Carlo Bordone

Mio fratello portava a casa le riviste di musica pescate a casaccio tra quelle generiche: Rumore e  Rockerilla soprattutto, Dynamo quando usciva, Rockstar, il Mucchio e tutto il resto. Leggevo i nomi dei gruppi e mi facevo le mappe mentali di cosa era figo e cosa no, voglio dire, mio fratello non aveva tutta ‘sta collezione di dischi e io scroccando dagli amici riuscivo a coprire metal, grunge e punk rock e morta lì. Leggere di tutta ‘sta gente figa mi ha costretto –molto prima di possedere un lettore CD- ad allargare la mia rete di contatti a cui poter far doppiare i nastri, a frequentare i negozi di dischi compiacenti il cui proprietario era disposto a doppiarti la cassetta dal CD in nero, a scambiare le cassette via posta eccetera. La stampa musicale era ancora un luogo pieno di bianchi e di neri, sfogliavi una rivista e venivi investito dall’idea che ascoltare un disco brutto potesse causare sensazioni davvero spiacevoli. Carlo Bordone scriveva di musica allora e continua ancora oggi a farlo. Questo potrebbe essere la prima intervista di una serie, che comunque immagino non avrà cadenza molto più che –boh- bimestrale. Le prime due domande servono a scaldarsi. Le foto sono per sfottere.

Quand’è che hai iniziato a scrivere di musica?
Come dicono le scrittrici esordienti del genere rosa, “ho sempre scritto”. In effetti all’università pubblicavo (ah ah ah) una fanzine che scrivevo e leggevo solo io. Si chiamava Tamalpais. Battuta a macchina, fotocopiata, tenuta assieme con la pinzatrice. Come tutti i fanzinari, mi sono messo a contattare etichette, distributori, band, e ovviamente non ho mai visto un promo che fosse uno. In compenso mi sono sparato grandi scambi epistolari con Jon Ponemann, Greg Ginn, Geoff Travis e compagnia.
A scrivere su un giornale vero ho iniziato nel 1996. Il giornale era “Rumore”. Già da un paio di anni trasmettevo su una radio torinese , Radio Flash, il cui direttore artistico era Alberto Campo. Facevo un programma con altri tre miei amici, ci chiamavamo Groovers. Con uno di loro (Pierpaolo Vettori) ho condiviso la stessa firma sul giornale per i primi due o tre anni. Prima recensione, un disco dei Posies. Prima intervista: i Guided By Voices. Tra le “guest star” del nostro programma radiofonico c’era anche il nostro amico Maurizio Blatto (che nel programma spacciavamo come Maurizio “Bacharach” Blatto, nipote di Burt ed esperto di gossip dell’alta società). Con lui abbiamo a volte scritto qualche pezzo a sei mani per Bassa Fedeltà, leggendario bimestrale garage/punk/r’n’r e costola di Rumore, diretto da Luca Frazzi: il capolavoro fu un’ode commossa a Franco Califano, redatta in tempi non sospetti.
Nel 2000, subito dopo un’intervista ai Marlene Kuntz nel bar della stazione di Cuneo (avranno portato sfiga?) me ne sono andato da Rumore per ragioni che ho dimenticato. Dopo essere transitato per un paio di numeri su Blow Up (credo che neppure SIB non se ne sia accorto) ho chiamato John Vignola, che conoscevo da qualche anno, per sapere se c’era la possibilità di collaborare sul Mucchio. C’era. Da allora non mi sono più mosso.

Scrivere è il tuo lavoro? che cosa vuoi fare da grande? 
Sì, scrivere è il mio lavoro, nel senso che so fare più o meno solo quello. Attenzione: non ho detto scrivere “di musica”. In Italia è praticamente impossibile campare facendo il “critico musicale”, ci riescono solo poche grandi firme, in gran parte quasi-sessantenni che hanno sfruttato (giustamente, e beati loro) i periodi di vacche grasse. In genere bisogna arrangiarsi tra mille cose: traduzioni, curatele editoriali, lavori nel mondo della promozione e della discografia, uffici stampa, radio, presentazioni, consulenze ecc ecc. Io fortunatamente ho un ombrello abbastanza sicuro, avendo potuto imparare più di quindici anni fa il mestiere del copywriter pubblicitario. Ho lavorato per molti anni in una grande agenzia, oggi sono freelance ma sostanzialmente tre quarti del mio affitto li pago grazie al vituperato mondo della comunicazione. Tra le altre cose insegno anche in una scuola di pubblicità, dove mi rendo conto dei gusti musicali drammatici del ventenne medio, magari sveglissimo e informatissimo su altri argomenti.

