(fine)

Questo è l’ultimo post che scriviamo su Bastonate.

Esistiamo dal maggio 2009 e abbiamo scritto 2113 articoli. L’archivio rimane tutto online e abbiamo ripristinato una colonna di navigazione per aiutare a muovervi dentro al sito. Continueremo a fare uscire, in maniera molto sporadica, la newsletter Bastonate Per Posta. Se volete iscrivervi, o anche solo sapere di che si tratta, cliccate qui.

Per tutto il resto ci si becca in giro. Matteo ha scritto una cosa, sta qui sotto. La lista delle persone da ringraziare per questi nove anni è talmente lunga che anche solo pensare di provare a stilarne una ci fa paura. Però davvero, grazie. 

Francesco

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È stato naturale, mi è stato chiesto e ho detto di sì. All’inizio eravamo in quattro, uno dei quali non ha mai scritto una riga; lo vedevo nella lista dei collaboratori, poi non l’ho visto più. Non c’era una linea, la sola vaga idea era parlare di musica ad alto volume di cui fregasse zero al 99.9 periodico e moltissimo allo zero virgola, dissociati ossessionati che probabilmente non esistevano da nessuna parte se non nelle nostre teste. L’ho presa alla lettera, iniziando a parlare di cose di cui non avevo letto da nessuna parte in nessuna lingua o quasi; a volte era roba che mi era capitata tra le mani quando scambiavo cassette per posta, altre volte roba di cui ricordavo di avere letto su qualche fanzine che da allora trattenevo in memoria, altre invece roba che avevo scaricato a caso da mikeattacks tra il 2002 e il 2003 di cui nessuno ancora aveva parlato – per chi non c’era, mikeattacks è stato il vero regolatore del gusto da quando esiste Soulseek; dalle sue cartelle si sono abbeverati, direttamente o indirettamente, quasi tutti quelli che scrivono da qualche parte oggi, di più: la ragione per cui certi gruppi e certe scene hanno trovato spazio in Italia. Non la stampa specializzata, non i blog, non i social network (che allora nemmeno esistevano): le cartelle di mikeattacks su Soulseek.
Poi sticazzi anche di quel proposito; chi c’era buttava su la qualunque, in qualche modo il quadro globale aveva un senso per qualcuno oltre a noi. Io ho cominciato a scrivere delle cose che avevo visto o volevo vedere, una via di mezzo tra appunti sparsi alle sei del mattino di ritorno da una serata chissà dove e qualcosa nelle intenzioni ispirato alla rubrica di Red Vynile su Frigidaire: sentivo qualche cazzata detta da qualche estraneo sull’autobus, in un negozio di dischi, a un concerto, la riproponevo alzando ulteriormente l’asticella dell’ignoranza. Non rileggevo, mai riletto una riga, nemmeno per correggere la punteggiatura; buttavo su e basta. Certo il 99.9 della mia merda oggi mi farebbe scappare via urlando, l’altro zero virgola mi farebbe ponderare la mia mortalità, ragione per cui ho sempre evitato.
Vivevo abbastanza disconnesso, sempre in bilico tra il pezzo della Rollins Band ma reale e il pezzo dei Face To Face senza la poesia; mettere in fila una parola dietro l’altra per molto tempo è stata la mia zattera, il relitto a cui da naufrago mi aggrappavo per restare a galla. Poi tutto tornava a essere il terrificante casino che stare al mondo comporta, ma intanto per qualche quarto d’ora ne ero fuori e tanto bastava. Non era niente, ma per me era importante.
Per quel che mi riguarda il primo stop è stato forzato, otto-dieci giorni che diventano settimane, poi mesi, al ritorno solo macerie. Poi un altro stop forzato, dopo il quale è diventata una necessità, la parte con un senso della giornata.
Poi è semplicemente diventata pesante. Immagino che la conclusione sia comune, altrimenti non leggereste questo ma altra roba, con altri toni, a scadenza più o meno regolare. Mai avrei pensato di chiuderla così: consunzione, lasciare andare senza la parola fine scritta da qualche parte, questi sono gli scenari che conosco meglio. E invece; c’è sempre una prima volta. Diceva bene Lindo quando diceva che la prima fa sempre male; intanto, nel caso, mi metto avanti passando direttamente alla quarta.
Non riscrivo la prima delle mie rime semplicemente perché non ho mai scritto una rima; come se lo stessi facendo in questo preciso istante.
Bella

Matteo

è televisivo, è nazionalpopolare, fa discutere.

“La verità è che ci rode non aver più 15/20 anni ed essere lì, a strafottersene, a guardare il concertone dal vivo, ancora lontani dai veri problemi e invece a gridarli come se fossero già nostri, a sventolare bandiere ma anche no, a pensare domani di far buca a scuola, a cantare, ballare, bere e pomiciare. E invece siamo qua sui nostri computer a commentare la festa un po’ incattiviti, a fare la pulce ai cantanti, perché noi dentro quella festa non ci siamo più.” Lo dice un mio contatto Facebook, spiazzandomi sensibilmente: non so quanti di voi hanno mai considerato –anche alla lontana, anche per fare un favore alla morosa o non so manco io che altro- di prendere un treno e andarsi a vedere il concerto del Primo Maggio in piazza San Giovanni. A me non è mai capitato. Sono quegli impulsi legati al rock di massa a cui non sono mai riuscito ad accordarmi nonostante io sballi per il rock di massa dal giorno uno –tipo quelli che vanno a vedere Arezzo Wave, presente? Non so, mi fa proprio schifo l’idea. Questo per dire che forse sull’argomento in essere sono un po’ insensibile, e magari indegno d’aprir bocca, non so. 

Sono rimasto inchiodato al muro da quella cosa che scrisse Luca Frazzi vent’anni fa: “a chi servono, se non a se stessi, i CSI primi in classifica?”. Mi torna in mente una volta a settimana, e anche di più quando le contingenze lo richiedono. Ad esempio oggi è il 2 maggio e ancora infuria il dibattito in merito al Concertone. Il Concertone (nomignolo del tradizionale Concerto del Primo Maggio in piazza San Giovanni a Roma) è una sorta di Sanremo per indierockers all’amatriciana: è televisivo, è nazionalpopolare, fa discutere. Il fatto di non essere Sanremo e non avere quel tipo di selezione all’ingresso (a Sanremo si preferiscono gli anzianotti e i giovani che potrebbero passare per tali) ha reso inevitabile che il bill di ogni edizione si costruisca sulla base dello scontro ideologico tra la volontà di essere cutting edge, di rappresentare in un contesto televisivo/nazionalpopolare la musica di oggi, e l’incapacità strutturale di essere cutting edge in un contesto televisivo/nazionalpopolare. Il fatto è che questo scontro ideologico è talmente alla luce del sole da far sì che il Concertone sia impossibile da amare davvero e impossibile da criticare fino in fondo. Al di là delle questioni politiche, in effetti, le discussioni in merito al Concertone sui social seguono tutte una manciata di direttrici. E vado ad elencare: 1 com’è possibile che in questo paese esista ancora un pubblico che riesce a sentirsi rappresentato politicamente o musicalmente da Teresa De Sio e dai Modena City Ramblers? 2 Come si può permettere a gente come Galeffi di calcare indisturbata un palco che fino a 10/15 anni fa competeva agli Afterhours? 3 Chi cazzo è Galeffi?

Fine. Poi naturalmente ci sono le contropolemiche: perché siete infastiditi (il generico voi che chiama in causa una fantomatica maggioranza silenziosa di hater e mezzeseghe) dall’esistenza di Teresa De Sio? Perché non date una possibilità a Galeffi? Perché fate così orgogliosamente sfoggio della vostra ignoranza? Poi ci sono le contro-contropolemiche e i vari gradi di giudizio, tutte cose che moltiplicano i livelli di astrazione legati allo scrivere di musica in quel modo che ti mette in imbarazzo quando ti rileggi a due o tre giorni di distanza; poi arriva qualcuno che chiude i conti sentenziando “e comunque il concerto di Willie Peyote era tutto esaurito”, ché noi si parla male degli artisti per ridurgli il flusso di cassa. Però tutto questo chiacchiericcio è così grosso e pervasivo da far nascere interrogativi più interessanti in merito al Concertone, e alla situazione di quella musica lì in Italia. Metto i primi tre che mi vengono in mente.

1 Perché Sfera Ebbasta e Cosmo sono cutting edge e la Bandabardò no? Voglio dire, è vero che la patchanka ha sfrangiato i coglioni, ma almeno ci si è attaccata addosso come un brutto male e ha generato un senso identitario e geografico forte, il quale per giunta non mi sembra abbia più grandissima rappresentanza al di fuori della Puglia. Ecco: a che cazzo serve uscire dalla patchanka se l’unica alternativa percorribile sembra esser figlia di trent’anni di puttanate imperialiste senza identità?

2 Visto e considerato che a gente come Agnelli e Brunori vengono affidati programmi televisivi su base regolare, che entrambi vanno a ramazzare nello stesso bacino del Concertone senza fare una piega, che la stampa di settore tende a sbrodolarsi le mani sui risultati artistici di tali programmi e tutto il resto, chi cazzo se ne frega di chi suona al Concertone?

3 Altra domanda: avete mai conosciuto un gruppo per via del fatto che ha suonato al Concertone? Questa in realtà è una domanda seria: a me non ne viene in mente nessuno a parte i i Bud Spencer Blues Explosion, una cosa di cui non mi sento particolarmente grato alla CGIL.

