Non ho una vera e propria idea sulla chiusura de L’unità: ne prendo in prestito due altrui.

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L’Unità chiude, massacrata di debiti, dopo campagne di salvataggio opinabili. Storie già viste. Il mio contributo all’Unità, in edicola, si aggirava sui quindici euro l’anno, grossomodo: soldi che non consideravo particolarmente ben spesi o mal spesi. Compro riviste e quotidiani, più o meno a caso. A volte ne leggo anche qualcuno. Da ieri ho iniziato a leggere opinioni sulla faccenda, suppongo che continuerò a leggerne: ho trovato due pezzi che mi sono sembrati molto più belli degli altri che ho letto.

Uno l’ha scritto un cantautore, Giancarlo Frigieri:

“È un poco come quando noi suonatori da due soldi non andiamo mai a vedere un concerto in uno dei posti dove ci chiamano a suonare e poi un bel giorno, quando il posto chiude, diciamo “Che peccato”, ma in realtà siamo stati noi a far chiudere quel meraviglioso localino che era talmente meraviglioso che non ci siamo mai sognati di metterci piede.”

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L’altro è uscito nel blog di Leonardo Tondelli, che è il blog, ma che ve lo dico a fare. Va letto tutto (sto parlando con un grafico per farmene fare una versione elegante da attaccare al muro di casa), riporto qualche passo sul concetto di stare sul mercato.

Proprio la travagliata storia dell’Unità dovrebbe aiutarci a capire che le cose sono più complicate: da una certa distanza, perlomeno, viene il sospetto che i veri guai siano nati ogni volta che qualche direttore o proprietario visionario provava a starci, nel ‘mercato’: sin dalle famose e famigerate videocassette e figurine di Veltroni, che all’inizio funzionarono ma a un certo a punto colarono a picco. Un episodio più recente è la gestione Colombo-Padellaro, che è probabilmente il modello che ancora oggi somiglia più all’Unità come la vorrebbero i suoi lettori ed ex lettori. Era un giornale che funzionava, faceva parlare di sé, aveva un’identità forte – però faceva debiti. Più di recente anche la De Gregorio provò a fare qualcosa di diverso e interessante – ma c’erano già i debiti pregressi. Cruciale è stato poi il ruolo di un imprenditore, Renato Soru, che fino a un certo punto aveva interesse a investire sull’Unità, e a un certo punto questo interesse lo perse. Legittimamente: il mercato è fatto così.

(…)

Più in generale, chi parla di “mercato” molto spesso sta solo dando una veloce verniciata liberista alla legge della jungla – jungla peraltro mai visitata dal vivo. Sapete chi è che riesce a stare sul mercato, vendendo soltanto, ehm, ‘notizie’ e ‘opinioni’? Beppe Grillo. Niente carta, redazione minuscola, pochissime spese, tanta pubblicità. Il sito fa grancassa, i libri e i dvd fanno probabilmente il grosso delle entrate – e in questo momento in homepage c’è BRUNO VESPA “ECCITATO” DALLA BOSCHI. Il mercato, se proprio ci tenete, è quello lì. Ma magari non è il posto dove vi piacerebbe discutere. Perché poi il problema è sempre lì: quanto sareste disposti a pagare per avere un luogo, una piattaforma, un sito dove vi piacerebbe discutere in calce a notizie fresche e contributi interessanti? Molto poco. E quindi, a norma di “mercato”, un siffatto luogo di discussioni non dovrebbe sussistere. Possibile?”

 

 

MARIO GÖTZE È NATO A CAPRI – Lamentazione per la vittoria tedesca ai mondiali 2014

