Gruppi con nomi stupidi: HAYAINO DAISUKI

Heilige!!!

 
Letteralmente “hayaino daisuki” significa “io amo la velocità” in giapponese. Ma “amare” non basta per rendere in italiano il termine “daisuki“: Daisuki significa ‘amore’ nel modo in cui una ragazzina di sedici anni ‘ama’ Brad Pitt. A fornire la spiegazione è Jon Chang, ex vocalist degli indimenticati Discordance Axis (una delle formazioni capitali se si vuole tentare di comprendere che cosa è diventato il grindcore nel terzo millennio), ora alla guida dei (se possibile ancora più schizzati) Gridlink; dai Gridlink provengono 3/4 degli Hayaino Daisuki (nello specifico, oltre a Chang, il virtuoso chitarrista Takafumi Matsubara già alla guida dei geniali Mortalized, e Teddy Patterson III, occhialuto bassista a quattrocento corde di Human Remains prima e Burnt By The Sun poi), alla batteria c’è una piovra schizofrenica che risponde al nome di Eric Schnee.  Non esistono foto degli Hayaino Daisuki; gli unici scatti ufficiali in circolazione (sul loro ultraminimale myspace e nella copertina del loro primo EP) ritraggono quattro ragazze che imitano varie pose degli Slayer periodo Show No Mercy-Hell Awaits-Reign In Blood. In quattro anni gli Hayaino Daisuki hanno registrato venticinque minuti scarsi di musica: in tutto otto canzoni distribuite in due EP dai titoli wertmülleriani, Headbanger’s Karaoke Club Dangerous Fire (2008) e il recentissimo Invincible Gate Mind of the Infernal Fire Hell, or Did You Mean Hawaii Daisuki?  Entrambi i dischi vengono pubblicati dalla stilosa HydraHead del grafico Aaron Turner in confezioni DVD superlusso con inclusa manicomiale fanzine (con contributi anche di rinomati disegnatori orientali – parte dell’artwork dell’ultimo è opera di Stan Sakai). Detta così sembra un’irredimibile menata per relitti universitari con gli occhiali fanatici del metallo peNsante e/o avanzi da fumetteria obesi che fregano la pensione alla nonna per andarsi a comprare l’ultima action figure di Todd McFarlane, invece, merda, i dischi degli Hayaino Daisuki sono divertenti, che si sia passata una vita ad ascoltare metal o che si ignori bellamente l’argomento, l’effetto è lo stesso: si esce come dopo aver aspirato dell’elio da un palloncino, bevuto sedici caffè, fatto quaranta giri sulle montagne russe e infine diviso un flacone di amfetamine con la mamma di Requiem for a Dream. Assoli al fulmicotone da guitar hero epilettico in una sala giochi di Tokyo, strilli acutissimi (di Chang e diversi guest più o meno influenti) da maiale bastonato a morte, una sezione ritmica che fa più danni di un carico di rulli compressori su un treno merci senza pilota lanciato a 300 kilometri all’ora contro un asilo nido, il tutto condito da deliranti liriche in giapponese stretto e un senso di frenesia da kamikaze preso bene che è assolutamente impossibile da descrivere. Questa è la nuova droga. Un album sarebbe chiedere troppo (o finire direttamente in una cella imbottita nel manicomio più vicino).

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