Ambivalenze

Domani saranno passati esattamente 12 anni dalla release dell’ultimo disco dei Tool, che si chiamava 10000 Days e non era un bel disco. Oggi i Tool hanno postato il primo pezzo di musica da allora, anche questo totalmente dispensabile. La notizia del ritorno dei Tool viene purtroppo oscurata dal fatto che oggi anche gli ABBA (i Tool svedesi) hanno annunciato il ritorno sulle scene dopo essere rimasti nel congelatore 35 anni. Di mia parte ho sentimenti ambivalenti: non credo che possano davvero cambiare il giudizio su di loro e sui loro fan, i quali stanno ripassando da mesi la serie di Fibonacci nell’attesa del nuovo disco, ma ogni volta che penso a quanto mi fanno schifo ormai i Tool mi torna in mente questo video e penso sempre, insomma, bella Maynard.   

Madonna che schifo Jon Hopkins

Insomma oggi esce un nuovo pezzo di Jon Hopkins che si chiama Everything Connected e lo trovate qui. Spoiler: sembra che il disco nuovo, di cui EC è l’anticipo, non si discosterà dal discorso generale che Hopkins aveva intrapreso con il pluridecantatissimo Immunity. La cosa curiosa è che un paio di giorni fa è uscito un meraviglioso articolo sul foglio, firmato da Camillo Langone (il quale, ricordiamolo, scrisse il celeberrimo Togliete i libri alle donne: torneranno a far figli) e intitolato Ascoltare Ghali al mattino rischia di rovinare la giornata. La teoria dell’articolo è piuttosto particolare, in sostanza lo critica perché

1 è in generale un artista di merda

2 non è vero, come dice Saviano, che ha l’accento milanese.

3 non è vero che il flow di Ghali può convertire i nazi, vedi ad esempio l’odierna ondata fascioislamica.

E lo ringrazia per avergli salvato la giornata, perché per pulire le orecchie ora sarà necessario ascoltare fino a sera Jon Hopkins. Per il quale Langone spende una definizione di tre parole: “elettronica elegantissima, europeissima”.

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È vero che le persone di una certa estrazione culturale e con un percorso professionale di successo (coloro che io chiamo Gli Scopati) consigliano di passare oltre, non mischiarsi con certa marmaglia e non essere infastiditi dalle cose che scrivono i Camillo Langone, ma voi come vi sentireste se vi foste trovati al posto mio? In uno degli articoli sulla musica più brutti che ho mai letto l’autore mi mette a conoscenza del fatto che io e lui abbiamo almeno DUE gusti in comune. Ghali non mi ha mai detto un cazzo, Jon Hopkins lo ascolto volentieri. Immagino sia lo stesso tipo di straniamento politico-musicale che i faberiani sperimentano ogni volta che Matteo Salvini si ricorda di dichiarare pubblicamente il suo amore per De André (un altro bellissimo video del fine settimana è quello di Gianni Alemanno che legge L’Avvelenata e confessa la passione sfrenata che i giovani militanti di destra avevano per Guccini negli anni settanta), o anche il motivo per cui magari i Pearl Jam mi piacciono pure ma di portare la maglietta non se ne parla: non vogliamo essere associati a certa gente. Voglio dire, è roba che mi succede quasi inconsciamente. Così magari ti trovi anche a sopravvalutare certi discorsi musicali e ti trovi di fronte ad effetti collaterali del tutto indesiderati. Ad esempio, Camillo Langone voleva tirare soltanto due insulti a Ghali, e senza volerlo ha fatto il dim mak a Jon Hopkins. Oggi ho riascoltato Everyhing Connected, la quale non sembra discostarsi dal discorso generale che Hopkins aveva intrapreso con il pluridecantatissimo Immunity, e di averla trovata una vera merda. Cioè, pensateci: finché se ne va via tranquilla con quell’incastro ritmico a inseguimento alla JonHopkins-maniera è bella e tutto, ma se uno s’ascolta con un briciolo d’attenzione l’esplosione wagneriana della seconda parte del disco

(non ho un retroterra classico; quando dico “wagneriano” intendo “operistico, pomposo e ideale per essere sfottuto da Woody Allen o suonato dagli altoparlanti di un elicottero nel momento di dover assaltare un villaggio nel sudest asiatico”)

è proprio l’esatto motivo per cui Langone si può permettere di ascoltare un disco pensato per la ballotta e chiamarlo, orgogliosamente, “europeissimo”. Madonna che schifo Jon Hopkins.  

Soulfly – s/t (vent’anni dopo)

Sottotitolo: perché uno dei dischi più brutti e tristi della storia dell’heavy metal continua ancor oggi a godere di una certa qual reputazione artistica?

Il ’98, musicalmente parlando, è una bestia strana. Se lo mettiamo a confronto con la sbornia dei ventennali con cui abbiamo riempito i fogli negli ultimi 5 anni, è un anno relativamente scarico. Ci sono dischi con cui abbiamo molto a che fare anche oggi, ad esempio il disco dei Neutral Milk Hotel, ma tutto sommato è roba che fa la sua figura più oggi che allora. In quell’anno sono usciti tanti dei miei dischi preferiti, specie di estrazione rock: End Hits, Up, Philophobia e roba simile, ma se andiamo a guardare di fino sono più passioni personali che opinioni condivise. Il fatto è che il ’98 forse è il primo anno musicale in cui abbiamo davvero a che fare con la morte dell’immaginazione: il grunge è finito, il punk melodico è finito, il britpop è finito, la dance di orientamento pop-rock è praticamente finita. Non è che non ci siano movimenti musicali importanti, ma per la prima volta sembra che nessuno di questi sia destinato a diventare il nuovo mainstream. La principale cosa musicale che sta succedendo a livello di immaginario è che dopo anni di tentativi in provetta, quasi tutti di successo commerciale, tutti si sono convinti che la strada per il futuropassi per l’incrocio tra generi. Il metal è totalmente allo sbando, ma ancora non ce ne stiamo rendendo conto. I gruppi grossi della prima spremitura anni ’90 (Pantera, Type O Negative e simili) hanno ceduto il passo alla generazione immediatamente successiva, quella dei vari Korn/Deftones/Machine Head: per la prima volta nella storia del genere, la generazione successiva suona meno duro della generazione precedente. Il metal estremo registra la cosa e decide di asserragliarsi sulle proprie posizioni; dal punto di vista del sangue blu il gruppo-guida del periodo sarebbero i Sepultura, ma i Sepultura si sono sciolti l’anno precedente.

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La storia delle origini dei Sepultura non è molto diversa da quella delle altre band: ascolti qualche disco heavy metal, ne rimani folgorato, metti su un gruppo. Poi ascolti qualche disco heavy metal più violento di quelli che avevi ascoltato, la testa ti esplode e decidi di iniziare anche tu a fare a gara a chi suona più duro. La prima particolarità dei Sepultura è che questo succede a Belo Horizonte, nel sud del Brasile, in un periodo nel quale il Brasile è ancora identificabile come terzo mondo. In questo la biografia dei Sepultura ha qualche parentela con le storie raccontate in documentari come Heavy Metal in Baghdad, i film che raccontano il bisogno di essere metal in realtà che dal punto di vista politico sociale ed economico sono ai margini del mercato mondiale (cioè di essere metal in un posto dove essere metal è inconcepibile, o magari esplicitamente vietato). La seconda particolarità dei Sepultura è che a dispetto dell’ambiente ostile da cui prendono le mosse (tipo registrare con ingegneri del suono che non hanno mai ascoltato un disco metal), sono considerati sin dagli esordi uno dei gruppi metal più interessanti sul mercato: adottati fin da subito dalla critica, esplodono soprattutto con l’arrivo di Scott Burns a produrre, all’epoca di Beneath The Remains e Arise (ancora oggi listati a merito tra i classici assoluti del thrash/death). Da qui in poi è solo questione di sapersi amministrare: si trasferiscono a Phoenix, ingaggiano Gloria Bujnowski come manager e continuano a inanellare successi: Chaos AD li trasforma in un gruppo groove metal di classe mondiale. Su Roots scrissi questa cosa qui e non voglio ripetermi. Socialmente i Sepultura sono la classica gateway drug del metal, un gruppo violento ed estremo che potevamo ascoltare senza diventare per forza di cose degli esegeti del grindgore –ma qualcuno li ha ascoltati e lo è diventato. Certe caratteristiche del gruppo hanno a che fare con l’idea della big band squassata da conflitti e segnata dalla personalità dei suoi membri, altre caratteristiche puntano a fare il piedino a tutti i discorsi sulle radici e LA SCENA ed essere sempre fedeli alla linea, qualunque essa sia.

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Lo scioglimento dei Sepultura è un fulmine a ciel sereno, in parte perché è la fine di un gruppo strategico e in parte perché si tratta di una delle storie di gossip più fastidiose della storia del metal. Le cose vanno così: i restanti membri del gruppo stanno pensando di cambiare diversi membri del loro staff e sollevare Gloria Cavalera dal suo incarico, per via del fatto che –a detta loro- le priorità della manager in questione sono sempre meno legate alla band e sempre più alla figura del marito. La notizia viene comunicata a Max Cavalera alla fine del tour di Roots: Gloria ha perso da poco un figlio ventenne in un incidente stradale. Vengono fuori rivalità e scazzi, e Max Cavalera esce dal gruppo. Da qui in poi inizia una nuova fase, segnata da un fuoco incrociato di dichiarazioni, soprattutto da parte del cantante. Le tempistiche sono curiose, perché tutto l’impianto ideologico del loro ultimo disco si fonda sull’idea di Sepultura come tribù indissolubile legata nel sangue e a cui i membri pagheranno eterno rispetto. 