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La cattiva reputazione è nulla, quando hai una squadra di football che funziona. Dico “football” e non “calcio” con il doppio fine di prendere le distanze dagli articoli sportivi – “football” è molto più intellettuale, e questo è Bastonate, gente di un certo livello che scrive a scopo educativo/precauzionale – e di evitare odiosi termini italiani fascistoidi. Perché italiani fascisti, schifosi, renzusconiani, mentre i tedeschi che vuoi che sia, dimentichiamo, la Germania è melting pot culturale visual design locomotiva d’Europa, tutto è Kreuzberg, tutto è perdonato. Dio che odio la Germania, Dio quanto rosico, ma Dio non ascolta, Dio è con loro come sosteneva una famosa fibbia, e a noi stronzi rimangono questo Papa farlocco – trait d’union di due popoli fallimentari, da una parte e dall’altra dell’Oceano – e un po’ di ‘ndrangheta a rovinare, se possibile, le loro Bochum dal social welfare perfetto. Siete mai stati in Germania? La Germania è la terra dalle mille patatine, o più precisamente dalle lunghe autostrade costellate di giganteschi autogrill che espongono varietà di patatine inimmaginabili. Questo è quello che in sostanza mi ha colpito della Germania; altro, c’era altro?, ma no, che volete che siano l’economia in salute, i treni in orario, la gente che lavora contenta e senza stressarsi, pagata il giusto, in grado di staccare alle diciassette avendo finito il lavoro, senza riunioni alle nove di sera del trenta luglio pe’ fa’ vedé che. E l’est e l’ovest, e lo Judisches Museum, l’integrazione che funziona e certe zone di Berlino dove i bambini parlano solo turco e però se ne sono accorti e hanno studiato dei programmi educativi che in tre mesi hanno insegnato il tedesco a tutti e ora tutti quegli ex-bambini che parlavano solo turco si chiamano tutti Schmidt e studiano ad Harvard (hanno 17 anni). Uno di loro, Özil, lo hanno preso in nazionale ed è l’unica pippa  – ma l’idea che c’era dietro è che così gli altri si sentono ancora più tedeschi al confronto, gli fanno colletto nello spogliatoio per motivarsi e tornare in campo, distruggendo l’Argentina al grido di MULTIKULTURITÄT. Ma no, scherzo. Cioè, è tutto vero, tranne il fatto che Özil sia l’unico profugo della nazionale: ci sono pure Khedira, che in realtà era un calabrese di nome U PARANOMI ma lo hanno chiamato così per nascondere le infiltrazioni mafiose, e quel difensore potente che si chiama tipo SBOARABANG. Mario Götze che ha segnato si chiama Mario ed è perciò italiano; Klose è un polacco, per la precisione un polacco che è venuto a giocare nella Lazio facendosi mettere per iscritto che avrebbe accettato l’ingaggio per una squadra ridicola a patto che lui avrebbe continuato a fare il cazzo che gli pare, ossia giocare 4 o 5 partite all’anno (segnando 20 goal e dimostrando così che un tedesco, per quanto polacco, è comunque superiore ai nostri difensori-spaghetti) e poi allenarsi per vincere i mondiali. Già, perché hanno vinto i mondiali. Con programmazione, disciplina e ordine. Noi abbiamo mandato un coatto, un ciccione e vari fotomodelli di gel per capelli, e pensavamo di cavarcela così. È finita per noi in modo tutto sommato dignitoso, peggior squadra del mondiale senza appello, peggio ma molto peggio di qualsiasi Honduras (almeno correvano) o Camerun (correvano, e perdipiù si sono venduti le partite altrimenti mezzo punto lo facevano), molto peggio dell’Inghilterra che abbiamo battuto ma la ragione lì è diversa, è che sono inglesi e se ne fottono del mondo, loro hanno  già dimostrato di essere superiori a Galles, Scozia e Irlanda del Nord, e hanno lasciato noialtri scimmie a contenderci un trofeo senza valore. Invece la Germania ha puntato all’obiettivo e lo ha centrato, mandando un chiaro segnale di dominio-di-mondo a un Pianeta Terra che si profila ridente e felice nei prossimi anni: guerra totale all’Occidente, con gli Americani ridotti ai minimi termini e decisi più che mai a restare entro i propri confini, e questi tedeschi che se la giocheranno giusto con la Russia in cattiveria. Che poi pensate un po’ alla storia umana, ogni volta che ha buttato male Germania e Russia si sono spartite il potere, e di solito è andata anche peggio. E i prossimi mondiali sono in Russia. Ma Bastonate è un sito di musica, oltre che di geopolitica, e perlomeno su questo punto l’Italia ha da dire la sua rispetto alla Germania, noi per esempio abbiamo gli… gli… Chi cazzo abbiamo noi, gli AREA porco due, quell’orrendo gruppo prog che in questi giorni ha sporcato il Pigneto con le sue locandine con loro che fanno le facce buffe. I tedeschi hanno soltanto rivoluzionato e sconvolto la musica rock, dandole l’ultima, grande mutazione che davvero abbia avuto un senso nel ventesimo secolo. Lo hanno fatto formando un gruppo prog con componenti presi dal conservatorio, e affidando la voce solista a un barbone trovato per strada. Giuro, è vero, è la storia dei Can. Quella dei Kraftwerk è invece la storia di come un visual design efficace valga come se non più della musica incisa sui dischi avvolti da splendide copertine. Quarant’anni dopo, il giorno dopo la vittoria ai mondiali di calcio, suonarono a Roma sotto al diluvio, cioè loro coperti e il pubblico italiano pagante spazzato dalla tormenta, al grido disperato di AUTOBAHN. Succederà stasera all’Auditorium, e questa è l’unica mia esperienza personale riguardante la Germania di cui abbia voglia di parlare. Scherzo, ce ne è un’altra: tra le tante cose non-sense che ho fatto c’è stata quella di trovarmi varie volte per lavoro a Münster, in Westfalia, patria degli anabattisti e degli H-Blockx. Dovete sapere che Münster è piccola, così piccola, e nei weekend è tutto chiuso, così chiuso, che mi trovai disperato e solo a vagare per la città, neanche un negozio di dischi in cui rifugiarmi, cercando di perdermi intenzionalmente pur di avere un’occupazione, e ritrovandomi sempre nella stessa, fottuta piazza centrale, che ricompariva dietro l’angolo tipo un incubo di John Carpenter in cui non c’è fuga dal piccolo villaggio. Finì con me a percorrere in solitario le rive del lago Aa, gli AA STRONZO mentali che si sprecavano mentre i venti mi sferzavano e la mia mente era già ormai alcuni passi dentro la follia. Però al Centrale del Tennis stasera c’è Battiato. Se rinasco apro un Döner Kebap a Berlino, e questo pezzo ve lo leggerete in turco.

Memoriali. Roba da vecchi.

Credo di essere l’unico essere umano nell’emisfero occidentale, e con un vago interesse nel rock, a non avere mai posseduto i dischi o la maglietta dei Ramones. Non sono tra quelli che oggi porteranno la fascia nera al braccio, insomma, ma era del tutto impossibile volergli male ed oggi è un giorno storico: il giorno in cui, per la prima volta, esiste un grande gruppo rock i cui membri sono tutti morti. La prima cosa che mi viene in mente sono i pranzi in cui si riuniva la famiglia, con gli zii e le zie, e si passava il tempo a parlare di chi era morto dalla volta precedente. In Romagna le casate hanno dei nomi romagnoli non necessariamente uguali ai cognomi, e quando parli di un morto lo chiami con il nome e la casata. Alberto ad Bumbèna, la Maria ad Filipìn. Quando sarò morto diranno che se n’è andato Francesco ad Farabeigual, anche se ho sempre vissuto in mezzo ai Plìt, la casata di mia mamma.

Memoriali. Roba da vecchi. Non capiresti.

GIORGIO E LE BASTONATE

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Tre cose che mi piacciono molto:

  • le scritte a mano
  • il corpo
  • i Do Nascimiento

Supponendo che sia possibile, a livello teorico, fare qualcosa che metta insieme le tre cose, quello che andremo a fare oggi è un gioco che si chiama GIORGIO E LE BASTONATE*.

Cose che saprete: giorni fa è uscito in streaming il nuovo disco dei Do Nascimiento. il disco si chiama Giorgio. Entro fine settimana sarà disponibile la versione fisica. Giorgio è incredibilmente bello.

Cose che probabilmente non saprete: il vinile di Giorgio conterrà un lato B, chiamato Lampino. Lampino è tutto il resto delle cose incise dai Do Nascimiento fino ad oggi: I fanti non piangono, la cassetta aepoenima** e i due pezzi dello Splittone Paura. Il tutto rimescolato*** e ripastorizzato****.

Ora: Giorgio è Giorgio. Potete ascoltarlo su Rumore e presto acquistarlo in digitale/fisico.

Lampino potete averlo in due modi. Il primo è quello di acquistare Giorgio in vinile. Il secondo è quello di giocare a GIORGIO E LE BASTONATE.

Come si gioca a Giorgio e le Bastonate?

Scrivete la parola “GIORGIO”, o la parola “BASTONATE”, o meglio ancora entrambe le parole, su una parte del vostro corpo. Dopo averlo scritto vi scattate una foto. Dopo esservi scattati la foto la inviate all’email giorgioelebastonate@gmail.com.

