Tema: IL MIO PRIMO CONCERTO. Svolgimento:

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Per andare a vedere i Litfiba (Terremoto Tour) al Palafiera di Forlì, dal mio paese, organizzano un pullman. Dividi le spese e vai, come le trasferte del Cesena, solo che le trasferte erano (ehm) in trasferta e Forlì sta a tipo 35 km da casa. È il 1993, l’autostrada A14 esiste già da qualche decennio insomma.

Ho fatto prima una trasferta del Cesena che un concerto rock.

Quasi tutto quello che so dei concerti è roba che mi ha raccontato mio fratello, o certa gente in classe con me. Io vengo dalla campagna tra Cesena e Rimini, il posto più vicino al niente che abbia mai conosciuto; questi qua hanno lo sgamo, qualche concerto infrasettimanale al Vidia nel curriculum e/o una trasferta milanese a vedere i Metallica o gruppi del genere nell’estate della terza media col treno e certi amici più grandi (e quindi tossici, logica associazione di idee). La scelta per il concerto dei Litfiba è tra farmi accompagnare da un branco di smargiassi del mio paese natio che mi sfottono su base quotidiana o un branco di coetanei sgamati amici di un mio compagno di classe, che scuoterebbero la testa ad ogni mia mossa sbagliata pensando “è del paesino, si scaldano con la legna, guarda i cartoni di Ken il Guerriero”. L’idea di dover andare con gli uni o gli altri a vedere i Litfiba tradisce l’assunto di base per cui il rock funziona come catarsi e via di uscita per adolescenti sfigati e depressi. Il mio compagno di classe fa la macchina con i suoi amici, guidata da un maggiorenne che non ha problemi ad uscire con dei sedicenni, e invasa di persone che come tutti i cesenati à la page portano come nickname le prime due sillabe del cognome (Monta, Caccia, Mondi, Cali, Caste etc). Scelgo i miei compaesani perché lo sgamo dei compagni di classe gli impone di presentarsi ai cancelli verso LE DUE DEL POMERIGGIO, nel disperato tentativo di guadagnare almeno la seconda fila. Lo sgamo ti porta a far cose brutte. Noi si parte alle sette di sera, suona meno faticoso, suona che mi posso vedere il concerto anche sugli spalti.

All’appuntamento mi presento con dei panini (tre) e una bottiglietta da mezzo litro d’acqua dentro uno zainetto. Ci ho messo almeno venti minuti per vestirmi, che è venti volte quello che ci metto di solito. Non è che sono vestito a tema, ma ho

–       conservato la camicia a quadretti più carina, è rossa;

–       fatto lavare i jeans rotti meglio;

–       lavato i capelli;

–       cambiato quattro volte la maglietta sotto la camicia per avere un effetto migliore.

L’ultimo punto è critico. La maglietta che mi fa il migliore effetto sotto la camicia è una normale maglietta bianca di cotone, di quelle che compri assieme alle mutande, ma se mi dovessi trovare ad avere caldo in mezzo alla BOLGIA non potrei togliermi la camicia a quadri perché l’effetto jeans + maglietta bianca mi farebbe sembrare un bambinetto capitato al concerto per caso con la sua magliettina. L’unica altra cosa da evitare, regola fissa, lo sanno tutti, è la maglietta dei Litfiba. Non si va al concerto con la maglia del gruppo, è da terroni. Il resto delle t-shirt che ho è meno d’impatto, ma voglio evitare il pericolo e tra le varie opzioni scelgo una t-shirt nera col collo slabbrato che mi dona un po’ di sgamo extra anche se non mi sono presentato ai cancelli alle due.

Il pullman non è proprio pieno ma quasi, saranno quaranta persone. Io sono il più piccolo di stazza e forse pure di età. Alcuni hanno una decina d’anni più di me. I miei panini e la mia bottiglietta d’acqua fanno tenerezza. Mi chiedono che cosa mi sono portato, faccio vedere, un tizio mi chiede cosa c’è dentro la bottiglietta d’acqua. Acqua. “Oh”, mi fa. Lui la bottiglia d’acqua ce l’ha da un litro e mezzo e l’ha riempita con la grappa che fa suo nonno. Un altro ha la bottiglia del tè freddo piena di trebbiano, e questo è più o meno l’andazzo generale Mi chiedo se l’alcool a quarantasei gradi corroda o meno la plastica, mi trovo dentro al mio spazio mentale per un secondo e immagino le cellule cerebrali che muoiono come un’animazione di Esplorando il corpo umano. Dopodiché tutti quanti iniziano a mettere in campo quello che hanno portato e io mi sento la peggio merda al mondo: birre Von Wunster in lattina imboscate nel doppio fondo dello zaino, fumo imboscato sotto le scarpe (forse negli anni novanta i cani non sano ancora distinguere l’odore della porra dalla puzza dei piedi) o in ogni altro posto, stecche intere di sigarette e cose così. Non ho mai visto, e non vedrò mai più, così tanto alcool e così tante droghe dentro un singolo mezzo di locomozione. Quasi nessuno ha portato manco un cioccolatino da mangiare, e quegli altri cosi che sembrano cioccolatini renderanno i miei panini suscettibili di assalti: per malanimo e istinto di sopravvivenza me li sparo in rapida successione non appena parte il pullman –vent’anni dopo mi chiederò quando come perché abbiamo smesso di parlare di fame chimica. Qualcuno ha già appizzato, e dopo dieci minuti il giunto (nei primi anni novanta ogni mese c’era un modo più cool di chiamare le canne, quindi potrei sbagliare sul termine esatto) mi finisce in mano. Rifiuto cortesemente, e questo mi precipita all’interno di un romanzo di Kafka nel giro di dieci secondi. La tiro un po’ per le lunghe, imbarazzato e stretto nelle spalle. Dietro di me c’è un coro di sette persone che urlano TI-RA! TI-RA! e mi mettono in mezzo in una situazione molto fisica. Butta male.