E com’è che continui a scrivere di musica?
Me lo chiedo spesso. Fondamentalmente per tre ragioni. La prima è una patetica forma di narcisismo. Fa piacere vedere la propria firma, e anche se il mondo dei lettori di giornali musicali sta diventando sempre più piccolo e auto-riferito, un micro-universo da nerd tipo quello dei giocatori di wargames o dei collezionisti di biancheria intima di collegiali gapponesi, tutto sommato sapere che qualcuno ti legge fa piacere. Il secondo motivo è l’abitudine: ormai i miei ritmi nell’ascoltare musica sono scanditi dalle deadline editoriali mensili, ed essendo una persona metodica se venisse a mancare questa impalcatura che dà ordine ai miei ascolti andrei nel panico. Terzo motivo: mi piace scrivere e amo la musica, per cui se riesco a buttare giù una bella storia che parli di musica in cinque o dieci o ottantamila battute (i famigerati pezzoni di “Extra”) ne sono felice. Una volta c’era anche un quarto motivo: i dischi che ti mandavano i distributori. Ma tanto oggi ti girano solo più i link, quindi chi cazzo se ne frega.

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Come lavori sui dischi? li ascolti davvero? fai finta? li butti nel bidone?
I dischi ovviamente non li ascolto, me ne faccio un’idea leggendo le prime venti righe delle recensioni su Pitchfork. No, ok: se devo recensire un album lo faccio girare sei-sette volte, non di più perché tanto per capire davvero bene un disco di ascolti ce ne vorrebbero centinaia, oppure il più delle volte ne basta uno. I promo che ricevo li ascolto tutti, per principio, ma al massimo un paio di volte per decidere cosa vale la pena di proporre in redazione. Poi se devo scriverne mi ci concentro sopra. In generale, tendo sempre a preservare un po’ di tempo per ascoltare musica solo per piacere mio. Consumo personale, niente spaccio.