La vostra foto con scritto GIORGIO o BASTONATE o GIORGIO/BASTONATE su una parte del corpo è la moneta con cui pagherete il disco. Chi invia le foto riceverà in cambio GIORGIO + LAMPINO in versione digitale. Potete richiedere la versione in mp3 o FLAC, ma vi verrà comunque inviata quella in mp3. Le foto servono a darci piacere e ricordare, arrivati alla nostra età, che suonavamo il punk.

GIORGIO E LE BASTONATE esiste in modalità PRIMA O MAI. Avete tempo da ora (mercoledì 9 luglio) alle 23.59 di venerdì 11 luglio per pagare GIORGIO + LAMPINO con la vostra foto. E poi vi sarà inviato il disco.

GIORGIO E LE BASTONATE è un gioco che coinvolge Bastonate, Flying Kids e i Do Nascimiento. Si ringraziano Luca Benni per quel corpo meraviglioso, Legno per la copertina, Ratigher per aver concepito Prima o Mai.

 


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*nel senso del coito

**fake-latino per “senza titolo”

***fake-romagnolo per “remixed”

****fake-italiano per “remastered”.

il disco più bello di sempre e l’altro disco più bello di sempre

Quando dico “il disco più bello di sempre” non mento mai, però in realtà il disco più bello di sempre è più di uno. Ci sono tre ragioni per cui lo faccio: la prima è che mi permette di dare un’altra sfumatura a “uno dei miei dischi preferiti”. “Uno dei miei dischi preferiti” posso dirlo di centinaia di dischi. Vitalogy è uno dei miei dischi preferiti,  In Utero è il disco più bello di sempre. La seconda è che mi permette di non scegliere tra In Utero Niandra LaDes. La terza è che le ragioni devono sempre essere tre. Se guardi Le Invasioni Barbariche, il film intendo, a un certo punto sono a tavola ed enunciano una teoria secondo cui l’intelligenza non è una caratteristica individuale ma un fenomeno collettivo/nazionale/intermittente: una sola stanza, tante teste pensanti: Palazzo Vecchio a Firenze nel Rinascimento, e via di quelle. La storia della musica rock è piuttosto avara di capolavori assoluti, di dischi che ci dicono qualcosa sulla nostra vita. Ne esce uno ogni tanto, a volte si concentrano in maniera pazzesca nel giro di un anno o due, e poi magari seguono cinque o sei anni di stasi.

Nel 1983 gli Husker Du sono conosciuti come uno dei gruppi punk più violenti in circolazione. Basso, chitarra e batteria senza frontman: concerti in cui inseriscono scientemente il maggior numero di canzoni possibile nei pochi minuti a loro concessi, senza una pausa tra una canzone e l’altra. Da qualche tempo hanno iniziato a mettere mano a qualche canzone più melodica: il responso del pubblico è buono, le canzoni melodiche iniziano a diventare il loro repertorio prediletto. Nel momento in cui iniziano a pensare al nuovo disco c’è aria di inversione di rotta. Ognuno dei due autori (il batterista e il chitarrista) scrive pezzi in solitudine, li provano tutti assieme per vedere cosa funziona e cosa no, e si vede cosa viene fuori. Viene fuori il materiale per un doppio album, concepito in realtà quasi politicamente, in sfregio a certe regole non scritte del punk rock. Il gruppo prova in una specie di comune chiamata The Church. Ad ottobre il gruppo va in studio a Redondo Beach con i pezzi pronti e l’uomo di fiducia della loro etichetta (si fa chiamare Spot). Si inizia sciogliendo metanfetamina in una brocca di caffè e registrando una versione tormentata di Eight Miles High. Il disco viene registrato in un’unica sessione di 45 ore, più altre quaranta per il mixaggio. Buona la prima per quasi tutti i brani. Bob Mould alla chitarra, Grant Hart alla batteria, Greg Norton al basso. Il disco viene chiamato Zen Arcade. Conto finale: 3200 dollari.

I Minutemen hanno finito da poco di registrare Buzz or Howl under the Influence of Heat. La maggior parte del disco viene registrata da Spot, su un due tracce, in presa diretta, per 50 dollari complessivi. A completare, tre canzoni registrate gratis da un produttore di nome Ethan James, ex-Blue Cheer. Il risultato li convince a saltare Spot e confermarlo come produttore per il disco successivo: registrazioni fissate per un giorno, nel novembre del 1983, materiale pronto per un LP singolo. A cose fatte scoprono che gli Huskers hanno in programma un doppio LP, decidono di fare lo stesso, si rimettono a scrivere e registrano altro materiale l’aprile successivo. L’ordine delle canzoni è deciso pescando il bastoncino: vince il batterista, sceglie una canzone da mettere nel suo lato, poi ne sceglie una il chitarrista, poi una il bassista. E via fino a riempire tre facciate di LP. La quarta facciata contiene le canzoni scartate. Il titolo è Double Nickels on the Dime: espressione gergale per “guidare rispettando il limite di velocità”, una presa per il culo di una canzone di Sammy Hagar. Dennes Dale Boon alla chitarra, George Hurley alla batteria, Mike Watt al basso.

SST Records e i Black Flag sono sbudellati da un paio d’anni tosti e una disputa con la Unicorn, che ha fatto finire Greg Ginn in galera per qualche giorno e impedito al suo gruppo di far uscire nuovo materiale. Nel 1983 la Unicorn fallisce; i Black Flag riprendono l’attività a pieno regime e decidono di far uscire quattro dischi su SST nel corso del 1984. L’uscita di Eight Miles High come singolo incontra uno straordinario favore critico: gli Husker Du annusano l’aria e fanno sapere all’etichetta che il nuovo disco godrà di molta esposizione. I Minutemen, dal canto loro, presentano il materiale per un doppio album. SST decide di fare uscire i due dischi lo stesso giorno come mossa promozionale.

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È un periodo storico particolare per la musica rock americana, un periodo in cui –si scoprirà in seguito- viene a definirsi un genere musicale trasversale che esploderà all’inizio del decennio successivo. L’etichetta di Greg Ginn decide, per qualche motivo, di far uscire gruppi fuori asse piuttosto che band osservanti: Saccharine Trust, Saint Vitus, Meat Puppets e tutto il resto. A guardarci oggi era già la visione di un nuovo mercato musicale, una versione in scala del rock’n’roll più classico portato avanti da gente fuori asse e non troppo interessata a divismi e perdizione. Musica suonata da gente testarda che si sposta di luogo in luogo elemosinando favori da altra gente testarda. L’epica delle narrazioni postume tende a darne un resoconto piuttosto romantico, ma in questa fase le intuizioni dei singoli gruppi tendono a fare poca legna. Le principali chiavi di lettura di quel periodo storico sono contenute in due dischi: Zen Arcade e Double Nickels on the Dime.

