricordiamoci sempre chi sta parlando, mi raccomando.

4 Nel post di FB in cui ho letto originariamente l’intervista qualcuno ha già citato Berlusconi e “i ristoranti sono sempre pieni”. Una variazione sul tema: “mangino le brioche”. Quello che mi interessa non è tanto la spocchia di una o dell’altra persona, quanto il concetto di base su cui si regge tutto il sistema. E cioè, nella fattispecie, che il prezzo di un bene è destinato ad aumentare finché la domanda lo consente. In altre parole i Metallica si possono permettere di offrire un pacchetto VIP da 2400 euro per i loro concerti europei perché ai Metallica è consentito comportarsi come una grande azienda farmaceutica. È un’idea che ha tre grandi pilastri ideologici. Il primo è religioso: i Metallica sono i Metallica, vanno visti, sono imperdibili e bla bla bla. Il secondo è legato ad un’idea di crisi del settore sbandierata senza vergogna da 15 anni e passa: l’indotto della musica registrata sta diventando talmente ridicolo che agli artisti è consentito spremere il mercato dei concerti fino all’ultima lira. È ovvio poi che pagare 500 euro per Eminem ti può togliere i soldi per fare il viaggio a Berlino o per vedere Jay-Z, ma comunque Berlino e Jay-Z sono un po’ sopravvalutati. E l’altro grande pilastro ideologico in effetti è che un concerto grosso sia sempre e comunque un “evento”, una sorta di fondamentale dell’esistenza paragonabile alla prima sega. Questo forse è il punto fondamentale, e si contrappone ad un’idea alternativa (la quale sostiene che i concerti siano normalissimi modi di passare la serata e che si possa decidere di andare a vedere i Coldplay il giorno stesso del concerto, senza farsi delle paranoie sul fatto che si trovino o meno i biglietti) considerata pericolosissima sia dai Coldplay che da chi gli organizza il concerto. Se casca questa impalcatura non rimane un cazzo di niente.

5 Ricordiamoci sempre chi sta parlando, mi raccomando.

6 Qui forse non ho capito io ma mi sembra che stia dicendo “per sconfiggere il bagarinaggio dobbiamo legalizzarlo e gestirlo noi direttamente”. Per certi versi, a parte un po’ di fuffa gergale, bisognerebbe quasi lodare l’onestà. Ora io francamente non mi intendo molto di leggi antitrust, la mia impressione è che se Live Nation volesse implementare una mossa del genere non avrebbe tantissimi problemi a farlo, ma quel che non capisco è perché la vogliano vendere a mezzo stampa come un gesto di civiltà. Ho anche un’altra impressione, in realtà: se i biglietti dei concerti fossero venduti alla vecchia maniera, di biglietti scalpati non ne vedremmo poi così tanti. “Alla vecchia maniera”, se uno se lo stesse chiedendo, significa che se San Siro ha una capienza di 70mila persone io metto in vendita 70mila biglietti a 100 euro per il concerto di Pinco Pallino, magari mettendo un tetto agli acquisti individuali, e quando i biglietti sono finiti io ho fatto il mio incasso e gli altri si scannino pure. Probabilmente in questo punto pecco di ingenuità.

7 Anche qui probabilmente sono un po’ prevenuto, ma notate la chicca: si parla di ribassi del 20/30% e si glissa sui rialzi. Magari è rimasta fuori in sede di editing.

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Non è che voglio dirvi cosa fare o non fare con i vostri soldi: se pensate che Vasco Rossi valga 300 euro siete liberissimi di pagarlo (nota di colore: tra le altre cose che saltano fuori nell’intervista c’è che i concerti estivi di Vasco saranno organizzati da Live Nation). Suppongo anche che Live Nation abbia tutto il diritto, essendo Live Nation, di lavorare intorno all’idea di massimizzare il profitto e creare delle condizioni per alzarlo ancora di più in futuro. Mi dà fastidio indubbiamente che la cosa sia fatta con la complicità degli artisti, ma anche qui immagino che quando arrivi a un certo grado di popolarità sia naturale ascoltare il manager, pensare a chi ti ascolta come a un servo fedele, puntare all’ingrasso, interrompere pubblicamente i rapporti col tuo promoter e tornare sotto la sua ala la prima volta che c’è da organizzare un tour. Il problema credo sia un altro: questa gente dà l’impressione di agire e parlare sapendo che chi paga i loro eventi non abbia molto rispetto per se stesso. Ecco, questa cosa un po’ mi dà fastidio.