Io ho iniziato a leggerti che avevo vent’anni. Eran periodi che scrivevate tirate sulla Blues Explosion o stroncavate un po’ OK Computer o Rollins. voglio dire, erano anni in cui queste cose sembravano avere davvero un senso, in qualche modo leggevi le riviste a fine anni novanta e ti capitava di incrociare dei pezzi tipo La Corazzata Potemkin (un articolo nel quale tutte le firme del giornale stroncavano un artista considerato intoccabile, i Groovers scelsero di demolire Henry Rollins e ne uscì il pezzo di stampa musicale più bello mai scritto). Ora sfoglio le riviste e sembra una specie di grande trionfo del buonsenso, anche senza guardare alla media aritmetica dei voti ai dischi (che può avere un senso), mi sembra che ci sia una specie di trionfo della “professionalità” che mi sembra sia un po’ figlio del trionfo critico dei vari Reynolds e un po’ del fatto che tutto sommato gli schei stanno diventando così pochi che nessuno ha più voglia di mettersi di traverso. Oggi uno pubblica un pezzo contro i Radiohead e il sentore comune è una cosa tipo “si fotta, ha delle questioni personali contro il gruppo”. peggio ancora coi gruppi italiani, che a volte documentano per filo e per segno storie di rosicate decennali dietro a una stroncatura di trecento battute. e il risultato è che sfogli i giornali e i siti di musica e sembra l’unico posto dove la democrazia cristiana sopravvive in pompa magna.
la domanda è: in qualche modo ti ci ritrovi in questa cosa o sono io che mi sto facendo un film? E se sì, come ti poni? come è cambiato il tuo scrivere? e se no, com’è che una volta mi divertivo UN BOTTO a leggere le riviste e adesso le sopporto a malapena?
Non so, sinceramente, se è così vero che le riviste di musica si siano imborghesite o normalizzate negli ultimi 10-15 anni. Molto più semplicemente, hanno perso molta della loro importanza e della loro centralità. Mi ripeto: il mondo che gira attorno alla musica indipendente/alternativa (chiamiamola così per capirci, poi quando ci viene in mente un termine migliore lo usiamo) è sempre più circoscritto, direi quasi infinitesimale. Interessa a quattro gatti, parliamoci chiaro. Alla fine bene o male ci si conosce tutti, e questo può portare chi scrive di musica a due atteggiamenti opposti ma equivalenti: o la butti in caciara per fare vedere chi è il galletto in un pollaio con sempre meno galline (e quindi tiri giù stroncature altisonanti, ti crei il personaggio, dai 0.0 ai Sonic Youth, fai lo splendido, scrivi recensioni piene di “cazzo-figa-tette-culo-Pasolini-Carmelo Bene”) oppure ti tieni buoni tutti e non ti esponi, perché potrai mica parlare male del disco che ha fatto quel tuo amico di facebook col quale fino al giorno prima discutevi dello stato penoso della musica in Italia (per dire)?. Ovviamente sono atteggiamenti patetici e perdenti entrambi. Ma la situazione attuale, con il downloading, la musica free per tutti, l’iper-produzione ecc., li ha resi pure inutili. Che un “giornalista” o “critico” musicale parli bene o male di un disco, lo faccia con uno stile flamboyant o ingessato, con il tono di chi smerda la Gioconda o del democristiano doroteo, alla fine non cambia niente. Quando avevo diciassette anni, per me le parole di un Campo, di un Guglielmi, di un Cilìa, di un Sorge o di un Bertoncelli erano legge. Una loro recensione positiva o negativa poteva avere effettivamente un certo peso, visti i numeri, nelle fortune commerciali italiane di un album dei, che so?, Fuzztones o dei Dead Can Dance. Se oggi uno fa a pezzi l’ultimo disco dei Radiohead o di Bjork al massimo se ne parla per mezz’ora su twitter e per due pagine di un  thread sul forum del Mucchio, e comunque almeno metà delle persone interessate alla cosa saranno d’accordo; quando noi Groovers stroncammo Ok Computer, ancora a distanza di due anni a Rumore