Roots era un disco di metal contaminato, o comunque vogliate chiamare questo genere. L’elemento crossover è farina del sacco di Max Cavalera, a detta sua: è lui ad avvicinare il produttore dei Korn, spingere per l’inserimento di certi elementi di musica tradizionale e collaboratori più o meno extragenere (Carlinhos Brown, Mike Patton, Jonathan Davis). All’atto pratico, Roots allenta di parecchio le cinghie anche rispetto al comunque monolitico Chaos AD. Ne guadagna in dinamica e in personalità: a 20 anni di distanza è ancora un disco con un senso. Ho letto un’intervista a Cavalera, ai tempi, in cui diceva di aver già programmato i due dischi successivi della band: uno che proseguisse la via delle contaminazioni, e subito dopo un disco violentissimo. Questa cosa di avere un futuro scritto cozzava un po’ con l’idea di istinto e unanimità alla base dei Sepultura, ma non si può dire che il gruppo non avesse gestito oculatamente il proprio progresso fino a quel momento.

Se aveste chiesto ai Sepultura chi fosse il genio del gruppo mentre il gruppo era in vita, probabilmente avrebbero iniziato a menarla con la storia della magica alchimia. Effettivamente i Sepultura erano una macchina da spettacolo piuttosto eterogenea. Le cose più particolari nella musica del gruppo le mettono Kisser e Igor Cavalera: la chitarra solista di stampo quasi psichedelico, le batterie tribal-industriali che poi verranno copiate da migliaia di epigoni. Max Cavalera era un frontman di razza: la sua capacità di entrare in contatto con il pubblico, per giunta in una lingua di cui conosceva sì e no i rudimenti, era quasi sovrumana. Nel momento di separare i letti i tre membri superstiti hanno conservato il nome e cercato un cantante. L’altro ha cercato un nome e dei musicisti.

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Max Cavalera non se la sentiva di fare un disco solista, e così fondò un gruppo. Aveva un certo ascendente sulla scena crossover, in fondo ne era il fratello maggiore: parlava bene dei gruppi, frequentava i musicisti. Ne chiamò svariati per aiutarlo a mettere insieme il disco: Fred Durst dei Limp Bizkit (prima che diventasse Fred Durst e basta), Chino Moreno, Benji dei Dub War. Anche il gruppo era stato fondato dentro al giro; lui aveva scritto un pugno di canzoni. Per essere esatti più che scrivere aveva provato a riscrivere le canzoni di Roots, ricicciando la stessa idea terzomondista e lo stesso pantheon di personaggi del folklore amazzonico, con l’aggiunta degli stessi strumenti (berimbau, percussioni tribali) e poco altro. Impossibilitato a tagliare tutto con la personalità organica della chitarra di Kisser e della batteria di suo fratello, aveva deciso di spingere sul pedale delle ibridazioni: dentro al calderone dei pezzi c’erano andati a finire anche due strumentali di orribile ispirazione prog rock e una inqualificabile cover di Jorge Ben. Per la produzione Cavalera aveva deciso a ri-affidarsi a Ross Robinson, che nel ’98 era ancora il produttore più richiesto nei quartieri alti del metal (e in quell’anno avrebbe fatto uscire il manifesto ideologico del RobinsonSound, l’omonimo degli Slipknot). Al centro dei testi: le autocelebrazioni, la disputa coi Sepultura, la morte del figlioccio e tutte le cose che già stavano dentro a Roots. Il disco, il gruppo e la più brutta canzone contenuta nel disco si sarebbero chiamati Soulfly. 

Le audizioni per trovare il nuovo cantante dei Sepultura, per un certo periodo, furono leggendarie. Per certi versi ricordano quelle che qualche anno dopo i Metallica avrebbero fatto per sostituire Jason Newsted, solo un po’ meno glamour: nomi che continuavano a saltar fuori, si dice/si dice/si dice, poca ciccia. Il problema è questo: Max Cavalera era insostituibile. Era sostituibilissimo dal punto di vista musicale: anche in tre erano talmente compatti e rodati che avrebbero potuto prendere uno stronzo qualsiasi con la voce grossa e un po’ di presenza scenica, e tirar su uno spettacolo sonoro degno dei Sepultura. Ma tutta la dimensione carismatica e di culto attorno al gruppo era andata a farsi benedire, e il gruppo l’avrebbe pagata chiunque fosse il cantante.

Paradossalmente per Cavalera era più facile farla franca: avrebbe provato a ricreare dei nuovi Sepultura in vitro, con altri musicisti, continuando a fare dichiarazioni sulla tribù e lo spirito, blastando gli ex-compagni con quel fare ascetico di chi è sempre superiore a tutti, nella speranza che il bagaglio ideologico da fricchettone fosse così insolito in quel contesto da giustificare qualunque musica si fosse poi degnato di fare uscire. Successe esattamente questo.

La differenza musicale tra Soulfly del 1998 e Roots del 1996 è la stessa che passa tra metal e nu-metal. Roots è un disco metal in ogni suo aspetto: è realizzato con l’idea di essere brutale, cattivissimo; le due variazioni sul tema servono più a far parlare della musica di quanto servano oggettivamente a cambiarla. Le pose tradizionaliste dei Sepultura dell’epoca sono pagliaccesche ed esagerate come lo può essere il metal. Soulfly invece è realizzato con la precisa idea di fare un disco contemporaneo. Le variazioni sul tema sono più numerose ma meno incisive. In Roots c’era un produttore rampante a girar manopole per conto di un gruppo con cinque dischi in saccoccia, in Soulfly lo stesso produttore è ormai affermato e s’è trovato a lavorare quasi da zero -si pensa a un suono, si fa il gruppo, si fa il disco. C’era perfino un simbolo tribale stampato da qualche parte, sai mai che qualcuno volesse tatuarselo. Entrare a far parte della Soulfly Tribe era relativamente facile, tant’è che molti ci si trovarono dentro a loro insaputa -compri il disco e diventi quella cosa lì. Rimanerci dentro, da musicisti, era più complicato: al momento di entrare in studio per registrare il secondo disco, manco due anni dopo, Max Cavalera aveva già licenziato tre membri (nelle interviste li accusò di essere dei poseur poco interessati al lati spirituali della faccenda).

Funzionò tutto a meraviglia. Soulfly vendette benissimo e venne accolto con entusiasmo: la visione musicale e il respiro etnico-tribale del disco vennero promossi a pieni voti. Il disco era bruttissimo: il poco di buono che aveva era copiato da un disco che già possiedevamo e suonato da musicisti non all’altezza. Umbabarauma, una cover metal di Jorge Ben che manco in quinta elementare, spopolò. Il Brasile perse i mondiali con la Francia in finale, la famosa storia della crisi di Ronaldo. Dei Soulfly scrisse una bella cosa Teo Segale: erano soffocati tra il bisogno di suonare quei riffoni nu-metal, e i continui richiami a una tribù i cui membri, se esistessero, si odierebbero apertamente.

I Sepultura alla fine presero uno stronzo qualsiasi con la voce grossa e un po’ di presenza scenica. Against uscì qualche mese dopo, venne sostanzialmente stroncato, vendette poco. Bastava ed avanzava a dare una visione del futuro che sarebbe toccato ai Sepultura: mestiere, testa bassa, dischi scialbi. Riascoltato oggi è un disco onesto, sicuramente non all’altezza dei dischi da Schizophrenia a Roots, ma molto più gradevole e massiccio di qualsiasi cosa a cui abbiano messo mano i Soulfly. Il tempo non è stato clemente col gruppo: i dischi successivi (che scopro oggi, con orrore, essere dieci) sono uno più brutto dell’altro. Per un disco si poteva anche far finta, poi insomma.

If 17 different things hadn’t conspired in the exact right order, we wouldn’t be sitting here.”
(The Newsroom)

Il metal funziona finché qualcuno è disposto a menare più forte di quello che era arrivato prima di lui. I miei ricordi del ’98 sono complicati: volevo ancora ascoltare il metal, ma qualcosa non andava. Lo scioglimento dei Sepultura fu la vangata finale sul corpo esanime di un genere che stava morendo. Fossero andati avanti assieme, forse l’agonia sarebbe stata rimandata di qualche anno. Nessuno ha preso il loro posto: i gruppi che seguirono non avevano la gavetta, né tantomeno la scorza, per prendere in mano le redini del genere. Può succedere. Il fatto è che riascoltare il primo disco dei Soulfly a vent’anni esatti dalla sua uscita è veramente imbarazzante.

comprare magliette dei gruppi a 40 anni

Qualche sera fa ho comprato la maglietta di un gruppo che non mi piace, perché ho pensato che potrebbe essere una bella maglietta da mettere sotto una giacca o qualcosa del genere. Non che io porti giacche. Non voglio dire ovvietà sulle t-shirt dei gruppi, ma se ci pensate è uno dei pochissimi punti a favore dell’ossessione per la musica anche dopo i trent’anni. Per prima cosa costano poco: dieci massimo quindici euro per una t-shirt. Seconda cosa sono esclusive, nel senso che in giro non incontri mai nessuno con la tua stessa maglietta, a parte qualche situazione limite (tipo i concerti dei Pearl Jam in cui tutti si presentano con la maglietta di Alive). Terzo, le si utilizza molto di più di quanto si utilizzerebbe i vinili del gruppo.