 

Il disco dei Messthetics e quel modo di stare al mondo in generale

Ai banchetti delle distro DIY era pieno di dischi, soprattutto italiani, soprattutto di area crust accacì o pop-punk, in cui il gruppo si era curato di mettere sul fronte o sul retro la scritta “NON PAGARE QUESTO DISCO PIÙ DI 20MILA LIRE”, poi corretti a 10 euro. Nell’ottica del critico musicale erano dischi che mediamente non valevano manco quelle 20mila lire lì, ma immagino che questo genere di mentalità sia uno dei motivi fondamentali per cui i critici musicali dovrebbero venire uccisi a colpi di vanga. Oggi vedere un disco con scritto “non pagare più di 10 euro” avrebbe un senso relativo, più che altro per via del fatto che in generale l’idea di vendere dischi si sta estinguendo, e in particolare Amazon sta facendo giusto ora una promo “6 CD a 30 euro” con dentro un botto di dischi belli. Sono cose della vita, vanno prese un po’ così (Friedrich Nietzsche). L’idea originale dietro a quel disclaimer era diversa, e si rifà ad un’ideologia che fu imposta da un gruppo di Washington DC dalla fine degli anni ottanta all’inizio dei duemila. In sostanza, l’idea di fare tutto quel che fosse umanamente possibile per tenere i dischi e i biglietti dei concerti ad un prezzo accessibile a tutti, a costo di tagliarsi i cachet e precludersi certi contratti o canali distributivi. Il fatto che quel gruppo fosse anche uno dei migliori in attività fece sì che quell’ideologia diventasse un modo di pensare la musica.

Per certi versi è una contraddizione in termini, molto americana sia nelle modalità che nei toni. Un esempio classico riguarda lo sport: gli statunitensi sono relativamente inclini a perdonare gli atleti eccentrici e contrari al sistema, ma solo finché vincono le partite. Il cestista nero di mezza tacca E riottoso tende a venir purgato dal sistema: la sua media a canestro non basta a giustificare le grane che ti fa piovere addosso se sei il proprietario del club. Con la musica non è molto diverso. Se ci pensate, la cosa più dolorosa dello scioglimento dei Fugazi è che s’è portata via il modo di stare al mondo dei Fugazi. The Argument era già il disco da un gruppo che agiva al di fuori del suo ecosistema, a conti fatti, ma il giorno dell’uscita non sembrava. Un mesetto prima il disco degli Strokes aveva fatto tornare di moda il garage, New Slang stava per andare a finire nella pubblicità di McDonald’s, di lì a qualche anno i poster dei gruppi indiepop avrebbero imbrattato le camerette dei protagonisti di The OC. Contestualmente, tantissime indie avrebbero iniziato a farsi distribuire da multinazionali con accordi di lusso che (sbandierando ai quattro venti una “libertà creativa” fino ad allora sconosciuta) allargarono le maglie del possibile nel codice di autocensura che teneva a bada l’etica tra virgolette “indie”, oltre a smerdare in via definitiva il loro catalogo e costringerle alla chiusura nel giro di un lustro (che ne so, GSL). I Fugazi uscirono di scena, senza dichiarazioni pubbliche né altro, perché non avevano più stimoli. Difficile dire se le condizioni ambientali abbiano o meno influito: probabilmente era solo un fatto di vecchiaia. Sta di fatto che di lì a un lustro anche Dischord avrebbe sostanzialmente smesso di lavorare a nuove uscite, concentrandosi su una serie lunghissima di ristampe e su qualche occasionale album di inediti messo insieme da amici di lungo corso (recentemente The Effects, per dire).

Ci pensavo in questi giorni mentre ascoltavo a nastro il disco dei Messthetics. I Messthetics sono Brendan Canty e Joe Lally, assieme a un chitarrista di area jazz, tale Anthony Pirog. Non riesco a decidere davvero se quello dei Messthetics sia un disco bellissimo o una scoreggia epica, ci sono tanti argomenti a favore dell’una e dell’altra tesi. A memoria quello dei Messthetics è il primo disco in cui suonano due Fugazi dallo scioglimento dei Fugazi: già di per sé è una buona notizia, ma il materiale ritmico messo in campo è clamoroso. Quantum Path, per dire, è praticamente una cover Arpeggiator suonata con l’entusiasmo a tremila e anche il resto del disco si muove nelle stesse coordinate ritmiche di Argument e End Hits –segno tra l’altro di quanto quei dischi fossero soprattutto in mano al bassista e al batterista. Ma dall’altra parte The Messthetics (nomen omen) è un disco ampolloso che spesso si permette di varcare i limiti del fastidio, probabilmente perché a Pirog non frega nulla di star suonando con due ex-membri dei. Avete presente le cose masturbative dei Karate, o i dischi strumentali dei progetti di Geoff Farina, e la sensazione che lasciavano sapendo che chi suonava era quello che aveva fatto In Place of Real Insight? Ecco.  