arrivavano lettere di gente che voleva rigarci la macchina (non che me ne faccia un vanto, eh, anche se su Ok C. non ho mai cambiato idea). Oggi una roba come la “corazzata Potemkin” – che, ne convengo, fu un’idea geniale, se ricordo bene partorita da Fabio de Luca – la si fa ogni due minuti sui forum, su facebook, sulle stesse riviste. Solo che non ha l’impatto che poteva avere nel ’97, perché la musica rock è una cosa MOLTO meno importante, e di conseguenza lo è anche chi ne parla. Forse è anche un bene, non lo so; certo, la balla del “oggi la gente è più libera di farsi un’idea da sola/esercitiamo tutti più indipendenza di giudizio/basta mediazioni/tutto il potere ai soviet dei consumatori/viva la gggente” non me la sono mai comprata. Un filtro, come in tutte le cose, è utile. La competenza è utile. Più che altro viene lo sconforto, quando sfoglio le riviste o leggo (con molta fatica, lo ammetto) le webzine e i blog musicali, al pensiero di quanto tutta quella roba scritta viene dimenticata trenta secondi dopo essere stata letta (compreso quello che scrivo io, ovviamente).
Naturalmente è anche colpa, in molti casi, di come è scritta. E’ vero, un po’ di responsabilità ce l’ha anche Simon Reynolds. Cioè, non tanto lui, quanto il simonreynoldismo. Tutta questa ossessione per il  postmoderno, il dover tracciare a tutti i costi linee storico/evolutive, schematizzare, sottolineare direttrici culturali, incrociare riferimenti di altre discipline e bla bla bla, porta a una scrittura vivace e coinvolgente come un manuale di istruzioni dell’Ikea. Ma non credere che l’altro approccio, quello tutto di pancia-fegato-rock’n’roll, sia poi molto meglio. Lester Bangs – cioè non lui, il lesterbanghismo – ha fatto almeno altrettanti danni. Ecco, questo può sembrare strano, ma negli anni 80-90 Lester Bangs era solo un nome che vedevi citato, ma nessuno – a parte i più vecchi e scafati – aveva mai letto un cazzo di suo, non c’erano traduzioni italiane, gli originali non sapevi dove andarli a pescare, non era uscito Almost Famous e tutto il resto. E questo forse era un bene (per quanto certi scritti di Bangs siano bellissimi). Mi deprime terribilmente leggere gente che scimmiotta lo stile di qualcun altro, e uno dei problemi di chi fa “giornalismo” musicale in Italia è proprio quello, prima ancora dell’imborghesimento cui accennavi tu. Quando voglio cercare qualcosa in rete su un gruppo che mi interessa, le prime quattro pagine di google sono solo recensioni in italiano, tutte uguali e tutte ugualmente piene di “moniker”, “full length”, “release”, “sideman”, “post-dubstep” ecc.. Una volta ho trovato un “questo è il suo sophomore record”. SOPHOMORE RECORD, dio santo. Gente che spacca il capello musicale in mille parti, citando micro-scene che conoscono solo loro, cd-r ascoltati da tre persone, senza il minimo senso della prospettiva nonché del ridicolo. Ecco, per me se questa è la critica musicale del futuro è meglio che non ci sia proprio, un futuro.
Non mi piace lo stile algido da Hal900, ma neanche quello svaccato e insultante. Per rifarsi a un esempio classicissimo, uno che per stroncare un  disco di Robert Wyatt lo chiama “quel paraplegico di merda” per me è solo un coglione. E qui parliamo degli anni 70. Per quanto mi riguarda, spero di scrivere meglio adesso di quanto scrivessi 15 anni fa. Mi sembra il minimo sindacale, per tutti. E soprattutto spero di non essere diventato più cinico, che è quello che in genere capita quando invecchi e hai ancora a che fare con cose che in teoria dovrebbero riguardare “i giovani”. Un po’ di disincanto e di saccenza sono inevitabili, ma mi auguro di tenerli entro limiti accettabili. Per il resto, l’unica regola che seguo è scrivere quello che penso. Il problema è che grandissima parte dei dischi che ascolto mi fanno pensare sempre le solite cose.