Durante gli anni novanta in Romagna viene usato con frequenza il termine SPEZZABOLGIA. Lo SPEZZABOLGIA è una persona il cui comportamento (spesso involontario) pone il freno ad una situazione di estasi e divertimento collettivo con comportamenti noiosi e non consoni. Il tipico SPEZZABOLGIA è la persona che salta il giro quando c’è da fumare. La prima persona che sussurra la parola sta dietro di me ed era contraria alla mia inclusione nella comitiva sin dai tempi della raccolta adesioni (non mi voleva in quanto evidente sfigato, perché credo che sia importante scendere da un pullman al Palafiera di Forlì ed assicurarsi che nessuno di noi sia uncool), e ora scuote la testa. Un altro sta dando evidenti segnali di disagio alla notizia che qualcuno nel pullman non fumerà e mi viene incontro con i pugni tesi dando per scontato che tutto ciò che voglio è scendere dal mezzo e denunciare il resto dei viaggiatori alle autorità, o spifferarlo alle loro madri una volta tornati a casa. Fossero solo miei coetanei, o diciottenni al massimo, verrei pestato e lasciato in mezzo a Forlimpopoli senza il biglietto del concerto; la presenza di venticinquenni fa sì che qualcuno di loro si metta a fare da paciere ed evitare che io venga vessato, usando frasi-macigno che un sedicenne al suo primo concerto rock non vuole sentire: “CIOU lui non se la sente,” “No ma magari si vuole godere il concerto”, roba così. Venire difeso da dei venticinquenni è la più grande delle sfighe, in certe situazioni: a parte l’onta, se i diciottenni alzassero la cresta verrebbero schiaffeggiati e messi al loro posto, e due giorni dopo si rifarebbero su di me con gli interessi come se fosse colpa mia. È colpa mia, naturalmente. Sospiro e mi faccio passare il giunto, do un paio di tiri mentre trenta persone urlano OOOOOLEEEE e arrivo al palazzetto (sobrissimo, voglio dire, due tiri) in un clima di pacche sulle spalle come se avessi perso la verginità in pubblico a bordo del mezzo. Gente con cui non ho mai parlato mi sorride e mi chiede se mi sento bene. Un rapido sguardo alla folla sembra accertare che i Litfiba fanno davvero un sacco di soldi con gli sfigati e quelli che non sanno stare in pubblico.

I poliziotti all’ingresso fanno la perquisa, ma in realtà sono una specie di garanti del dresscode  –il fumo i ragazzi l’hanno imboscato dentro i calzini, qua gli sbirri ti danno una tastata controvoglia allo zaino e si assicurano che la bottiglia d’acqua (piena fino all’orlo di grappa del nonno) entri nel palazzetto senza il tappino. Ucciditi ma non uccidere.

Dentro il locale sono tutti messi come il porco. Molti sono ubriachi, altri sono sobri-ma-molesti, altri sono sobri ma fingono di essere ubriachi perché boh. Tantissimi hanno la maglia dei Litfiba. Non sembra esserci nessuno in camicia e pantaloni, molti stanno a petto nudo, alcuni hanno capelloni e barboni e basettoni simili a quelli del cantante del gruppo. Non sono persone che vedi girare per i bar che frequenti il sabato sera. Sembrano gente che esce per la prima volta dalle cantine da anni per vedere finalmente i Litfiba e tornare nell’ombra una volta finito il concerto. Tutti fumano, pochi sigarette. Io per il concerto mi sono preparato: non so come dirlo meglio, conosco tutti i testi di Terremoto a memoria, conosco i tempi, ho una qualche aspettativa. Il concerto mi è costato bei soldi per cui con mia madre ho dovuto scambiare una settimana di austerità, ma sembra semplicemente un raduno di gente che si devasta. Qualcuno dei nostri ha deciso di affrontarla in tranquillità, ed è così che ci ritroviamo sulle gradinate a sinistra del palco. Poi inizia il concerto e non mi ricordo molto, c’è del fumo e un telo su cui si vedono delle ombre -se non sbaglio. Piero, il cantante, ha dei pantaloni larghissimi da samurai –se non sbaglio. Mi immaginavo una cosa intensissima e proibitissima, ma sembra qualcosa che può fare chiunque abbia tanto cattivo gusto e poca vergogna. Ci chiama col nome della città dove ci troviamo.