Ciclicamente, diciamo una volta l’anno, si parla di una possibile reunion dei Fugazi. Succede quasi sempre per una questione di accenti: di tanto in tanto capita che uno dei membri (i quali hanno carriere piuttosto soddisfacenti al di fuori del gruppo) venga intervistato. Se chiedi a Ian MacKaye se i Fugazi si riformeranno, lui ti risponderà più o meno “non lo so, magari sì, magari no, dipende se avremo una ragione di farlo o no”. Di lì a un giorno esce il titolone su Pitchfork, o dove volete voi. “Fugazi: reunion imminente?”. È comprensibile. Nel linguaggio delle rockstar, una risposta del genere implica una reunion della lineup originale nel giro di un semestre. I Fugazi sono in “pausa indefinita”: per il momento non hanno cazzi di tornare a suonare assieme, magari un giorno lo faranno. Come potrebbe suonare un disco “nuovo” dei Fugazi, a vent’anni dall’ultimo? La mia fantasia: elegante, molto scarno, suonato in punta di dita. Un’altra ipotesi è quella di un disco strumentale molto teso e molto cervellotico, molto adulto e probabilmente eccessivo, come quello dei Messthetics. Non lo so. Un’altra domanda, che in realtà mi sembra ancora più importante: come si può essere i Fugazi in un mondo in cui essere i Fugazi sembra non avere molto senso? Non lo so. Non so se vorrò davvero esserci quando/se succederà. Così, la cosa che non riesco davvero a risolvere nel disco dei Messthetics è che, sotto ogni punto di vista, sembra davvero solo un disco di musica.

100 canzoni italiane: AD OGNI COSTO

Se mi si parla di canzoni inglesi riproposte in italiano da un artista nazionale, io penso ad una pratica comune negli anni sessanta che oggi fortunatamente si è estinta. Se andate a spulciare gli elenchi online in cui le cover in italiano di successi inglesi sono listate, in realtà, vi trovate a contatto con un pianeta delle cui dimensioni ero quasi completamente all’oscuro: migliaia e migliaia di titoli, a scorrere i quali ancora oggi trovo un botto di sorprese -canzoni che non sapevo avessero corrispettivi in inglese, canzoni che non sapevo fossero state coverizzate, cover italiane anche recenti a cui, semplicemente, non penso mai.

È una pratica vecchia quanto la musica pop, grossomodo, che ha incontrato le sue maggiori fortune nella stagione degli urlatori -gancetti con il rock’n’roll e tutto il resto. Il grosso della faccenda coinvolge artisti italiani di seconda categoria che coverizzano canzoni inglesi/americane di seconda categoria, ma c’è spazio per tante sorprese. Un sacco di autori o interpreti di importanza più o meno marginale, tanto per dire, non hanno avuto problemi a confrontarsi con dei classiconi palesemente al di fuori della loro portata -esempio: esiste una Me and Bobby McGee in italiano cantata da Gianna Nannini. Ma anche certi mostri sacri non hanno resistito al prurito di rileggere degli standard anglosassoni che che ogni storico della musica popolare definisce intoccabili, senza averci molto da guadagnare e con tutto da perdere al cambio. Uno degli esempi più clamorosi è la bruttissima Via della Povertà, delirante decalcomania en italiano di Desolation Row che il FABER piazzò su vinile con la complicità di De Gregori. Ascoltare Via della Povertà per quanto mi riguarda è la rappresentazione acustica del concetto di anticlimax; si può dire anzi che la cover di De Andrè ha dato inizio a tutto un effetto farfalla che nel giro di qualche anno mi ha portato a guardare con disprezzo all’opera omnia di Fabrizio De Andrè e di Bob Dylan. Ma se è vero che persino Via della Povertà ha qualche sparuto tifoso qui e là -perlopiù gente pronta a farsi esporre a delle radiazioni tossiche pur di non ammettere che persino Fabrizio De André nella sua carriera ha pestato qualche merda- è più difficile spiegare quale sia il processo mentale che spinge artisti ben inquadrati come possono essere Marco Masini o Ligabue, cimentarsi con celeberrimi singoli di Metallica e REM (considerato anche il caso che soprattutto nel primo caso parliamo di una fanbase abbastanza aggressiva), senza che nessun membro del loro staff riesca a fermarli.