E poi dopo i 30/35 è possibile saltare l’infausto ostacolo ideologico che ci impone di comprare magliette per sostenere, e quindi in qualche modo di legare il nostro acquisto a questioni di gradimento. Il più grande problema delle t-shirt dei gruppi, se ci fate caso, è che tendono a essere tanto più brutte quanto più il gruppo è buono, forse perché i gruppi buoni sono così fissati con la musica che non han tempo di pensare a quelle cagate, o forse perché i buoni designer influenzano in negativo la musica (ok, a parte quattro sfigati citati da chiunque). Qualcuno scriva un saggio su questa cosa. Così insomma, quando arrivi a una certa età puoi permetterti mentalmente di lasciare sul banchetto la maglietta brutta dei Melvins e magari comprare quell’altra bellissima degli M+A (o comunque cazzo si chiamino ora gli M+A), senza porsi il problema di cosa si chiederanno quelli che ti vedono con quella maglietta addosso (“NO! ASCOLTA VASCO ROSSI! non potrò mai avere un rapporto umano con quest’uomo”).

Bibliografia personale magliette di gruppi/FF: 

Sotto la maglietta (Prismo) (ad essere sincero è l’unico articolo leggibile che ho scritto sull’argomento)

10 magliette che ho indossato anche se assolutamente vergognose

10 magliette ad argomento musica a cui si dovrebbe dare fuoco

Il disco più bello di sempre

Steven Bradbury è un ex-pattinatore australiano, conosciuto per aver vinto l’oro olimpico più assurdo della storia. In breve: nei primi anni ‘90 è un grande pattinatore di short track, vince un bronzo nella staffetta 5000 m a Lillehammer. L’anno successivo ha un incidente quasi mortale in una gara: la lama dei pattini di un avversario gli recide l’arteria femorale. La riabilitazione è lunga e dolorosa, e dall’incidente Bradbury non si riprenderà mai. Al primo infortunio ne seguirà un secondo, ma Bradbury continua a correre e riesce a gareggiare in due discipline alle olimpiadi di Salt Lake City, anno 2002. (lo short track è quella disciplina dove i pattinatori corrono in un circuito a velocità allucinanti, non so altro di preciso) Ai 1500 m viene eliminato quasi subito, ma nei 1000 m riesce a passare la sua batteria e accedere ai quarti di finale, dove passano i primi due. Alla fine della gara è terzo e dovrebbe far le valigie, ma viene ripescato per via della squalifica di un avversario arrivato davanti a lui. A questo punto però in gara sono rimasti solo pattinatori più veloci e cazzuti, e alla partenza della semifinale rimane subito indietro rispetto al gruppo di testa. Per un beffardo scherzo del destino arriva comunque alla finale: essere rimasto diversi metri indietro fa sì che non rimanga coinvolto in una caduta collettiva che avviene all’ultimo giro; Bradbury supera il gruppo e si qualifica. Ma che lui si trovi alla partenza della finale sui 1000 non ci crede ancora nessuno. Lui se la gioca con le carte che ha: pattinare al suo ritmo e sperare che succeda qualche casino davanti. E qualcosa succede: i quattro atleti del gruppo di testa cadono sull’ultima curva, Bradbury arriva da dietro e vince il primo oro invernale della storia del suo paese.

 

Stando a Wiki oggi in Australia la parola Bradbury è usata nel linguaggio comune per riferirsi ad un’impresa inaspettata, a un rovesciamento di fronte un po’ rocambolesco -fare un Bradbury. In Italia l’impresa di Bradbury è famosa per il commento-sfottò della Gialappa’s Band, che ne parlò ai tempi in qualche Mai Dire Gol. A caldo in effetti la sua vittoria è commentata come il più grosso WTF mai occorso nella storia delle olimpiadi invernali. Ma Bradbury di sè ama raccontare un’altra storia, lunga dieci anni, costellata di tanta sfiga e tanta tenacia e con un finale rocambolesco baciato dalla fortuna. Un dato probabilmente non così rilevante: non conosco il nome di nessun altro vincitore di medaglie allo short track, nemmeno gli italiani. Certo, gli altri erano più veloci, e questo ci porta a quattro possibili insegnamenti che una storia come quella di Bradbury ci può dare.

  1. Le storie cambiano molto a seconda di chi la racconta.
  2. La tenacia e l’ossessione possono far girare le cose in un modo inaspettato.
  3. Certe storie le racconti bene solo a dieci anni di distanza.
  4. Puoi salire sul gradino più alto anche se sei più lento.

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Se leggete le retrospettive sui grandi dischi il canovaccio più frequentato è sempre quello del genio. Questo tale chitarrista che ha avuto un’intuizione prima degli altri, questo grande autore, il genio e la sregolatezza, eccetera. Eppure nella musica, e nel rock in particolare, molte opere blasonate sono più il frutto di una serie di circostanze fortuite e/o il parto di menti molto limitate, quando non proprio ottuse. Nella biografia 33 ⅓ che DX Ferris scrisse su Reign In Blood c’è un passaggio illuminante che parla di questo aspetto: “Se ad esempio considerate Reign In Blood un concept album, o se vi viene da pensare che un assolo di Hanneman o King rappresenti simbolicamente il grido di un’anima intrappolata negli abissi per tutta l’eternità, state pensando al disco ad un livello a cui la band non ha mai pensato.

Vero. La paziente ricostruzione del processo creativo intorno al disco racconta la storia di un’opera creata con intenti molto meno teorici di quelli che in qualche modo sono stati riconosciuti agli Slayer. Ma è innegabile che il valore storico e artistico di quel disco sia assoluto, giusto? Ecco. Guardando oltre il disco e al gruppo che l’ha realizzato è facile innamorarsi del concetto in sè, e dell’evidenza empirica inconfutabile che lo supporta: buona parte del rock statunitense più avventuroso e teorico è stato, di fatto, suonato da gente che non aveva ben chiaro cosa cazzo stesse facendo di preciso. Raccontare l’incoscienza è relativamente complicato perchè di solito è tenuta quanto più possibile fuori dal processo produttivo: la musica viene prodotta, processata, analizzata, rivista -qualcuno magari può fissarsi su un colpo di tosse o un feedback di chitarra che è entrato nel mix e lasciarlo per fare il punk, e questo magari può entrare in quota genio&sregolatezza. Ma la musica suonata è fatta anche di pezzi d’involontarietà grandi quanto un disco intero, ad esempio certi album meravigliosi scritti e incisi in uno stato di perenne dormiveglia indotto dall’abuso di eroina, di cui i protagonisti hanno ricordi perlopiù vaghi e spiacevoli, e che nondimeno hanno prodotto pezzi d’arte epocale. Il carattere di involontarietà di queste opere non è facilmente raccontabile, invece; si preferisce utilizzare il clichè del genio inconsapevole, ad esempio, che è materia molto più filmica di certe questioni legate alle evoluzioni degli immaginari.

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Il personaggio principale della storia di oggi, in questo aspetto, è ad un altro livello. Il personaggio principale della storia di oggi è un cafone americano che per una trentina d’anni ha indossato suo malgrado i panni del protagonista di uno sgradevole freakshow in cui eroina, passione per l’occulto, LaMonte Young e abbrutimento esistenziale si fondono senza soluzione di continuità, incollati assieme da un giro di amicizie importanti e da qualche recensione positiva. Al freakshow di cui sopra il protagonista si è opposto strenuamente, con la poca forza che aveva, controbattendo con una strana perseveranza da artigiano del doom metal e ad un’idea musicale pedestre e limitata con cui ha imbrattato di dischi la storia della musica contemporanea. Alcuni di questi sono realizzati in prima persona, altri sono firmati da gente a cui il protagonista ha involontariamente segnato il percorso artistico. È una storia che inizia venticinque anni fa, quando un’etichetta di Seattle pubblica uno strano disco che in copertina ha un enorme cielo blu. È una storia che a un certo punto ha una svolta inaspettata e per certi versi rocambolesca.

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Se togliamo le persone interessate alle frange sperimentali, Dylan Carlson è famoso soltanto per un increscioso fatto di cronaca: nel 1994 si trova infatti ad acquistare un fucile per conto del suo migliore amico. Le ragioni per cui questo fatto diventa materia di cronaca, e della storia del rock, sono che il migliore amico di Dylan Carlson userà il fucile per uccidersi e che il migliore amico di Dylan Carlson si chiamava Kurt Cobain. Il suicidio di Kurt Cobain avviene a coronamento di un tragico triennio di successi musicali, depressioni inaffrontabili e brutte storie di droga. L’amicizia tra Carlson e Cobain, e l’abuso di sostanze da parte di entrambi, precede cronologicamente il successo dei Nirvana. Kurt Cobain era un ragazzo problematico ed un sincero appassionato di musica; la sua applicazione mentale ed il suo talento non gli hanno permesso di confondersi tra le figure di sfondo dell’alternative di quegli anni, un ecosistema per cui di primo acchito sembrava più adatto -ma non è detto che non sarebbe comunque finita di merda.

La principale eredità artistica di Kurt Cobain sono i dischi del suo gruppo. La seconda principale eredità artistica di Kurt Cobain è un elenco di artisti da lui amati, ascoltati, sostenuti e consigliati, che senza di lui sarebbero stati conosciuti da un terzo delle persone che li conoscono. Dylan Carlson era incluso nell’elenco di artisti di cui sopra. Il gruppo da lui fondato e condotto si chiama Earth: da trent’anni sopravvive ai confini di un genere musicale che nei momenti di maggior entusiasmo ha dato segno di non essere troppo infastidito dall’esistenza della band. Dal punto di vista artistico Dylan Carlson ha sempre dato segno di non essere troppo interessato a spostarsi dalla periferia del rock indipendente. Nella sua idea di musica i gruppi sono associazioni di musiciste tenute insieme su basi carismatiche, e gli Earth sono la più banale e duratura rappresentazione di questa idea: un progetto solista allargato a generosi contributi altrui, o un gruppo di due-tre-quattro-cinque elementi in cui nessuno a parte lui sembra avere diritto di voto in alcuna questione extramusicale. La libertà artistica che Carlson concede ai membri della sua band non si allarga quasi mai al lato umano. Nelle questioni musicali Carlson non è mai stato un visionario machiavellico alla Reznor (cioè uno per cui i compagni di gruppo sono fondamentalmente braccianti). La sua band è composta da musicisti di profilo medio-alto che partecipano al processo di composizione. Ma ogni svolta nella carriera degli Earth è accompagnata da una sorta di epifania di cui Carlson è protagonista e a fronte di questa epifania si può lavorare o fare le valigie. 