(NB all’inizio dell’estate abbiamo provato a organizzare un ebook che parla del nostro primo concerto. non ce l’abbiamo fatta, ma abbiamo qualche pezzo da parte. Questo è il mio. se volete mandarcene dei vostri, o pubblicarli sui vostri blog, fatelo. La mail, come sempre, è disappunto(a)gmail.com)

Il listone del martedì: DIECI COSE CHE CREDETE VERE IN MERITO ALL’INDIE ROCK E INVECE

Questo listone ha padri putativi nobili, si fa per dire. Non vogliamo (non è vero, vogliamo) reintervenire nel dibattito su cosa s’intende per indie oggigiorno, non vogliamo cagare ulteriormente il cazzo alLo Stato Sociale e quando parliamo al plurale in realtà intendiamo io, che mi chiamo Francesco e ho idee bizzarre e stupide sulla faccenda. Questo listone si basa su un paio di assunti teorici:

1)      la parola INDIE non identifica più un genere musicale trasversale e di supermoda fatto di gente vestita in modo pittoresco che passa il tempo a fotografare il proprio duckface ma –come da senso originario- musicisti che suonano generi musicali imparentati con il rock e non operano nel mercato discografico emerso, lasciando a quelli di cui sopra l’altrettanto improprio appellativo di hipster.
2)      Questa cosa è comunemente accettata.
3)      Niente, solo le prime due.

Il dibattito sta impazzando furioso, cioè nell’ultima settimana ho letto più di un post in merito, nella fattispecie un tirone di Hamilton Santià e Simone Dotto rilanciato da Enzo Polaroid e messo in pari a un articolo di Birsa su Vice. Riassunto: nel mondo dell’indie attuale tira aria nuova, ma l’aria nuova è la stessa aria nuova che tirava prima che tirasse aria nuova e ha lo stesso identico odore dell’aria che hai mollato per cambiare aria. C’è stato un ricambio generazionale e non è contato un cazzo. Oggi i gruppi si riuniscono un po’ e nel farlo vendono (svendono) l’integrità di essersi suicidati prima che andasse tutto a puttane in cambio di non essere più morosi con le rate dell’appartamento a Providence. Le risposte che si possono dare sono diverse, dalla polaroidesca bisogna senz’altro considerare l’idea che probabilmente abbiamo sempre voluto tutti quanti la stessa cosa, o quantomeno ora è così alla birsesca VAFFANCULO. Noi, sempre inteso io, non abbiamo le idee chiarissime in merito, ma è innegabile che siamo di fronte al primo periodo interessante nella storia della musica dai tempi in cui si sussurrava fosse in corso un’asta tra le major per mettersi in scuderia gli Earth Crisis. La battaglia da combattere non è più contro un sistema ben identificabile come mainstream, ma contro una serie di accettabilissime soluzioni di compromesso che stanno svuotando di significato la musica che ascoltiamo senza che nessuno (a partire dai giornalisti/blogger musicali, il più ridicolo branco di mentecatti di cui abbiamo mai fatto parte a parte forse i boyscout e il Club degli Editori) abbia sviluppato un sistema immunitario che faccia suonare un campanello d’allarme. La seguente lista di false credenze in merito all’indie rock vorrebbe essere uno spunto di riflessione, esauritosi peraltro nella nostra riflessione da qui a quando abbiamo chiuso il pezzo, e tralascia volutamente (non è vero) le declinazioni etiche del discorso. Il fatto che sia giusto o sbagliato rendere del proprio mestiere un mestiere o quanto ti renda una persona migliore scopare di più, cioè saper suonare un basso, non è una cosa che c’interessa. Nè tantomeno se condurre una vita/carriera da musicista indie sia in qualche modo una cosa auspicabile. Ci teniamo volutamente a distanza di questo genere di cose per rivendicare orgogliosamente il nostro ruolo di ascoltatori puri e di indierockers impuri, non siamo parti in causa del discorso, abbiamo pochissimo da perdere e quel poco che abbiam da perdere non sono soldi. E nel caso qualcuno se lo chiedesse, indie è un modo puccioso di dire indipendente. Continua a leggere