Le ragioni sono tante. Sicuramente qualcuno ha deliri di onnipotenza, ma credo che ci sia anche una cognizione diversa di cosa possa essere un classico del pop, di quanto possa essere intoccabile e di quanto possa funzionare nell’economia del cantante. Voglio dire: nella testa di un fan di Ligabue, credo che A che ora è la fine del mondo funzioni alla grande. Molto più problematica e complessa, invece, è la storia di una canzone pubblicata da Vasco Rossi nel 2009, intitolata Ad ogni costo. Con ogni probabilità il più grosso backlash mai occorso al cantante di Zocca, e per questo -forse- uno dei più emblematici pezzi di storia della canzone italiana. Come minimo, una storia affascinante. Partiamo dall’inizio.

(sono passati NOVE ANNI. A volte mi sembravano sei mesi)

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Creep è la storia di un personaggio sfuggente che parla in prima persona a una ragazza bellissima che sta di fronte a lui ma non lo nota. È un testo bizzarro, tendenzialmente rabbioso o quantomeno passivo-aggressivo, probabilmente è una storia di stalking. Viene scritta da qualche parte alla fine degli anni ottanta dal cantante di un gruppo che tra poco cambierà nome in Radiohead e strapperà un contratto EMI. La canzone è la migliore, e di gran lunga, tra quelle che andranno a comporre il primo disco lungo del gruppo, Pablo Honey. Viene registrata in un solo take, durante le session del disco; Jonny Greenwood improvvisa in diretta i due strapponi di chitarra prima del ritornello, così a sfregio, e il gruppo decide di lasciarli dentro. Creep esce anche come singolo, prima del disco, ma per mesi e mesi rimane a stagnare nell’indifferenza di chiunque. Anche Pablo Honey, che esce nel ‘93, sembra andare incontro allo stesso destino, ma mentre EMI sta iniziando a pensare di scaricare i Radiohead, Creep inizia ad entrare nelle playlist americane. Inizialmente è una cosa più che altro legata al passaparola nei canali periferici (college radio e simili), poi la canzone si trova ad aggredire il mainstream. Sono gli anni in cui il pop rock introverso, passivo-aggressivo e con le chitarre alte viaggia in corsia preferenziale. L’etichetta coglie l’occasione per capitalizzare tutto il capitalizzabile intorno a ad un’unica canzone: il gruppo viene riscalato a meteora con video in heavy rotation, spedito negli Stati Uniti per un tour interminabile e spremuto fino all’ultima goccia.

E qui inizia tutto quel percorso di auto-sabotaggio costruttivo che renderà i Radiohead il più blasonato gruppo pop degli anni duemila. Alla fine del tour americano i membri del gruppo sono ai ferri corti e in procinto di sciogliersi; all’orizzonte ci sono le session per il disco nuovo, con l’etichetta che chiede un’altra Creep e magari un po’ di ciccia per fare da contorno. Curiosamente le condizioni ambientali rimangono favorevolissime alla band: passata la moda dei tristoni grunge arriva il momento del britpop, e il gruppo di Thom Yorke è una delle prime scelte per coloro che non hanno cazzi di star dietro alla battaglia Oasis/Blur. I Radiohead hanno l’intelligenza di sfruttare al meglio le condizioni ambientali: il gruppo inizia a mettersi dietro alla musica, la quale diventa sempre più complessa ed articolata, molto sopra gli standard intellettuali del pop rock dell’epoca. The Bends è un successo di critica e pubblico, ma è solo l’avvisaglia di quel che succederà da lì in poi: un processo di sparizione ed intellettualizzazione della band, costruito su una rigida politica dell’inclusione dei materiali promozionali del gruppo -artwork, dichiarazioni, materiali video eccetera- all’interno del discorso artistico. E nelle fasi iniziali di questo processo Creep è il più grande ostacolo alla libertà del gruppo. 

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“Forse anche toccare una canzone così, così diciamo così che poi in realtà io pensavo che fosse conosciuta un po’ da pochi, fosse di nicchia, e invece in realtà era un pezzo che era conosciuto da molti.”

