Una manciata di giorni fa il peloso quadrupede a cui pago l’affitto m’ha rovinosamente ribaltato a terra un paio di colonne di cd, libretti e case vuoti. In un altro tempo e luogo l’inseguimento avrebbe assunto tinte splatterstick con derive di bestemmie, violenze sugli animali e pianti laceranti per i danni provocati.
A questo giro, invece, non è fregato un emerito cazzo.
L’epifania del momento è stata che in qualche punto non meglio precisato della strada ho cambiato corsia. In corsa e col freno a mano, l’ubriachezza molesta e il tir lanciato in fronte. Eppure sangue non ne cola: e capisco che la crescente disaffezione verso l’industria musicale-tipo (nonché, in gran parte, l’editoria musicale e culturale che la amplifica/sottende/implica/imprigiona/etc) mi s’è piantata sotto forma della mia collezione di dischi.
Complice qualche trasloco di troppo – in perenne svolgimento – quanto prima era per me un’impalcatura di senso e identità intorno a cui strutturare il resto, ricordandola a memoria in colori, nomi, posizioni e suoni, ora, semplicemente, è quasi un peso.
L’eresia è quella che è. Piuttosto davanti nemmanco tre lustri di graffi, abrasioni, case vuoti con cd disperso, vinili rosolati con sostanze non identificate più una serie di scelte deontologiche tra porta cd e fidanzate, ecco, davanti a questi tre lustri rimane la voglia e il desiderio per quei suoni e quelle qualità, non per i supporti materiali che se li portano dietro. Mai d’altronde ho capito la collezione (ma sempre adorato la fotta e il profumo della ricerca), desiderato il completismo (questioni di soldi, opportunità, problemi di attenzione evidenti), spinto per la bella mostra dei tesori del caso (copertine con suore impalate e Impaled Nazarene non aiutano).
La verità vera è che col tempo (e sì, diobono, internet e blabla) la fotta ossessiva di un tempo ha sparso rivoli ed energie tra dischi, cibo, pile di fumetti o urania usati, libri a cui non mi è stato dato di resistere, chimicaglie drogate varie, etc. Oh, e birra, tanta birra. Cioè, ognuno ha i suoi cassi in cui spendere soldi e vanità.
L’amore, l’ossessione: quelli mai svaniti: piuttosto in maniera più sana si sono smarcati dalla necessità di una discoteca propriamente detta in favore di quanto era sano seguire: il suono, non il possesso. In questo poi mi son reso conto star dentro la voglia di non ascoltare n-simo disco nuovo del mese, dedicarmi il mio tempo per ascolti vecchi, imbarazzanti, con o senza senso, fuori moda, inquieti, lunghi e stiqatsi.
Le collezioni di dischi non sono vita, l’etica o l’estetica che si portano appresso non sono necessariamente la salvezza o l’ancora sul quale tirare su l’anima gemella. Hornby e compagnia raccontante (dove la compagnia sta per ogni invasato di musica e affini a noialtri-chi) hanno messo fuori fuoco il senso più elementare, prima della necessità di una tassonomia specifica o delle funzionalità particolari in materia di accessibilità dei dischi, prima del packaging o del design del caso, prima ancora della voglia di finanziare o ripagare o appoggiare virgulti di varia età, eh, prima di tutto questo: l’ascolto. Semplice, elementare, quasi infantile. Se si spande merda su miliardari divisi tra quotazioni finanziarie, macchine d’alto lignaggio, collezioni di orologi preistorici, Botticelli e cose varie, non si vede perché non portare il discorso su materiali più “umili” e a noi prossimi; soprattutto quando la fotta prende la stessa piega narciso-esibizionista-materialista-feticista-spendisoldichenonho.
Le collezioni di dischi non sono la nostra vita. Al massimo possono farne parte.
Motivo per il quale combattere l’impulso subliminale che mi spinge a parlarvi dei dischi che ho, di quelli persi, dei primi arrivati, dei dimenticati, malcagati, comprati per idiozia e favorire, invece, una colossale sbronza.
E mentre vi s’attende, torna la voglia di metterli a posto, o guardarli in faccia, quei gran bastardi.
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