Zen Arcade è il disco più bello di sempre e non è nemmeno il disco più bello del gruppo che l’ha inciso. Non è quello con la qualità media più alta (New Day Rising), non contiene i picchi assoluti della produzione dei due artisti (Candy Apple Grey) e non è nemmeno quello che riesce a raccontare meglio il pubblico a cui si rivolge (Warehouse). Il valore di Zen Arcade è soprattutto il suo valore di documento: il gruppo che l’aveva realizzato non godeva dell’inattaccabile reputazione da capiscuola: era un gruppo che aveva sentito muoversi le acque e aveva deciso di tirare la volata. L’inattaccabile reputazione da capiscuola è arrivata dopo il disco, sull’onda della bontà di quel disco. La divina commedia del punk, secondo una delle più felici definizioni da libro delle medie mai date ad un disco, affibbiata a Zen Arcade dall’odiatissimo Piero Scaruffi.

I Minutemen sono l’ennesima reincarnazione di un gruppo la cui ossatura nasce dieci e più anni prima. Mike Watt e D.Boon si incontrano in un parco a tredici anni e diventano amici per la pelle. La madre di D.Boon li spinge a mettere insieme un gruppo per non fargli fare una fine peggiore; i comprimari cambieranno un poco, chitarra e basso indissolubili dal giorno uno. L’incrocio delle parti strumentali è il resoconto fedele di questa dinamica: un alternarsi imprendibile che parla una lingua sconosciuta al mondo e che ti esplode in testa solo dopo qualche ascolto.

Uno dei protagonisti di Little Miss Sunshine è un accademico omosessuale, considerato tra i massimi esperti mondiali di Proust. Un altro accademico gli frega il fidanzato e la palma di massimo esperto mondiale di Proust. Tenta il suicidio, viene costretto a unirsi alla famiglia, fanno un viaggio, bla bla bla. Più o meno. Gli Husker Du, secondo quella che è forse una leggenda metropolitana, si formano sull’onda di un esperimento di sociologia del chitarrista: la dialettica interna al gruppo è tra le più trite della musica rock di ogni tempo. Chitarrista e batterista impegnati in una continua sfida, sempre meno amichevole e sempre più avvincente, che consumerà la band dall’interno. La sfida è a colpi di canzoni e cattivo karma. Si fossero sciolti appena dopo Zen Arcade, nessuno avrebbe avuto dubbi in merito al fatto che il talento compositivo dentro agli Husker Du fosse il batterista: mentre Bob Mould cesellava la potenza accacì della band mettendo in scaletta le bombe atomiche, tipo The Biggest Lie Indecision Time, Grant Hart piazzava in scaletta un pezzo per chitarra acustica. Certo, l’approccio di Mould è meno monolitico in Zen Arcade che nei dischi passati, e Chartered Trips e Newest Industry spingono già dalla parte del genio, ma a conti fatti la qualità pop dei pezzi di Hart in Zen Arcade svetta di gran lunga. A conti fatti è estremamente probabile che Bob Mould abbia messo mano alla roba melodica per cercare di fregare Grant Hart. Da questo punto di vista Zen Arcade racconta la storia di un gruppo diverso da quello che gli Husker Du, di fatto, sono stati. I pezzi di Mould ci metteranno poco ad arrivare: nel disco successivo inizia a spaccare tutto e non smette più.

Di Zen Arcade rimane il valore emotivo altissimo, la piacevole sensazione che quando lo citi tutti sanno di cosa stai parlando e qualche momento autobiografico. Ho ascoltato Broken Home Broken Heart a tutto volume in cuffia la notte che mio babbo e mia mamma si son separati. Sono stato forse sorpreso da un vicino che bussava infuriato alla mia finestra per farmi abbassare i volumi a fare air guitar durante Turn on the News. Ho ascoltato circa cinquanta volte Chartered Trips in un singolo viaggio in macchina diretto manco più mi ricordo dove, a vedere manco più mi ricordo chi, in culo all’Emilia. Ho ritrovato il primo nastro di Zen Arcade che mi era stato passato, in un cartone pieno di fumetti, sopravvissuto ad una purga di centinaia di cassette buttate nell’immondizia da mia mamma un giorno che la camera si stava riempiendo troppo di CD. Matteo mi ha doppiato il primo CD nel 2002, più o meno. L’ho ricomprato un paio d’anni dopo. Il vinile verso fine anni duemila.

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Double Nickels on the Dime invece è il miglior disco dei Minutemen e il miglior modo di raccontare i Minutemen. Non è il loro unico capolavoro, ma le altre opere del gruppo impallidiscono comunque. Double Nickels on the Dime  è il disco più bello di sempre: si compone di quarantasei canzoni cortissime e di una bellezza stravolgente, ancora oggi lontanissime da qualsiasi basica concezione di “rock’n’roll”, estremo o meno. è difficile persino immaginare cosa sarebbe stato della band se avesse proseguito l’attività per dieci anni: forse ne avremmo conosciuto un lato più pacificato e meno politico, una specie di Project:Mersh meno scientista, davvero difficile a dirsi.

Zen Arcade viene tenuto in caldo per uscire lo stesso giorno di Double Nickels on the Dime. Lo sforzo produttivo di SST è notevole. Le cinquemila copie stampate per eccesso di cautela si esauriscono in pochi giorni, col gruppo furioso infilato in un tour massacrante per promuovere un disco che è sparito dai negozi per mesi. Da lì in poi tra SST e gli Husker Du è guerra aperta: impongono Spot alla produzione di New Day Rising, iniziano questioni legate al pagamento delle royalty. Alla fine dell’anno Zen Arcade campeggia in cima alle playlist dei giornali rispettabili, le vendite danneggiate irreparabilmente dall’esaurirsi della prima stampa.