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Gli Earth iniziano alla fine degli anni ottanta. La scena che li accoglie è quella del nordovest degli Stati Uniti, che è già importante sulla mappa del rock indipendente ma non ancora familiare al pubblico televisivo. L’etichetta del luogo si chiama Sub Pop, la quale vende i suoi gruppi sulla base di una bizzarra estetica da boscaioli ubriachi a prescindere da quanto intellettuale possa essere (o non essere) la loro musica. Il gruppo prende il nome dalla prima ragione sociale dei Black Sabbath, e i Sabbath sono anche il primo riferimento musicale -loro e tutta la marea di epigoni statunitensi che hanno generato, a partire dai Black Flag del periodo My War per arrivare a Saint Vitus e ovviamente ai Melvins, che nella stessa area sono già il principale punto di riferimento. Entrano in studio con due pezzi che messi insieme sfondano la mezz’ora: batterie lentissime, riff ripetuti allo sfinimento, pochissime parti vocali (a cui contribuisce anche Cobain). Sub Pop propone al gruppo di spezzare in due parti una delle canzoni (A Bureaucratic Desire for Revenge) per realizzare un 7”, e la cosa verrà effettivamente fatta, ma alla fine deciderà di uscire in CD (Extra-Capsular Extraction). Il gruppo è composto da Carlson alla chitarra, Dave Harwell al basso e Joe Preston alla batteria. Il rapporto con Preston finisce quasi subito, complice il suo ingresso nei Melvins (appena dopo Bullhead, e per pochissimo tempo). E a quanto pare finisce abbastanza male da portare Preston a rubare i master di Extra-Capsular Extraction e bootlegarlo. Ma dai tempi in cui gli Earth uscivano con il primo EP, l’attenzione nei confronti di Seattle si è centuplicata: Nevermind ha iniziato a vendere un disastro di copie, la musica del gruppo si è ispessita un bel po’. L’ospite estemporaneo del primo disco degli Earth è diventato il simbolo di una generazione intera, e non la sta prendendo molto bene. Non che Dylan Carlson stia particolarmente bene nel periodo: l’abuso di sostanze sta facendosi sentire, e lui ha deciso di continuare con gli Earth senza rimpiazzare il batterista. Nello stesso periodo inizia ad interessarsi a LaMonte Young, prima leggendone e poi ascoltandolo. Un po’ per scherzo e un po’ per rompere il cazzo, concepisce il prossimo disco degli Earth assieme a Dave Harwell: niente voce, niente batteria, solo una gragnuola di accordi di basso e chitarra. Ma in fondo nemmeno gli accordi sono così importanti. Entrano in studio nell’agosto del 1992 con tre tracce, che Sub Pop pubblicherà in cd sei mesi dopo: si chiama Earth 2. Sottotitolo: Special Low-Frequency Version. In copertina la foto di un paesaggio pieno di blu, firmata da Arthur S. Aubry e sovrastata dal titolo del disco scritto a caratteri cubitali. Venticinque anni fa.

(Buon compleanno)

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Quando dico “il disco più bello di sempre” lo intendo davvero, ma “il” disco più bello di sempre è più di uno. Ci sono molte ragioni per cui faccio questa cosa, vi basti sapere che c’è una differenza qualitativa tra “uno dei miei dischi preferiti” ed Earth 2.

Per capire la musica di Dylan Carlson credo sia necessario cercare di capire il personaggio, il quale ha passato la sua intera esistenza artistica a cercare di sparire dietro la musica da lui prodotta. L’intervista più completa che ho mai sentito fare a Carlson è questa: un panel alla Red Bull Academy, un’ora e un quarto di durata, di cui 35 minuti passati a pronunciare le parole “you know” e “I mean”. Il Dylan Carlson dipinto da Dylan Carlson è un rockettaro di mezza tacca le cui modeste idee hanno incrociato il favore di un pubblico piombatogli addosso per caso. È anche ragionevole pensare che Carlson abbia ricordi altalenanti del periodo in cui registrò e fece uscire Earth 2, e forse l’understatement è sempre un buon punto di partenza, ma è comunque possibile trovare tra le pieghe delle sue risposte di circostanza le tracce delle tante vite che l’uomo ha vissuto. Su una cosa ha ragione: il primo CD a piena lunghezza degli Earth, nell’anno della sua uscita, non scardina gli equilibri del rock. E qui si arriva a un’altra delle morali della storia di Steven Bradbury: per raccontare bene certe storie occorre guardare agli eventi in una prospettiva di dieci anni.

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Quando si parla di Earth 2 si è usi accostare il disco al genere che (la critica è più o meno concorde su questo) è nato con Earth 2, e viene chiamato drone metal. Personalmente non mi piace la definizione: quando si parla di sottogeneri del metal (black metal, glam metal, death metal, nu metal, eccetera) si identifica sempre un certo tipo di estetica che negli Earth è del tutto assente. Cerco di spiegarmi: se si parla di black metal ormai si ha quasi in mente più un modo di dipingersi la faccia che un certo tipo di suono. E certamente esiste un’estetica drone metal, per molti versi, ma non è stata portata al mondo dagli Earth, bensì da un gruppo che dichiara, dal primo minuto di esistenza, di aver copiato tutto dagli Earth.

Nello spiegare perchè gli Earth abbiano avuto presa tra i metallari nel primo periodo, Dylan Carlson incolpa ovviamente il caso: nella foto che sta sul retrocopertina di Earth 2, indossa una t-shirt dei Morbid Angel. Per comprendere appieno questo aspetto bisogna fare un piccolo sforzo e calarsi nella mentalità dell’epoca: il metal estremo del 1993 è ancora, in molti casi, musica sperimentale a tutti gli effetti. Questo aspetto riguarda ad esempio tutto l’universo di transfughi del primo grindcore, Scorn e Godflesh in particolare, ma anche i primissimi Cathedral e Carcass, oltre ai parenti passati presenti e futuri di quella scena (God, Skullflower, Fudge Tunnel eccetera); ma anche numerosi tentativi di incorporare hardcore, thrash e grind all’interno di contesti come quello jazz (Naked City/Painkiller), le nuove declinazioni dell’industrial metal statunitense, i Royal Trux di Twin Infinitives, il lavoro dei Melvins -oltre ovviamente a tutto il bacino ambient e alla classica contemporanea che flirta a vario titolo con il rock’n’roll (Chatham, Branca). Gli Earth sono uno dei punti limite dell’esperienza: riffoni  blindati ripetuti fino a sfaldarsi, drones di chitarra aperti a volumi fuori dal mondo. Earth 2 si fregia di tre tracce ma di base è un’unica canzone, che parte grossomodo da dove erano rimasti gli Earth di Extra-Capsular Extraction (giri di chitarra lentissimi e ultra-minacciosi) e poi si sfalda dentro a dei drone di chitarra e basso, sparati a volumi vergognosi e stratificati fino a mandare in culo la percezione uditiva. Il risultato è una vibrazione ariosa, la quale più che il metal ricorda appunto un certo minimalismo alla LaMonte Young o -dieci o quindici anni dopo probabilmente avremmo parlato di gamelan con cognizione di causa, o probabilmente avremmo trovato qualche parallelo con certa field music dell’amore tipo i dischi belli di Fennesz o dischi come A Crimson Grail di Rhys Chatham, fondamentalmente un Guitar Trio ripensato alla luce di Earth 2. Ma per sua natura, e come molte altre opere di questo tipo, Earth 2 non è strettamente spendibile in un contesto di arte contemporanea. È un album molto dozzinale e molto complesso allo stesso tempo, stratificato, uno di quei dischi che mostrano una faccia diversa ad ogni ascolto, che si tende a dare per scontati e che stupiscono soprattutto nel momento in cui lo si fa. Che sia minimalismo o massimalismo in fondo non è importante, e comunque dipende sempre da chi racconta la storia. Dylan Carlson rifiuta categoricamente le “accuse” di situazionismo che qualcuno ha rivolto all’album -in altre parole: non era sua intenzione incidere il disco più lento della storia del rock, ha voluto fare un disco che somigliasse a quel che aveva in testa. Ma anche lasciando fuori il situazionismo, rimane la situazione: nel 1993 gli Earth suonano una musica che non suona nessun altro, e che alle orecchie di qualcuno funziona alla grande. Il disco mostra da subito un legame piuttosto forte con il suo pubblico di riferimento, legato a certi suoni di confine come l’industrial metal e affini (un pubblico tutt’altro che sparuto, nei primi anni novanta: in fin dei conti perfino i Godflesh di Selfless escono su major, giusto?).