Nel 2015 Vasco Rossi viene intervistato nel programma radio di Silvia Boschero, la quale gli chiede di Creep. Lui si giustifica nel modo più sensato possibile: forse ha peccato di innocenza, e per sicurezza non farà mai più uscire una cover come singolo. Dice anche di avere ricevuto l’approvazione formale dal gruppo per quanto riguarda il testo. Nella versione di Vasco Rossi l’ipotesi è che il gruppo non avesse niente contro il testo; altre versioni ufficiali non ce ne sono. Magari la band ha firmato l’approvazione assieme ad altre dieci, o -più ragionevolmente- in quegli anni probabilmente i Radiohead consideravano Creep un po’ una palla persa. L’elenco di versioni sbagliate e merdose della canzone, in effetti, è a dir poco impressionante, a maggior ragione se pensiamo che l’unica buona versione del pezzo uscita da uno studio è stata registrata in un solo take, con il chitarrista che remava contro. Gli stessi Radiohead la reincidono in una versione acustica -e molto più brutta- che trovate dentro My Iron Lung. La cover più inascoltabile è probabilmente quella dei Korn, inclusa nell’unplugged del gruppo. Jonathan Davis la introduce come “un pezzo che mi ha sempre dato una grande forza”, dedicandola a tutti i ragazzi che si sentono schiacciati e inadeguati; al di là delle implicazioni del testo, fa specie perché il successo commerciale dei Korn è successivo a quello dei Radiohead di pochi mesi. OK, il successo commerciale non è indice di felicità, e i Korn hanno sempre avuto questa cosa schizofrenica di un frontman che cantava l’inadeguatezza e il disagio mentre con l’altra mano sposava una pornostar, ma la cosa più orribile continua ad essere la versione della canzone: i Korn in acustico sono già di loro difficilini da accettare, e su Creep in particolare sembrano una cover band dei Counting Crows al terzo giorno di prove. Rimanendo sul nu metal c’è una versione quasi-pirata dei Powerman 5000, registrata (credo) quando ancora erano un buon gruppo senza le menate industrial-brutte. Dal vivo l’hanno cantata in tantissimi, anche gente grossa tipo Moby (sta sul tubo ma non guardatela), Amanda Palmer, ovviamente Tori Amos (la sua versione ricorda un futuro possibile in cui i Radiohead si sono sciolti dopo Pablo Honey e Thom Yorke stesse ancora girando i bar statunitensi a suonarla in acustico). Abbastanza geniale la versione di Prince, che la risuona dal vivo aggiungendo gruva casuale e rovesciando il testo (“IO fluttuo come in una piuma in questo bellissimo pianeta, TU sei una sfigatona, che cazzo ci fai qui, che cazzo c’entri”). Si può proseguire con la lista per centinaia di pagine, in realtà, coprendo un arco di tempo che arriva ad oggi (recentissima la disputa legale con Lana del Rey, che ne ha fatto una versione apocrifa e -tra l’altro- per nulla disprezzabile e ora sta litigando per i diritti) e parte da prima della versione originale (i Radiohead pagano una percentuale dei diritti agli autori di The Air That I Breathe, un brano inciso dagli Hollies vent’anni prima).
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È tutto un po’ legato a quei discorsi infiniti sulla ciclicità del pop. Il successo di The Bends basta da solo ad elevare i Radiohead dal rango di one-shot band a gruppo vero e importante; alla vigilia dell’uscita di OK Computer, in piena risacca britpop, il gruppo è atteso con fiducia. Il disco va oltre ogni aspettativa, imponendoli come uno standard del pop di quegli anni e una delle massime incarnazioni della musica di fine millennio. Ma quando inizia il tour, Creep è già uscita dalle scalette. La cosa passa tutt’altro che inosservata, e del resto è una mossa piuttosto arrogante: Creep è ancora il loro singolo più famoso e lo resterà per sempre. Yorke e gli altri si schermano alla meno peggio, non amano più la canzone e probabilmente ne percepiscono ancora il pericolo -la lista dei gruppi uccisi dal successo del loro primo singolo è fin troppo lunga. La carriera successiva dei Radiohead passa a disegnare la schizofrenia di un gruppo perennemente indeciso se essere un gruppo progjazz da cameretta o la più influente voce mainstream a predicare il superamento delle logiche industriali legate al pop. Che fossero l’una o l’altra cosa, Creep era inadatta a descriverli. La qualità dei dischi ed il favore del loro pubblico hanno consentito loro di diventare più grandi e cancellare l’onta. 