“Our band could be your life”

Nel sistema culturale che bazzico, è il verso più famoso di sempre; sta a metà di Double Nickels on the Dime, all’inizio di una canzone che si chiama History Lesson part III nomi veri ne siano prova. Io e Mike Watt abbiamo suonato per anni. Il punk rock ha cambiato la nostra vita. La canzone è scritta da Mike Watt e cantata da D.Boon. Io non so dire se il punk rock abbia cambiato la mia vita. Se c’è una persona che compatisco è quello che interviene a cazzo in una discussione dicendo “sai, io vengo dal punk”. Le stesse persone che erano ai concerti che “eravamo in venti”. Il punk è il più nutrito insieme di gente figa per autocertificazione con cui abbia mai avuto a che fare. Il punk è un luogo comune dove fanno aperitivo centinaia di migliaia di stronzi. Per come lo conosco io si compone al venti per cento da arrampicatori sociali in erba e all’ottanta per cento da un branco di rimastoni che non riusciranno a superarlo per il resto della vita. Da quel punto di vista non c’è molta differenza tra mettere in piedi la terza reunion del tuo gruppo crust o scrivere un pezzo di quindicimila battute che celebri il trentennale dei dischi che hanno segnato la tua vita. È la versione povera e triste del fan dei Led Zeppelin. Quando sono usciti quei dischi avevo sei anni, racconto la storia di qualcun altro come se fosse la mia. C’era una cosa del punk di quegli anni che ha segnato un passo in avanti, però: un acronimo di tre lettere che in italiano si traduce come faidatè. Significa che ci sono le condizioni per fare qualsiasi cosa tu voglia fare a costo zero o quasi-zero, e che se non ci sono le condizioni puoi inventartene una nuova versione. I Minutemen volevano suonare la loro musica. Per continuare a farla l’hanno rimpicciolita fino a renderla tascabile: canzoni di un minuto e mezzo, registrazioni a poco prezzo, pochi video, strumentazione ridotta all’osso, spese contenute, centinaia di concerti. Hanno rimpicciolito la musica in maniera testarda fino al punto in cui era possibile portarla ovunque. Era una scelta politica. Per imporla e farla diventare un modello sostenibile servono due cose: un’etica del lavoro mostruosa e una musica eccezionale. I Minutemen ce le avevano tutte e due: hanno spinto come pazzi per un lustro, erano soddisfatti dei risultati, continuavano a suonare e a crescere, un concerto alla volta. Si sono presi un solo momento di pausa per celebrare la loro storia: sta esattamente a metà del loro disco migliore, due minuti scarsi di musica. Son passati vent’anni e tremila passaggi dalla prima volta che l’ho sentita: ancora singhiozzo come un bambino.

Gli Husker Du hanno intuito un’occasione minuscola, la possibilità di mollare il punk e diventare qualcosa d’altro. Ci si sono tuffati di testa e hanno iniziato a spingere come dei pazzi, finchè quella cosa ha iniziato ad ingrandirsi per conto suo. Nel giro di tre anni da Zen Arcade hanno continuato a scrivere incessantemente, incrementato il loro pubblico a dismisura, lanciato un genere musicale a sé stante, sciolto la partnership con SST e firmato con una major. Primo gruppo punk-hardcore a farlo. Nessuna esperienza pregressa né errori da cui imparare: il rapporto di amicizia con SST era andato a puttane da un pezzo, il gruppo decise di accettare l’offerta di Warner limitandosi a spuntare l’unica condizione a cui erano interessati: controllo artistico totale, nessuna interferenza dell’etichetta sulla musica. Fu una specie di sfida: il gruppo ne uscì sconfitto. Nel 1987 stavano ancora pigiando sull’acceleratore, un altro album doppio, il miglior disco di sempre, suonato da cima a fondo in un tour massacrante che puzzava di storia già finita; lo scioglimento di lì a poco, mangiati da una convivenza forzata ormai inaccettabile. Forse volevano cambiare le cose, forse ce l’hanno fatta davvero: cinque anni dopo quella stessa musica è esplosa in giro per il mondo. Gli Husker Du non si sono mai riformati. Bob Mould e Grant Hart sono saliti insieme su un palco una sola volta, a una serata di beneficienza. Hanno continuato a fare musica bella e onesta per tutta la loro vita, che non è mai (mai) arrivata vicina alla bellezza di quella degli Husker Du. Non si sopportavano ma erano nati per suonare assieme.

Nel dicembre del 1985 Dennes Dale Boon muore in un incidente automobilistico. Mike Watt cade in depressione e decide di smettere con la musica; viene riportato sul palco a calci in culo da un ragazzetto dell’Ohio, tale Ed Crawford, che si presenta a casa sua e lo supplica di formare un nuovo gruppo offrendosi come chitarrista. Da lì nascono i fIREHOSE. Un’altra storia, non diversissima. Meno importante. I superstiti di quell’epoca se ne stanno in giro a fare le loro cose. George Hurley ha suonato con fIREHOSE e Red Krayola, Greg Norton ha aperto e chiuso un ristorante. Bob Mould, Grant Hart e Mike Watt suonano ancora a testa bassa. Mike Watt ha continuato a dedicare a D.Boon ogni cosa che ha fatto in vita.

Non sono mai riuscito a formulare un pensiero coerente su Zen Arcade, non ci riuscirò ora. Per Double Nickels on the Dime mi è più facile: potrei vivere il resto della vita chiuso in una stanza senza finestre e non avere bisogno d’altro. Letteralmente. Dentro Double Nickels on the Dime c’è tutto quel che serve a rendere una vita sopportabile; di più, sensata, appagante, degna di essere vissuta. È talmente grande la portata di quel disco da travalicare il concetto stesso di tempo; roba scritta e registrata trent’anni fa ma valida ieri, dopodomani, sempre. La vita vera senza i momenti morti e le parti sgradevoli. O meglio, coi momenti morti e le parti sgradevoli purgati dalla merda e trasformati sempre in qualcosa di costruttivo, formativo, giusto. Un esercizio di autodeterminazione tra i più efficaci che conosca; piegare la realtà verso il buono, il corretto, l’eticamente sostenibile, anche quando la vita stessa sembra stare sfuggendo dalle mani, quando l’elemento inaspettato esplode e deraglia e vira verso territori avvilenti, deprimenti, schiaccianti; riuscire a uscire da scenari che sono la morte di ogni immaginazione con la sola forza di strumenti amplificati e corde vocali collegate a una mente funzionante. PMA allo stato puro, al livello successivo, declinata molto più e molto meglio degli stessi Bad Brains. Un corso accelerato, senza data di scadenza, su come stare al mondo correttamente. Un miracolo. Chiunque sia vivo dovrebbe tenere in casa questo disco.