La cosa che A ME fanno pensare quasi tutti i dischi che ascolto sia che i gruppi, anche quelli di primo pelo, non sentono più il bisogno di suonare forte e incazzato, non solo in classifica (che vabbè, si andrebbe a finire in zona Castaldo) ma anche e soprattutto nel sentire “medio” della musica indipendente. Voglio dire, è vero che la visione di bangs ha fatto gli stessi danni di quella di reynolds, ma sembra che l’esigenza dei gruppi sia quella di trovare una propria posizione nel mondo che sia più o meno la stessa posizione che hanno tutti, un assetto standard, un impianto sonoro ben definito etcetera. Riflettevo su questa cosa ascoltandomi l’ultimo di Mould: un sacco di questa gente (Quicksand, Husker Du, Black Flag, anche i Fugazi per certi versi, forse perfino REM) hanno dato il meglio in una fase in cui non sapevano cosa volevano diventare, anche se avevano ben chiaro da cosa volevano fuggire. io di mio mi aspettavo che avrei avuto uno sviluppo uguale a quello di tutti i rockettari al mondo, che avrei ascoltato punk e metal fino ai miei venticinque e poi sarei passato a roba evoluta e raffinata di confine e magari sempre di gusto indipendente-scolastico, non so. mi sono ritrovato a 34 anni che riascolto i dischi vecchi o al limite i dischi nuovi fatti dai gruppi che già quando avevo 20 anni sembravano fuori moda. a te succede lo stesso? è una cosa che sicuramente si lega al discorso bangs VS reynolds, voio dì, preferire un gruppo che abbia una coscienza di chi è e una visione di cosa vuol essere tende a promuovere una scena più pacificata e adulta. ma mi sa che ci sia anche qualcos’altro. la domanda credo sia: che cosa consigli di ascoltare, che cosa riflette di più la tua idea di cosa dovrebbe essere la musica di cui parli OGGI? è diversa da quella che mi avresti consigliato dieci anni fa?
Sono abbastanza d’accordo con quel che dici. Per dovere di “aggiornamento professionale” (dai, famose una risata) cerco di ascoltare più cose possibili anche di gruppi nuovi, ma nell’80% dei casi a stare bassi mi annoiano a morte. I gruppi “indie” di oggi sono prevedibili come un programma di Fabio Fazio. Prendono uno stile, un format, e se lo cuciono addosso senza prendersi alcun rischio. È vero, nessuno suona incazzato e violento, ma soprattutto nessuno prova a suonare neanche lontanamente originale. Fosse anche una merdata, almeno sarebbe la LORO merdata. Invece niente. Riguardo all’aggressività manca anche a me, anche se non ho mai amato il metal – di nessun tipo – e non mi piace la brutalità fine a se stessa. Ma dio santo, quanto sono mosci questi impiegatucci dell’indie rock. Stai mezz’ora al palco Pitchfork del Primavera e ti viene voglia di fumare ammoniaca. Ha ragione tu: si cercano la loro posizione nel mondo e da lì non si schiodano. Questa generazione infatuata della new wave è frustrante nella sua prevedibilità. Gli XX, voglio dire. Ma cosa cazzo rappresentano gli XX? I Chromatics? I Beach House? Ma per carità, davvero preferisco vedermi i Fleshtones sessantenni per la centottantesima volta, almeno mi diverto e due zompi me li fanno ancora fare. Non ho visto niente di più punk, negli ultimi dieci anni, dei NoMeansNo. L’ultima volta che mi sono davvero eccitato a un concerto di un gruppo giovane (che poi manco lo erano più tanto) è stato con gli Unwound al Babylonia di Biella dodici o tredici anni fa. Suonavano come se avessero dovuto essere fucilati alla fine del concerto. Sembrava che gli importasse, cristo. In questo sono d’accordissimo con te: sapere da cosa si scappa ma non dove si sta andando è la condizione ideale per fare della musica che abbia un senso. E’ ciò che ha reso emozionanti i sixties, il punk e la musica indipendente americana degli anni 80. Non c’erano punti di riferimento, niente “play it safe”. Forse anche nell’elettronica degli anni 90 è stato così. Da rockettaro quale sono – e quindi a forte rischio di dire cazzate su questo argomento – vorrei riprovare le stesse emozioni di scoperta e di novità che provavo ascoltando le prime cose degli Orbital, degli Orb, di Dj Shadow, dei Future Sound Of London, di Squarepusher, di Roni Size, persino di Fatboy Slim, toh. Chi dovrebbe darmeli questi brividi oggi? James Blake? Mah. Sogno un gruppo che riesca a essere originale nel suo essere retrò come lo erano i primi Stereolab,  una delle band che ho amato di più nella vita, peccato che non ci sia. Quindi no, adesso non saprei dirti quale musica ascoltare che sia rappresentativa di questo tempo o che rappresenti la mia idea di musica. Dieci anni fa forse ti avrei detto Four Tet e Yankee Hotel Foxtrot dei Wilco, per motivi opposti ma complementari.