È chiaro che parliamo di un successo di nicchia. Anche l’amicizia con Cobain, che in quello stesso anno “produce” Houdini dei Melvins, non basta a ridefinire i termini commerciali di un’opera sostanzialmente inaccessibile ai generici e anche a chi sta cercando dentro ogni buco il prossimo Kurt Cobain. È logico quindi che gli Earth finiscano ad ingrassare le fila del mare di cult band a cui solo i fanatici musicali di penultimo e ultimo stadio si riferiscono, cosa che del resto era l’unica loro ragionevole aspirazione. La parabola artistica di Carlson si esaurisce abbastanza in fretta, comunque: un (bellissimo) seguito intitolato Phase 3: Thrones and Dominions esce già alla fine del ‘93 -la formazione è sempre a due ma Dave Harwell è stato giubilato nei mesi precedenti. Pentastar nel ‘96 in full band, il gruppo ha già un piede nella fossa. Per Carlson è un periodo molto brutto: l’eroina, la morte di Cobain, qualche guaio con la legge (sconterà qualche mese in carcere per una storia di effrazione di cui non so nulla). Ne esce a fatica al cambio di millennio: si disintossica, cambia casa, comincia a lavorare come manovale e prova a rimettere assieme i pochi brandelli di vita rimasti. A un certo punto, nel processo, ricomincia a cazzeggiare con la chitarra.

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Cinque o sei anni dopo Earth 2 il metal è preda di un moto restauratore. Sul momento sembra ancora un periodo eccitante: la base groove metal prova a contaminarsi con rap e derivati ed escono settimanalmente esempi di crossover che paiono mai sentiti prima, ma in realtà sono le avvisaglie della crisi di un genere. Il principio sperimentale su cui il rock estremo ha sempre poggiato (e cioè l’obiettivo di suonare più violenti ed efferati di quelli che suonavano ieri) sta iniziando a non sembrare più così invitante e praticabile; death, black e derivati sono già entrati in una fase di stanca, o quantomeno di relativa standardizzazione e canonizzazione. Capita ad esempio che generi musicali morti e sepolti (power, epic e derivati) tornino in auge in certi paesi dell’Europa, in cui il pubblico si divide abbastanza nettamente fra tradizionalisti ad ogni costo e avanguardisti ad ogni costo, una guerra fra tifoserie molto più accanita della partita che si sta giocando in campo. Tra la fine degli anni novanta e l’inizio dei duemila la lentezza torna relativamente di moda, declinata in diverse forme -alcune forme di industrial metal, alcune scopiazzature dei Neurosis, i soliti epigoni dei Melvins, i dischi doom metal cattivissimi con tracce di venti minuti l’una. Tra i personaggi di spicco in questa fase ci sono due musicisti che hanno militato in una dozzina di formazioni di culto e decidono di mettere insieme un progettino della domenica. L’idea è quella di dar sfogo a certe idee che in altri ambiti rimarrebbero inascoltate, spingere sul lato metal della cosa e vedere se lo si può ricalibrare dal punto di vista artistico. Si chiamano Greg Anderson e Stephen O’Malley. Il primo ha un’etichetta discografica, il secondo lavora come graphic designer. L’idea di base è stupidissima: prendiamo quel disco degli Earth, che è un disco metal; lo risuoniamo pari pari, buttandogli addosso un’estetica fatta di caratteri gotici, tuniche con cappuccio e croci rovesciate a caso. Visto che è un tributo, buttiamola sul tributo: decidono di chiamarsi Sunn (o))), un po’ per gli amplificatori (casualmente, quelli di cui Dylan Carlson canta le lodi, intitolandoci anche un live album del ’95) e un po’ per fare un gioco di parole con Earth, a cui in parte il gioco di parole si riferisce. Tanto per non farsi mancare niente, nel 2002 i due Sunn (o))) sono parte fondante di un altro gruppo che porta il nome di una canzone di Earth 2, Teeth of Lions Rule The Divine. Ma i Sunn (o))) sono tutt’altro che plagiari a costo zero; somigliano più che altro all’operazione (praticamente contemporanea) che Gus Van Sant ha compiuto su Psyco di Hitchcock: rigirano l’intero film, scena per scena, ponendosi una certa regola e sottoponendo il risultato al lavoro di decodifica degli ascoltatori.

Soprattutto, l’esecuzione del plagio è certosina e potentissima. I Sunn (o))) funzionano alla grande: per un certo periodo, più o meno all’epoca del terzo disco lungo, sembrano la cosa più interessante e vitale che il metal sta proponendo in quel momento, soprattutto in quella strana zona di confine che è andata creandosi tra il metal estremo, lo zoccolo duro dell’indie e tutto il pubblico avant-contemporaneo. E se è ovvio che siano le grafiche sfavillanti e i cappucci di O’Malley ed Anderson ad occupare le copertine dei giornali di settore, è altrettanto ovvio che non si può scrivere due righe sui Sunn (o))) senza nominare Earth 2.

Curiosamente, Dylan Carlson è risorto l’anno precedente. A un certo punto decide di rimettersi in giro, roba poco impegnativa con una chitarra e un compagno di avventure abbastanza inusuale (la batterista Adrienne Davies, che suona al rallentatore e milita in qualche gruppo di scarsa importanza). Sulle prime ha persino il dubbio se utilizzare il nome Earth o ricominciare da zero; ma in fondo parliamo di un’evoluzione naturale del suono di Pentastar. I live degli Earth in quel periodo sono un’esperienza ai limiti dell’umano: semimprovvisazioni chitarra/batteria di un’ora e passa che rovesciano anonimi canovacci rock’n’roll a forza di frequenze basse e tempi dilatati su cui gli accordi si sfaldano, il tutto a volumi da far saltare le mattonelle dei locali che hanno il coraggio di ospitare la band. Ma è una fase il nome degli Earth circola come forse non aveva mai fatto in precedenza, e il suono del metal estremo sta ripercorrendo fedelissimamente le intuizioni (fortuite o meno) che Carlson aveva praticato dieci anni prima. Si tratta solo di trovare il tempo di fare uno più uno, e di ri-raccontare la stessa storia a dieci anni di distanza.

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La relazione tra Earth e Sunn (o))) è unica. Gli uni non potrebbero, oggettivamente, esistere senza gli altri. Gli Earth hanno dato ai Sunn l’idea iniziale, le regole generali, il mindset e la ragion d’essere; il recupero ad opera dei Sunn (o))) e le loro infinite variazioni sul tema hanno fornito un contesto per far sì che gli Earth potessero essere riscoperti, analizzati e decodificati con un’accuratezza e una profondità che negli anni novanta forse non erano nemmeno immaginabili. Alla fine del processo di analisi e decodifica gli Earth sono diventati uno dei massimi punti di riferimento del rock di ogni tempo, ma solo i Sunn (o))) hanno saputo davvero declinare il potenziale del loro suono – nelle loro mani Earth 2 diventa il minimo comun denominatore di una sorta di big band aperta in cui decine di musicisti di caratura impressionante (compreso Carlson) entrano ed escono a piacimento. Quando Dylan Carlson deciderà di rimettersi in pista con un nuovo suono e un nuovo album, la Southern Lord di Greg Anderson sarà il suo editore di riferimento. Dal 2005 in poi Earth e Sunn (o))) sono un vero e proprio ecosistema musicale, in cui è impossibile dire chi sia parassita dell’altro -agiscono in simbiosi traendone beneficio reciproco. In uno dei tanti paradossi della vicenda, l’applicazione calligrafica dei Sunn ha spinto Dylan Carlson a cambiare rotta e inseguire un’altra idea di suono, per molti versi in contraddizione (scheletrica, pulita, melodica) ma per altri improntata sullo stesso massimalismo/minimalismo che animava Earth 2.

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È una di quelle storie strane che cambiano a seconda di chi la racconta, e di quanto tempo è passato dallo svolgersi dei fatti. Earth 2 è un disco visionario e delirante, concepito in seno a un disagio umano impareggiabile, in un’epoca storica nella quale il rock estremo sentiva ancora il bisogno di superare se stesso. Staccato dalla sua epoca avrebbe potuto morire e dissolversi nel limbo dei tanti dischi di culto concepiti in quelle condizioni: qualche centinaio di adepti folgorati per sempre, nessun altro a ricordare il gruppo. Le cose sono andate diversamente. Se c’era un gruppo che meritava una seconda occasione era quello. Dylan Carlson, se glielo chiedete, vi racconta d’esser grato dell’opportunità, e promette di fare il possibile per non bruciarsela. L’ombra lunga della sua personalità si stende su una classe intellettuale sterminata che lo tratta come un caposcuola; la sua stessa esistenza è diventata il monumento vivente ad un modo di pensare la musica che ancor oggi Carlson pratica senza risparmiare un goccio della poca energia che gli è rimasta in corpo. Il suo disco migliore, da ogni punto di vista, è ancora Earth 2.  