Ad ogni costo non è il primo tentativo di cover-en-italiano di Vasco Rossi. Non sono un esegeta dell’Uomo ma c’è almeno il precedente de Gli spari sopra (cover di Celebrate degli An Emotional Fish) che vendette un macello di copie e diede il titolo al disco che la ospitava. Ma Rossi con Gli spari sopra ebbe buon gioco: il pezzo originale era semisconosciuto. Quando uscì la cover di Creep fu un mezzo macello: l’Italia del Ruock si divise equamente tra chi trovava scandaloso il trattamento riservato ai Radiohead da Vasco Rossi e chi sosteneva che i Radiohead avrebbero dovuto ringraziare Vasco per aver fatto conoscere il gruppo in Italia. Verrebbe da dire che il livore congenito dei musicofili merita battaglie migliori di questa, ma gli snob amano fare un caso di tutto quel che succede. Anche Ad ogni costo rovescia la prospettiva del testo originale: la protagonista della canzone di Vasco Rossi è una donna che vive col protagonista, e con la quale il protagonista, nonostante la giudichi odiosa bugiarda ed infedele (nelle canzoni di Vasco Rossi capita abbastanza spesso), vuole continuare a stare. Creep era l’improbabile (e vagamente inquietante) inno di una generazione di nerd senza alcuna possibilità di redenzione, Ad ogni costo può essere tuttalpiù la decima canzone in scaletta in una data del Live Kom Tour XX: fuori dal bagaglio culturale dei fan di Vasco Rossi non ha moltissimo da dare, e i fan di Vasco Rossi possono essere abbastanza aggressivi nelle loro manifestazioni. Quello che è difficile da spiegare è l’ardore con cui ci si possa trovare a difendere la canzone-simbolo di un gruppo che, a conti fatti, ha ribadito più volte che con quella canzone non ci voleva più avere a che fare. Eppure lo stesso Vasco, nell’intervista a King Kong, sembra ricordarla come una sorta di debacle.

Ci sono tante spiegazioni anche a questo, ovviamente. La principale riguarda il sistema culturale in cui viviamo: Creep fa parte di una sorta di esperanto del pop, di un linguaggio comune ad una classe intellettuale allargatissima che da decenni è a caccia di una specie di terreno comune. È un po’ come gli infiniti articoli contro il doppiaggio dei film: forse i film in lingua originale sono meglio, ma quando ci si riesce a porre a distanza l’acrimonia di certe prese di posizione sembra sempre eccessiva. Quello che rivendichiamo quando chiediamo film in lingua originale, in realtà, è uno dei pochissimi progressi culturali di cui abbiamo una sorta di coscienza nazionale; in altre parole, abbiamo tutti un’infarinatura di inglese. Allo stesso modo la battaglia scatenata da Ad ogni costo fu perlopiù una resa dei conti tra rockettari generici italiani fermi a Vasco e rockettari generici italiani che avevano fatto il passo successivo a Vasco -e in questa contesa Vasco Rossi e il suo immaginario furono brutalmente sconfitti (da lì in poi Rossi in effetti battè in ritirata, costretto a battere bar e localini in patetici tour voce-e-chitarra per sbarcare il lunario). In questo Vasco Rossi sembra ancora (è una teoria molto frequentata, è vero) l’ultimo grande depositario dell’italianità rock’n’roll: ha continuato a marchiare a fuoco il proprio pubblico e fornire un’esperienza musicale il cui livello di totalità è paragonabile a quello degli anni ottanta, in un mondo del pop in cui gli artisti (Cremonini, Jovanotti, Syria o chi volete) si adoperano per mettere un piedino nei salotti buoni dello snobismo musicale. Mi piace pensare che ogni obbrobrio culturale ci dia la possibilità di imparare una lezione. Conosco fan degli Autechre che hanno avuto da ridire su Vasco che coverizza i Radiohead. Voglio dire, è una cosa che posso rispettare.

Una cosa curiosa: stando a Wiki, Ad ogni costo esce il 25 settembre del 2009. Nemmeno un mese prima, alla fine di agosto, i Radiohead salgono sul palco di Reading e suonano Creep per la prima volta da una decina d’anni. Oggi sembrano averci fatto pace; di tanto in tanto la ficcano in scaletta e la gente in platea si mette a urlare. Nelle scalette di Vasco Rossi credo che Ad ogni costo non compaia da anni.