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Però se ci pensi dire che i Nomeansno (che sono tipo il ns gruppo preferito) sono la cosa più PUNK che c’è oggigiorno è un po’ una contraddizione in termini, nel senso che pensare che l’apoteosi del PUNK sia un gruppo di cinquantenni che fanno tour continui, in situazioni relativamente confortevoli e suonano più o meno la stessa roba da vent’anni con una perizia tecnica mostruosa, ecco, è un po’ come ammettere la sconfitta culturale del genere. e comunque si parla di PUNK in tutti i contesti, e più o meno a caso, parlando di qualcosa che ha un qualsiasi motivo di rottura rispetto a qualsiasi altra cosa, l’ho sentito dire dei Pearl Jam, dei Cani, degli Afterhours, di Cremonini e ovviamente degli 883, mi piacerebbe poter citare le fonti e sbatterle in faccia a chi leggerà il pezzo. Voglio dire, per me la parola PUNK ha fatto il giro ed è diventata il nemico, una specie di autocertificazione o di certificazione a buon mercato che chiunque può utilizzare per sdoganare qualsiasi cosa, e quindi in qualche modo quando lo sento dire giro alla larga e passo oltre. Quello che davvero mi manca è qualcuno che si autocertifichi come di massa o mainstream o corporate, ma se lo facesse ovviamente la maggior parte di quelli che ascoltano direbbero che è PUNK perchè una cosa simile l’ha già fatta John Lydon. Voglio dire: la maggior parte dei giornalisti musicali e degli addetti ai lavori (ammesso che questa distinzione abbia ancora un senso) adotta ancora un sistema critico per il quale parole come PUNK o INDIE le butti sul tavolo e hanno un significato profondo, mentre probabilmente bisognerebbe perdere un paio di mesi, ricominciare daccapo, trovare delle priorità e dei canoni di giudizio che prima non c’erano e vedere se troviamo un modo di pensare dischi e artisti che non avevamo prima e che si adatti di più ai dischi che escono ora. La domanda si compone di varie parti, la principale delle quali è “ci sono delle parole che utilizzi o vedi utilizzare e che ti sembra che non abbiano più senso e che saranno fraintese?”
Infatti i NoMeansNo, che potrebbero essere tuoi zii e peggio ancora pure i miei, li citavo per paradosso. Definire cosa è punk e cosa no oggi mi interessa relativamente, ma come vedi anche io sono suscettibile al fascino del concetto visto che l’ho infilato gratuitamente in tutt’altro discorso. Detto ciò, i NoMeansNo per me lo sono. Punk, intendo. Tutti quelli che dicono di esserlo probabilmente no, a parte naturalmente Mike Watt. Ai giornalisti musicali piacciono molto le definizioni, adorano il nominalismo. Una paroletta buttata lì a caso fa risparmiare un paio di righe di spiegazioni (che molto probabilmente non si riuscirebbero a formulare). “Punk” non significa più quello che significava una volta, posto che anche una volta si fosse tutti d’accordo sul suo significato. Ma del resto era così anche quindici o vent’anni fa, e io personalmente odiavo la maggior parte del punk revival anni 90.  Del concetto di “indie” non ne parliamo neppure. Un altro termine a me molto caro che ha fatto il giro completo, come dici tu, è “garage”. Ma d’altra parte la pigrizia nell’utilizzo delle categorie da parte degli addetti ai lavori è direttamente proporzionale alla pigrizia della musica nell’evolversi, quindi il problema è abbastanza relativo. Quando ci sarà musica nuova ci inventeremo delle targhette nuove, che tra vent’anni verranno ancora usate e qualcuno si chiederà “ehi, ma davvero significano ancora quello che pensavano Bordone e Farabegoli”? (ne sono sicuro, citeranno proprio noi).