recappino 2017

 
Una settimana fa su Noisey è uscito un articolo che parla in maniera piuttosto critica dell’attuale giro di affari intorno all’indie italiano, e in questo articolo ci sono due o tre cose che mi hanno colpito. La prima è che parte da un casus belli di cui non sapevo assolutamente un cazzo: un certo Galeffi, l’ennesimo clone di Calcutta, ha fatto uscire un disco solista e sei giorni dopo ha tenuto un concerto a Roma che è andato sold out. La seconda è che tutto l’articolo si regge su un’idea di mercato musicale secondo cui le etichette indie italiane di punta (Garrincha, Maciste, 42, Bomba e tutto il resto) fanno la stessa cosa che faceva Sony nel 1993 (sfruttare l’hype intorno a un genere e pubblicare un mare di dischi-fotocopia per incassare un milione di assegni). La terza è il fatto che la uno e la due coesistono nella stessa persona, uno che sa cosa succede ma non sa esattamente cosa sta succedendo. Negli stessi giorni mi è capitato di leggere un articolo su Amargine in cui Madeddu si prende in carico l’arduo compito di debunkare la notizia secondo cui gli inediti di X-Factor erano finiti al top delle classifiche. L’articolo è l’esatto contrario di quello di Noisey, nel senso di estremamente informato in merito a certe questioni strutturali, ma mi ha creato lo stesso tipo di spaesamento. Ho solo una vaga idea di chi siano i cantanti di cui si parla, sono abbastanza confuso in merito al modo in cui le classifiche vengono stilate e non riesco a capire fino in fondo perchè la posizione numero uno delle classifiche sia una materia giornalistica -cioè in astratto credo di comprendere che per qualcuno questa cosa della musica abbia bisogno di venir pensata come un campionato, ma all’atto pratico non è esattamente la mia cosa. Un’altra cosa che sta succedendo ultimamente è che dei dischi che sono più presenti nelle playlist di fine anno, ne ho ascoltati sì e no il 60%, inclusi svariati titoli che ho ascoltato e pisciato via.
È che non ho più quel tipo di energia. Mi sono rendo conto tardi e male di molte cose che in linea di principio dovrebbero pure interessarmi, e nella maggior parte dei casi mi trovo a pensare che tutto sommato non abbia così tanto senso incaponircisi sopra. Non è colpa della musica, è colpa mia -su questo almeno ho ancora un briciolo di lucidità. Il brutto di fare questa cosa per hobby è che a un certo punto inizi a perdere il giro, e chi la fa professionalmente continua a guadagnare terreno su di te, e a un certo punto sono semplicemente più competenti e più bravi. Il bello di fare questa cosa per hobby è che una volta elaborato il lutto, hai un bagaglio più leggero. Per esempio non ti senti obbligato a inseguire una conoscenza di cui non hai più fame, né a formulare un’opinione su qualunque puttanata affiori in un raggio di trenta chilometri dai tuoi orizzonti culturali. I tuoi interessi e i tuoi rodimenti di culo non seguono un’agenda vera e propria, hanno una certa orizzontalità di cui non ti senti tenuto a rendere conto, e questo dà loro una certa dinamica. Il tutto si ripercuote ovvuiamente nel modo che hai di ascoltare la musica: si risparmiano le cartucce, ci si fida poco del parere altrui, si ascolta un quindicesimo dei dischi che si ascoltavano cinque anni fa. Bisogna cercare di avere un equilibrio interiore, o almeno credo.
Una cosa che mi ha colpito: quando è uscito il numero di dicembre di Rumore, che contiene la classifica generale dei dischi del 2017, ho scoperto che nei primi 20 titoli ci sono 5 dischi che avevo messo nella mia top ten. Essendo la classifica basata su un criterio democratico, direi che è la prima volta che l’ho visto succedere: di solito erano un titolo o due, a dir molto. Non trovo che il mio approccio alla musica sia così diverso, a parte il fatto che non riesco più ad ascoltare un disco metal dalla prima all’ultima nota (ma in questo caso credo sia colpa del metal, non mia). Ho semplicemente scavato di meno, o impiegato meno tempo a formulare opinioni o far paragoni, e alla fine l’ho fatta quagliare con quel che mi era rimasto sul piatto. Credo di aver fatto pace con una certa idea di musica, o di aver perso l’interesse nel lato divulgativo di questa cosa dello scrivere, oppure sono più vecchio e banale dello scorso anno, o -più ragionevolmente- tutte e tre le cose. Riguardando la classifica ho cercato di capire se nei dischi del 2017 che preferisco ci sia una specie di filo conduttore, una lezione di musica, una qualche indicazione di che cosa penso oggi dell’ascoltarla. Suppongo di sì.

Per prima cosa una confessione: nel 2017 ho riascoltato tantissimo un disco che nel 2016 mi aveva incuriosito e poco più, e cioè 22, A Million di Bon Iver. Quando è uscito l’ho ascoltato, l’ho liquidato come una cazzatina pretestuosa e una sega mentale incisa un po’ con la mano sinistra e un po’ con quell’idea dadaista ammerda stile Endless di Frank Ocean. Poi mi son reso conto che in realtà queste cose sono pregi, e che comunque 22 A Million è un disco chiave per comprendere una certa idea di evoluzione che sembra aver contagiato il folk negli anni che stiamo vivendo: per prima cosa è un disco di altissimo profilo, e poi affronta il proprio discorso sonoro in un modo molto dilettantesco e ombelicale, un po’ alla vediamo come va a finire. Incidentalmente è diventato la testa di ponte di una nuova idea di cantautorato che sta all’elettronica contemporanea come un tossico sta all’eroina (nel senso che cerca disperatamente di esistere nei momenti tra una botta e l’altra ma non ha poi così tanto successo). Quest’anno il maggior rilancio su questa posta è il disco di Arca, che è il mio disco del 2017 se devo dirne uno, e che soddisfa più o meno tutti i criteri di base che cerco nella musica oggi. Nella fattispecie: poco interessato alla buona fattura e molto interessato a raccontarsi, molto eterodosso, poco spendibile da un punto di vista culturale, emotivo in un modo lancinante e continuamente sopra le righe. Che è grossomodo la stessa descrizione che potrei fare del secondo disco in classifica e cioè Plunge di Fever Ray, che è pensato un po’ come una specie di sequel dell’ultimo disco dei The Knife e un po’ come una revisione apocrifa del bagaglio culturale dello studente di musica pop contemporaneo -retrofuturismo, hitech, hauntology, filocapitalismo sarcastico e bla bla bla. Il pregio di Karin Dreijer è che ormai pensa la musica in un modo diverso dagli altri, più artigianale ed entusiasta, e intorno a lei le cose ormai sembrano funzionare in un modo pazzesco. È un po’ un discorso simile a quello che potreste fare per le popstar contemporanee con un senso, tipo Kanye o Rihanna, ma in un contesto meno monetizzato e più libero da certi controlli -quindi una musica che ascolti e che sembra avere un potenziale espressivo inesplorato.
E francamente le playlist di fine anno che sto leggendo sono piene di dischi che sono l’opposto, e questo credo sia il principale problema della musica di oggi -tagliando con l’accetta, non c’è una vera differenza tra il disco e la descrizione che potresti fare di quel disco in quattro righe, il che è molto utile a semplificare l’esistenza in un momento storico come questo (nel quale un appassionato di musica ha bisogno di ascoltare 300 dischi nuovi all’anno soltanto per farsi un briciolo di visione d’insieme), ma ha un sacco di effetti collaterali indesiderati. Questo tra le altre cose riguarda un botto di cose che sono in tutte le playlist, soprattutto la roba un po’ più classicheggiante e roack stile Perfume Genius (il quale suppongo sia in tutte le classifiche perchè il disco degli Arcade Fire è davvero troppo brutto per potercelo infilare a cuor leggero).
Ma del resto di musica rock nella mia top ten 2017 ce n’è pochissima: l’unico disco davvero elettrico che ho voluto infilarci è l’ultimo dei The New Year, un po’ perchè è stato ignorato in un modo abbastanza vergognoso dagli appassionati e un po’ perchè, oltre ad avere delle canzoni gigantesche, è pervaso di una spontaneità e di un amore per la musica che nel mio caso è stato davvero contagioso. L’altro disco “rock” che ci ho infilato è quello di Edda, che comunque trascende la categoria in modo abbastanza lampante -è semplicemente il miglior disco dell’anno tra quelli cantati in italiano e fornisce tanti argomenti alla mia idea (di cui sono sempre più convinto) che in questi anni le canzoni migliori vengano da gente con evidenti problemi relazionali, o comunque da musicisti meno professionali e più spontanei. In questa categoria comunque il campione si conferma essere Mark Kozelek, che quest’anno ha infolato un botto di cose bellissime tra cui la mia preferita è il disco con Ben Boye e Jim White. Poi nel 2017 è uscito un disco che non ho il cuore di ascoltare spesso ma mi ha sconvolto l’esistenza, e ovviamente è quello di Mount Eerie, e anche qui si parla di spontaneità ed emotività e pensiero laterale. Tutto il resto di quel che ho apprezzato nel 2017 è roba che per un motivo o per l’altro mi ha interessato, questioni di casacca o semplice fomento. Jlin, SZA, Ziùr, Unsane, Lorde, Alvvays, Vince Staples, Pontiak, Algiers, Havah, Run The Jewels, Ninos Du Brasil, Bennett e boh un altro centinaio ma non ho una gran voglia di andare avanti diciamo. 

Propositi per il nuovo anno: vedremo. 

Il paradosso della penna d’oca

Due anni fa, a natale, ho ricevuto in regalo una ortenna d’oca. Nella mia famiglia acquisita c’è questa tradizione dell’aprire i regali di natale, è una tradizione che alcuni membri prendono con più serietà di altri ed occupa almeno una giornata. Nelle famiglie c’è spesso questa compresenza di caratteri umani intorno alla festa di Natale: c’è quello che ostenta il suo disprezzo per ogni cosa ad esso legata, e quello in genere sono io; c’è quello che ama cucinare, c’è quello che fa i bigliettini particolari (e quello sono sempre io), c’è quello che ama impacchettare e c’è quello che è specializzato nei regali ampollosi. Ad esempio, recentemente ho manifestato un qualche interesse per la scrittura a mano e questo mi ha portato in casa un sacco di queste cose –inchiostri forse pregiati, set di scrittura confezionatissimi, quaderni di pergamena old skool e una penna d’oca. Su Amazon sta tra i 40 e i 50 euro, è roba molto costosa insomma. Ma non è tanto il valore monetario dell’oggetto, è anche altro. Da bambino mio babbo ne aveva una, di penna d’oca, e mi ci faceva giocare, e forse una parte della mia spinta iniziale legata allo scrivere è dovuta alla bellezza di quell’oggetto e al privilegio di poterlo usare.