Non è il mio preferito degli Husker Du Zen Arcade, ma sarebbe come dire che la Cappella Sistina non è il mio preferito dei soffitti dipinti, di questo sono pienamente consapevole. Resta in tutti i casi una vertigine, qualcosa di impossibile da trasmettere se non attraverso uno stereo e due orecchie sane. La chitarra suona come se al posto del plettro avessero usato una grattugia, o un pugno di chiodi, o una palla di cartavetrata; in tutti i casi qualcosa di corrosivo, abrasivo e contundente. Delle due voci, una è trasfigurata, deforme, incattivita da frustrazione e repressione in dosi da uccidere un elefante, il ruggito disperato e tristissimo di un orso preso a pallettoni; l’altra sovreccitata da troppa cocaina di pessima qualità salita male, la mente che gira a mille e gira a vuoto. Insieme, la dicotomia più inquietante, chimicamente alterata e perturbante mai intercettata. Ci si perde dentro Zen Arcade come ci si perde tra le pagine di un libro che non smette mai di venire riscritto, nel mezzo i rumori della vita che scorre. Tutto il resto è meccanica.

Quando dico “il disco più bello di sempre” non mento mai, però in realtà il disco più bello di sempre è più di uno. In un solo caso il disco più bello di sempre erano due dischi diversi di due gruppi diversi, usciti lo stesso giorno. A luglio fanno trent’anni esatti. Non so dire che giorno di preciso.

ARIVEDERCI ITALIA VAFANGULO

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Arivederci Italiani, vafangulo!, mi gridarono dei ragazzini turchi sulla Reeperbahn, ad Amburgo, nel 2003, Ero da quelle parti per assistere a un festival, che aveva in cartellone roba come gli Electric Six, i Polyphonic Spree, Damien Rice voce e chitarra tranquillone alle undici di mattina (otto spettatori presenti) e i Paradise Lost nella loro fase new romantic. Poi il tempo è passato, i ragazzi sono cresciuti, Damien Rice non ha combinato un cazzo e la Nazionale di calcio ancora meno: fuori dal mondiale!, fuori al primo turno!, e non è manco la prima stracazzo di volta, era già successo nel 2010, quindi tornando a quel giorno del 2003, pensavamo di aver visto tutto contro la Corea del Sud l’anno prima, e non avevamo ancora visto niente. Che importa che ne abbiamo vinto uno nel 2006, dal carro dei vincitori si scende ancor più in fretta di quanto rapidamente ci si sale, e poi lo abbiamo vinto male, Italiani fascisti berlusconiani renziani, truffatori di piccolo calibro, delinquenza comune che alzando la coppa in faccia ai francesi si beccò dei VAFANGULO ancor più sonori, mentre quel cazzone di Zidane ebbe una medaglia d’argento, un film dedicato, e un disco suonato dai Mogwai. Chi suonerebbe oggi la colonna sonora di un film tipo su una delle nostre star al contrario, sarebbe banale dire su Balotelli, perciò diciamo su Balotelli, come sarebbe poi questo film di Balotelli, un fermo immagine col protagonista a cui ogni tanto rode il culo e perciò delinque, UNO SPACCATO DEL PAESE, con uno straziante stornello in sottofondo, e statuine del presepe napoletano, e i film di Sorrentino, e la notte che Pinelli.

L’Italia è questa, un anarchico che vola dalla finestra e quarant’anni di dotti articoli di intellettuali minuscoli che si leggono a vicenda, quando si leggono, non arrivando neanche di striscio a intaccare la coscienza di un popolo che vota Renzusconi, proprio come me, e che proprio come me si aspetta l’intervento del Magical Negro a svoltare la situazione una volta ogni quattro anni  – dico Magical Negro non con il razzismo che mi contraddistingue, ma prendendo il concetto da un saggio antropologico sul cinema americano, perché sì, ogni tanto leggo queste cose, non tanto perché mi interessi il cinema americano, piuttosto perché ogni tanto mi prende il mostro di essere italiano e quindi MI DOCUMENTO (così, in generale). In pratica dice questa teoria che, nei film americani, a un certo punto arriva l’afroamericano che fa svoltare la situazione. Tipo in Shining. Poi non lo so se è vero, non ho visto altri film, ho visto solo che Prandelli ieri il Magical Negro lo ha tolto a metà partita, e il Magical Parolo ha funzionato al contrario.

Comprai una bandiera gigante dell’Uruguay, nel 1990, a Piazza San Cosimato a Roma dove, come ho già raccontato, io e gli altri ragazzinacci di strada simulavamo i mondiali di calcio all’epoca in corso nei nostri stadi vuoti. C’era un cartolaio in BOTTA mondiali che vendeva le bandiere di tutte le nazionali qualificate, io ero della Lazio e amavo la sua stella uruguayana Ruben Sosa, perciò presi quella. A proposito, in quegli anni, per almeno tre volte, qualcuno fraintese il mio cognome in SOSA (accadeva, credo, perché il mio cognome è piuttosto simile, e perché i romani sono da sempre ossessionati dal calcio locale e vi riconducono ogni cosa  – ogni sosa). Il primo giorno di scuola media fecero in cortile un appello generale delle varie classi, e quando chiamarono me, qualcuno commentò con odio: “SCE STA PURE SOSA”. La mia terza, dura esperienza di vita con l’Uruguay è che, sempre nel 1990, partecipai a un concorso del Guerin Sportivo che metteva in palio “La maglia della nazionale dei mondiali che preferisci”. Con sconcerto del Guerin Sportivo, fui tra i vincitori, e chiesi come premio una maglia dell’Uruguay. Immagino oggi, col senno di poi, le facce di una redazione che aveva progettato sto concorso e messo in palio, in realtà, 200 maglie dell’Italia, un paio del Brasile e forse della Germania, al ricevere la richiesta di un bambino di nome SOSA che voleva quella dell’Uruguay. Mi mandarono una maglia della Nazionale italiana, e quella fu la prima volta che me la presi nder culo, l’ultima ieri, e ancora chissà quante nel mio futuro.

Balotelli, Prandelli, perché ci volete male? Perché minate nel profondo la nostra umanità, inchiodandola alla croce tricolore che a tratti, spettri senza sepoltura, ci illudiamo di non portare più sulle spalle? Arivederci, Italia, vafangulo: gli insulti sulla Reeperbahn sono soprattutto colpa vostra.

PS: Nella notte, l’Ellade degli Uomini Liberi ha riportato un po’ di ragione in questo mondiale fin qui dominato dagli esotismi. Gli Stati Uniti sono ancora in gioco. Gli uomini veri sono ancora in piedi, a dare un po’ di speranza alle nostre aspettative tradite dai fichetti di Prandelli.