Ti capita mai di leggere il pezzo di uno che ha (o sembra avere) una ventina d’anni e pensare “questo sta dicendo una cosa interessante, questo mi sta facendo sentire vecchio”?
Sinceramente no. Se si parla di rock, non mi capita mai.

Un periodo chiave per quel discorso vecchio/nuovo che facevamo prima è stato quello dell’ascesa degli Strokes. Nel libro di Azerrad che hai tradotto li hai citati anche tu, nell’introduzione, come una cosa che bene o male ha cambiato le cose. a quei tempi sembrava il ritorno del rock’n’roll e dopo due anni di gruppi idioti con l’articolo davanti s’è capito che in qualche modo era il party d’addio. tu come te lo sei vissuto?
Me lo sono vissuto benissimo, quel periodo. Parliamo dei primi anni Zero, no? A me il primo degli Strokes piaceva un sacco, il fatto che (vedi sopra) un gruppo di fighetti come loro venisse etichettato come “garage” non mi creava nessun problema. Era figo andare in un club al sabato sera e sentire “Last Nite” quelle quindici-venti  volte. Possiamo tirarcela quanto vogliamo, ma quella è una canzone strepitosa. E’ tipo Heart Of Glass, See No Evil, Roadrunner o Brown Sugar, quel genere di cose. Funziona, è rock’n’roll. E io quando c’è qualcosa di genuinamente rock’n’roll che funziona sono contento. Naturalmente l’abbiamo pagata subito con i Jet e tutta la ciurma di band “garage” deprimenti oltre ogni immaginazione (tipo gli Strokes dal secondo disco in poi), ma chi se ne frega. E poi sono affezionato a quel periodo perché è stato l’unico nel quale pure io riuscivo a far ballare la gente quando mettevo i dischi.

Fine. Avrei voluto continuare un altro milione di anni ma non è nemmeno giusto che siano gli altri a grattarmi i miei pruriti. alla prossima.

14 pensieri su “Carlo Bordone

  1. Grandissimo Carlo Bordone. Sono anni che ogni volta che parlo di musica con mia moglie (cioè, io mi lagno di qualcosa o polemizzo su qualcosa o entrambe le cose assieme) le dico sempre, ah Carlo Bordone è un grande, e poi è simpatico, E’ DE TORINO! (=per noi, essere di Torino è un valore aggiunto. Che poi: sarà vero?). Lei non ne potrà più, mi lascerà, pioverà, ed io mi dispererò, valuterò il suicidio e poi forse opterò per il monachesimo, oppure studierò gli scritti inediti di Vilfredo Pareto, non so. La storia dell’economia è la materia più nerd e sfigata dell’universo tutto, anche perché mentre uno che studia la storia assira è fico agli occhi degli assiriologi (per cui le possibilità di impiego partono dalla disoccupazione nera, passando per il magazziniere e su su fino a una piramide di aspirazioni in cui il RICERCATORE UNIVERSITARIO è la più alta e magnifica, tolto l’irraggiungibile PROFESSORE), uno storico dell’economia è un povero sfigato, bassissimo nella scala occupazionale dei laureati in economia e commercio che partono appunto da RICERCATORE UNIVERSITARIO in una scala che va su su fino a impieghi come RE-GENITORE, OBAMA o PADRONE DEL MONDO.

    Insomma, grazie Carlo per tutto quello che ci hai dato e ci dai. HAIL HAIL come si dice nel mondo del rock’n’roll, e in quello del nazismo.

    Con affetto,
    d.

  2. Ottima, ottima. Credo che abbia fatto fischiare le orecchie a molti lettori di riviste over-30. E sarei sinceramente curioso (lo dico senza ironia) di sentire su certe questioni (peso delle riviste, della critica musicale, potenziale di conflittualità della musica d’oggi) la campana di un redattore under 25 di webzine o fanzine.

  3. Grande Carlo.
    Però qualcosa di aggressivo ogni tanto si trova: McLusky/Future of The Left (magari non hanno inventato niente di nuovo ma sono “gustosi”) o penso agli ZU…

  4. Belle domande e belle risposte. Complimenti a entrambi, a prescindere dall’essere d’accordo o meno su certe cose, perché per una volta si scrive *tanto* e le cose (sebbene nello spazio esiguo di un’intervista) vengono almeno un po’ approfondite.

  5. ci sono dei passaggi assolutamente sacrosanti, parlando di musica la cosa su cui sono d’accordo al 500% è che ormai tutti i dischi suonano uguali. apri pitchfork, prendi 10 recensioni, ascolta un singolo pezzo da ognuno dei dischi recensiti e sembrerà un pastone unico e informe. tutto, dal black metal da cameretta alla psichedelia fino all’elettronica, TUTTO SUONA IDENTICO.

    questo è il tipico effetto clonazione della generazione hipster: scimmiottare, senza capire; fagocitare superficialmente per moda, sputare fuori copie e passare alla moda successiva.

    c’entra una sega, ma ci tenevo a dire che sono di torino.

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