Poi vabbè, mi piacerebbe poter dire di averla stra-usata, la penna d’oca, ma guardando al biennio passato non l’ho fatto molto: di tanto in tanto la tiro fuori, più che altro, per non raccontarmi di avere strusciato un bel regalo che mi è stato fatto con il cuore. Non è che sia malfunzionante o che, anzi ha una bella gestione del peso, è più che altro un sentirsi imbarazzati per l’utilizzo, e quando hai uno strumento costoso in mano sembra sempre che tu debba vergare i versi della Divina Commedia e insomma non è il caso. 

(strusciare è il romagnolo per descrivere uno spreco di procedura –se per produrre un bene servono 10x e io impiego 11x, ho strusciato x).

Ma se avessi dovuto comprare una penna d’oca a quel prezzo, non l’avrei mai fatto. Non voglio imporre la mia idea al resto del mondo, è una scelta personale, ma se penso che con gli stessi soldi avrei potuto comprare una riserva semestrale delle penne e degli inchiostri che utilizzo abitualmente per fare schifo nell’arte millenaria della scrittura manuale, e fissarsi con le penne d’oca è come minimo una forma di consumo inefficiente. Ecco tutto. L’anno scorso a natale ho potuto sperimentare questa allegra circostanza: invece della penna mi hanno regalato un buono di X euro da spendere in cartoleria, facendomi felice come un bambino. Il tizio voleva appiopparmi una stilografica col manico di osso di vigogna, ma non se ne parlava nemmeno. 

Questo non toglie che la penna d’oca abbia comunque una ragione di esistere: è un bellissimo oggetto da regalo, fa figura e in una certa misura ha un mercato che prospera, nel senso che è ragionevole pensare che una grande città possa dare da vivere ad un negoziante che tenga nel negozio solo penne d’oca ed altri strumenti per la calligrafia di valore più estetico che tecnico. Ed è parimenti possibile che le caratteristiche di fisicità elastica della penna d’oca le permettano un uso non completamente identico a quello delle cannucce di plastica, e quindi una potenzialità radicalmente diversa in certi campi dello scrivere. E queste caratteristiche intrinseche all’oggetto possono sposare in maniera fruttuosa certe questioni ideologiche che in potenza possono produrre una letteratura qualificata -articoli che lodano e promuovono l’utilizzo di penne d’oca, sapendo più o meno di cosa stanno parlando e dando conto di una dimensione tutt’altro che banale. E a parte questo, è possibile produrre lavori calligrafici di valore artistico altissimo, impareggiabile, lavorando soltanto con una penna d’oca -magari autocostruita.

Questo però non è esattamente il mondo. Nel mondo si stanno affrontando temi di respiro vagamente più universale: ad esempio le persone scrivono sempre meno con la penna, e sempre più con il computer, e questo sembra avere implicazioni molto pesanti nel lungo periodo. I bambini introdotti molto presto alla scrittura digitale apprendono in modo diverso dai bambini che vengono tenuti lontano dai computer, e il potenziale è diverso. Attenzione: non si tratta di capire quale dei due approcci sia meglio dell’altro. Si tratta piuttosto di capire come affrontare da un punto di vista istituzionale le evoluzioni del sistema educativo. Ad esempio, mia nipote frequenta il liceo scientifico e si confronta quotidianamente con i compagni sui compiti, via Whatsapp, si mandano le foto delle soluzioni ai problemi, i dubbi, gli screenshot delle regole da ripassare e cose simili. Una domanda plausibile: si può, in queste condizioni, continuare ad insegnare facendo finta che gli smartphone non esistano? Non conviene investire su un’idea diversa di insegnamento, che abbia meno a che fare con lo sviluppo delle conoscenze individuali e più con lo sviluppo degli skill che serviranno a realizzare lavori collettivi? E fino a che punto conviene abbandonare l’impostazione scolastica tradizionale? Non ne so nulla, ma immagino la scienza dell’educazione sia squassata alle fondamenta da domande di questo tipo. Puoi evitare di portele ma è sicuro che un giorno dovrai pagarne lo scotto.

Viceversa, il mondo di cui sopra è colpito in maniera molto marginale dalla rimonta della penna d’oca. La si può utilizzare per farci cose bellissime, ed è piacevole leggere/scrivere qualche articolo che parla di realtà indipendenti che producono penne autocostruite o disegni realizzati a penna d’oca, in numeri che a volte permettono addirittura di farci qualche soldo alla fine del mese. Fa piacere sapere che la penna d’oca ha ancora una sua ragion d’essere. Basta mettersi d’accordo sul fatto che la penna d’oca non è il futuro della scrittura, che non lo sarà nemmeno tra cinque anni e che non c’è niente di drammatico in questa cosa. 

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(Ultimamente capita di leggere articoli sempre più esaltati e presi bene in merito al ritorno in pompa magna delle audiocassette)  

“Titolo provvisorio: I 400 calci”

Marcello Crescenzi

“Amici!

Che emozione.

Bando alle ciance: con la presente vi invito ufficialmente a collaborare al mio nuovo cineblog di prossima  creazione, specializzato in film d’azione.

Ri-sintetizzo cio’ che vi ho gia’ spiegato: trattasi di un arrembante cineblog che esiste in un mondo parallelo in cui Crank 2 riceve lo stesso hype di Lasciami entrare, The Expendables viene atteso come se fosse il nuovo Scorsese e Ong Bak 2 come se fosse il nuovo Malick. E ho scelto voi perche’, oltre a stimarvi indipendentemente, siete le uniche persone che conosco capaci di trattare la materia in oggetto con eguali straordinari livelli sia di competenza che, soprattutto, di mancanza di vergogna.

Struttura: anarchico mix di news, recensioni, retrospettive, spunti e stravaganze estemporanee varie.
Impegno: quello che vi pare. Non ho particolari ambizioni, tranne vedere “se la’ fuori c’e’ qualcun altro come noi”. E che so, magari un giorno fare un concorso a premi in cui si vince il dvd di 
Triade chiama Canale 6

Titolo provvisorio: “I 400 calci”. 

Secondo titolo provvisorio: “Effetto botte” (da accompagnarsi con intensa foto di Steven Seagal dietro la macchina da presa sul set di Sfida tra i ghiacci). Il titolo definitivo sarà comunque salvo sorprese uno stupido gioco di parole su un noto film o pubblicazione d’essai, unica concessione che farò all’esistenza di un sedicente cinema “alto”. Per il resto né spocchia né ripicche, solo orgoglio e Q.I. sprecato. Accetto suggerimenti.

L’unico dubbio: sono sicuro che prima o poi mi verrà voglia di allargarmi come minimo all’horror, e/o all’exploitation in genere. Anche perché tutto quanto alla fine si unisce sotto il nume tutelare di John Carpenter. Quindi mi sa che in qualche modo lo farò, tanto bene o male credo non si devi più di tanto dalle vostre competenze.

Comunque, il mio piano è: entro lunedì circa apro io con un post/mission sui film più attesi del 2009, e da lì più  o meno capirete che aria tira.

Chiudo con le immortali parole di Edgar Wright: “Esistono due tipi di film: film belli e film noiosi.

Anzi, chiudo con le immortali parole di Van Damme: “I miei film sono internazionali. Tutti capisono uno schiaffo in faccia.

Domande?”

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La mail è del 13 gennaio 2009 ed è indirizzata a quattro persone: io, Dolores Point Five, Casanova Wong Kar-Wai e Jean Luc Merenda. Il mittente si chiama Nanni Cobretti, e al di là di qualche chiacchiera in chat credo sia esatto dire che è l’atto di fondazione di una delle cose più belle a cui abbia mai potuto contribuire. Il sito è andato online effettivamente pochi giorni dopo, si è deciso di chiamarlo “I 400 Calci”, e si è cominciato a scrivere. Non c’è voluto molto per scoprire che di gente come noi ce n’era davvero un sacco

È stato l’inizio di un sacco di cose, che elencare sarebbe anche stupido –e quasi tutte riguardano pezzi di vita che non hanno niente a che fare con lo scrivere. Il sito esiste ancora, è un punto di riferimento per il cinema action/horror. Quando aprì sembrava una cosa fuori da ogni logica, con un livello di nerditudine quasi insostenibile e tutta una serie di categorie critiche assurde. Credo che viverlo in prima persona distorca un po’ il mio giudizio, ma quando leggo di cinema mi trovo spesso a pensare quanto l’esperienza dei Calci abbia influito sul gusto, sul linguaggio e sulle idee di moltissima critica –anche e soprattutto quella più blasonata e snob.   

In questi giorni, se siete a Lucca Comics, potete acquistare in anteprima il primo Manuale di cinema da combattimento, edito da Magic Press, contenente una selezione di articoli del sito, inediti, illustrazioni di David Genchi e prefazioni di Roy Menarini e Leo Ortolani.  La copertina è disegnata da Marcello Crescenzi, e quella che trovate in questa pagina è la prima bozza –da lui gentilmente regalatami. Nell’attesa di poterlo sfogliare, mi chiedo quali saranno i contenuti selezionati, e quelli inediti –e mi spingo ad immaginarlo come un testo fondamentale per tutto quel che riguarda lo scrivere di cinema in italiano.