 

MIO NONNO, come la canzone.

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Mio nonno, che è una persona estremamente colta ed estremamente prolissa, ha sempre avuto un debole per i monologhi, in special modo i suoi. Questo non significa che non s’interessi ai fatti miei, quella manciata di volte all’anno in cui ci vediamo; al contrario, è un buon ascoltatore e ci tiene che lo tenga informato su ciò che combino, perché mi vuole bene e perché poi così ha l’occasione di rifilarmi un pippone affettuoso ma molto molto serio di quaranta minuti in merito. Con i pipponi non vado molto d’accordo per svariati motivi, il principale è probabilmente la mia profonda intolleranza nei confronti delle persone colte che la propria cultura la gestiscono come Sorrentino gestisce i suoi piani sequenza, e cioè con quella placida convinzione che sia indispensabile illustrarti con lentezza esasperante concetti che più o meno tu già conosci, o che magari vorresti pure che ti spiegassero ma possibilmente con un po’ più di spinta, o dei quali in fin dei conti sticazzi. Il caso di mio nonno è un po’ complesso, per ragioni scontate: è mio nonno, quindi gli voglio un bene cane, ed è anziano, entrambi fattori che un po’ mi fanno sentire in colpa per starlo infilando in un pezzo dove parlo di qualcosa che non sia il bene cane che gli voglio. L’affetto e la senilità mettono spesso un freno allo snervo che altrimenti strariperebbe a fiotti, ma al di là di quello; arrivi a un punto in cui i pipponi culturali seppur sangue-del-tuo sangue non riesci a sostenerli più, quindi decidi che se proprio hai voglia di sciropparti quindicimila parole su qualsiasi cosa ti fai un giro in qualsiasi buco dell’internet, dal quale puoi prenderti pause per andare a pisciare o farti un panino o semplicemente passare ad altro senza timore di ferire i suoi sentimenti. Sfiga vuole che io abbia un problema consistente anche con il 75% degli articoli sull’internet (a meno che non incappi in un blog di moda, dove l’ossessa di turno ha troppo da fare a spiegarmi la differenza tra blu marino e blu oltremare per star dietro anche all’ironia), 58% dei quali di musica, figli di un sarcasmo trasandatamente colto/studiosamente disinteressato che sembra troneggiare lì in mezzo per farmi un favore. Penso di voler leggere un articolo su un disco che mi piace scritto da qualcuno a cui piace, mentre quello che in realtà voglio è leggere un articolo su un disco che mi piace scritto da qualcuno a cui piace-ish il quale ci ironizzerà fino al punto in cui, a fine pezzo, mi sentirò intimamente stupido per aver banalmente apprezzato il tal disco senza coinvolgere provocazioni scelte tirando a sorte. Dai, vaffanculo. Due weekend fa stavo sputando sangue discutendo con un amico su quanto poco invidio chi sente il bisogno nevrotico di imbottire i propri articoli ironici con almeno MILLE nomi, robe tipo produttori discografici che vent’anni fa produssero un disco che non è quello di cui si parla nell’articolo però hanno in comune un quarto di secondo del riff di una ghost track dimenticata dal cristo, dal gruppo e dal cazzo di produttore discografico. Tanto più che dietro questi pezzi ci sono quasi sempre under-trenta intellettualmente iperventilati, quindi insomma ragazzini della mia risma con questo pallino della mordacità a busso dalla quale ero (e a tratti sono) affascinata anch’io, ma che a una certa diventa semplicemente troppo. La risposta del mio amico è stata “ragionassero tutti come te il giornalismo musicale sarebbe un concentrato di timoroso piattume e umiltà da tavolino”, e la mia risposta alla sua risposta è stata “ma magari”. Non dicevo sul serio, ma il mio punto è che la cultura non è bella se non è litigarella (mioddio), ossia non è che bisogna cedervi sempre con quell’aria da martire del sapere col sorrisetto sghembo, che insomma personalmente non mi offendo se ogni tanto qualcuno recensisce un disco parlando esclusivamente di quanto sia bello/brutto e fermandosi lì. Non lo trovo noioso, non mi sento tradita nel profondo dell’humour, penso di potercela perfettamente fare. Ed è stato a quel punto, mentre mi accorgevo di essermi giocata un free drink e il mio amico iniziava a dire “s’è fatta una certa”, che mi è venuto in mente miononno coi suoi pipponi. Mi è venuta in mente mia madre che alla domanda “perché (cazzo) il nonno parla con tutta questa flemma?” mi rispose che ci sono sempre meno persone che riflettono non solo prima di iniziare un discorso ma anche durante lo stesso, e lui è una di quelle. Mi è tornato in mente che mio nonno è, al di là di tutto, un tipo molto simpatico. La morale di questa favola non esiste, e se esistesse non sarebbe certo “bisognerebbe scrivere di musica come ne scriverebbe un novantenne sordo per tre quarti”; è solo che la serietà è sempre meno cool e trovo che non sia giusto, mica perché non mi piaccia ridere, ma piuttosto perché il modo che ha l’ironia di mettere tutto in prospettiva mi puzza molto a baro, mi sa di scorciatoia culopesa come se parlare di musica con trasporto significasse concedersi troppo. E invece per me concedersi parlando e leggendo di musica è forse la parte migliore. Coi pipponi di mio nonno a volte faccio ancora fatica e alle sue lettere non è che ci stia sempre dietro, ma se non altro ho imparato a dare importanza ai suoi tempi. Ogni tanto a caso mi butta lì battute molto spiritose, ed è in quei momenti che la contentezza di sé e del proprio sapere si rivela sana, allegra, portandoti ad apprezzarla senza problemi.

N O I S E

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Una cosa che faccio spesso per capire che aria tira in merito a un certo argomento è cercare concetti aperti e generalissimi su google immagini. Se cerchi BAND PHOTO su google immagini viene fuori un’estetica molto precisa. Sono immagini divise 50 e 50 tra bianco e nero tiratissimo e iperrealismo digitale. Tutte le foto in cima sembrano essere scattate allo scopo di suscitare un’idea precisa legata al rock’n’roll così com’è supposto essere. Da qualche anno sulle riviste di musica pesante è sostanzialmente impossibile distinguere un gruppo dall’altro: quasi tutti incazzati e vestiti di scuro sotto un cielo plumbeo. È l’esatto opposto di quello che si supporrebbe essere la naturalità della musica. La maggior parte delle foto di gruppi rock pesanti mi suggerisce l’idea che i musicisti stiano affrontando conflitti interni tutt’altro che pesanti e appena troveranno da scopare passeranno al twee-pop. Non so dire, onestamente, se l’estetica dei gruppi sia mai stata diversa. Negli anni ottanta c’erano completi di pelle tirati a lucido, negli anni novanta c’erano foto sgranate o polo Fred Perry e tute Adidas. Suppongo che a un certo livello di inserimento nel sistema –contratto major, trecento paganti a data, due canzoni conosciute da qualcuno- nessuno abbia più interesse a sembrare un idiota. Non lo so.

Esiste una teoria che identifica i dischi che ti hanno cambiato la vita nella misura in cui riesci a ricordare precisamente dove fossi e cosa stessi facendo nel momento in cui ci sei entrato in contatto, a isolare quel momento cristallizzandolo nel tempo. Prendendo per buona questa teoria, la mia vita è cambiata per sempre quando ho appoggiato nel cassettino del lettore un CD comprato a caso quello stesso pomeriggio, pescando tra gli usati del “Disco D’Oro”, attirato dalla copertina (ricordo pure il prezzo: 6.500 lire), e ho premuto il tasto play. Il disco si chiama Into the Vortex, il gruppo Hammerhead. L’etichetta Amphetamine Reptile, ed è il nome, quel nome, ad aver fatto scattare la scintilla; a rimbalzarmi in testa all’istante confuse immagini di qualcosa di strisciante, anfibio, minaccioso e letale, che mi attraeva a sé come un magnete le scorie di metallo. La mia mente era una tavoletta d’argilla che aspettava soltanto di essere plasmata. Avevo dodici anni.
È stato il pacchetto completo (musica, immagini, tutto) a farmi esplodere il cervello. Non avevo mai sentito roba del genere. Che esistesse da qualche parte qualcosa chiamato noise rock ne ero solo vagamente a conoscenza: avevo visto i manifesti di un concerto dei Cop Shoot Cop in centro ma a parte il nome pittoresco non mi era rimasto altro; su Videomusic passavano un video degli HELMET, ma mi rompeva i coglioni (era appena uscito Betty, il loro disco più tranquillo – non considero la merda buttata fuori dal 2004 in poi. Avrei comunque cambiato idea molto presto. Come si cambia per non morire, eccetera). Ascoltavo metal ma non avevo mai trovato qualcosa di altrettanto ostile, deragliato e pesante. Ascoltavo hardcore (erano gli anni dell’ondata newyorkese, roba sul bullistico-prevaricatore che piaceva ai rissaioli del campetto, i dischi mazzate da venti minuti a botta e bella lì; il punk per me erano i Green Day, ciarpame farsesco) ma non avevo mai trovato qualcosa di altrettanto violento, incarognito, preso male. Ascoltavo il Deejay Time e certo lì non c’era un cazzo di anche solo lontanamente paragonabile. I miei orizzonti erano alquanto limitati allora, è vero; ma anche adesso, vent’anni più tardi, non saprei indicare qualcosa che suoni come gli Hammerhead, a parte gli Hammerhead. I dischi Amphetamine Reptile sono tutti così. Ognuno un’isola a sé stante con barricate alte fino al cielo. Immediatamente riconoscibili e alieni a qualsiasi altro genere e suono. Inimitabili, irripetuti. Decisi all’istante che quella roba faceva al caso mio. Da allora in poi avrei comprato a prescindere qualsiasi disco portasse il logo N O I S E stampato da qualche parte nel retrocopertina. Inutile rievocare adesso quanto fosse difficile procurarseli allora, i dischi. Era un altro mondo. Cataloghi per corrispondenza e fanzine (ma solo quelle particolarmente illuminate) i soli canali di informazione, il costo oggi semplicemente impensabile dei CD (i vinili in compenso te li tiravano dietro ma erano scomodi e ingombranti, non entravano nel Discman, non ci potevi girare) e le conseguenti, logoranti attese nella speranza che qualche imbecille se ne disfacesse per poterli finalmente ricomprare, usati, a un prezzo sostenibile per un regazzino con le tasche sempre vuote. Pazienza e perseveranza in dosi da elefante erano i requisiti indispensabili per mantenere vivo questo fuoco. Sarei stato ampiamente ripagato. A ogni nuovo incontro, a ogni nuova acquisizione, quali visioni, quante emanazioni da un altro spaziotempo. Ogni volta la magia si ripeteva inalterata. Una certezza, come il giorno di natale il 25 dicembre. Mai più stato altrettanto felice di perdere all’istante tutti i punti di riferimento conosciuti. Erano autentici bombardamenti psichici quelli a cui periodicamente mi sottoponevo. Storie di ricerche snervanti e attese esasperanti che culminavano in rivelazioni dalla portata al cui confronto i Vangeli erano cacchette di mosca. Come rendere a parole la virulenza del primo contatto con Psychedelicatessen dei Lubricated Goat? Come raccontare a chi non ne abbia avuto a sua volta esperienza diretta la portata dei dischi dei Cows (tutti, dal primo all’ultimo)? Come spiegare la devastazione emotiva, lo stato di prostrazione totale dopo il primo (e il secondo, e il trecentesimo) ascolto di Willpower dei Today Is The Day? Impossibile, pure per William Burroughs se fosse ancora al mondo. E lo stupore e il disorientamento erano gli stessi sempre, tanto che la lista dovrebbe andare avanti fino a includere dal primo all’ultimo titolo in catalogo, ognuno un varco dimensionale che lasciava intravedere scenari inauditi, irraccontabili; a prescindere dagli autori, fossero i Melvins come gli HELMET come i Cosmic Psychos come i Janitor Joe, nomi già minacciosi e deraglianti a un livello puramente fonetico. Roba che faceva credere davvero che qualsiasi altra musica registrata con gli strumenti amplificati fosse alla fine poco meno di un passatempo per capistazione.

Esisteva un’estetica che accomunava tutti i gruppi Amphetamine Reptile, rendendoli coesi, idealmente membri della stessa famiglia: le copertine, vignette autistiche da fumetto drogato o layout asettico che nasconde sempre almeno un dettaglio disturbante, libretto di due pagine con dentro solo un recapito e una foto del gruppo, tutti i componenti col cappellino, calzoni corti e magliette tinta unita, che ti guardano male, foto in bianco e nero sgranatissima e nient’altro, niente testi mai. Il grafico era sempre lo stesso, accidentalmente anche il proprietario-factotum dell’etichetta nonché membro fondatore degli Halo of Flies (mai un abum, solo singoli), un ex marine di nome Tom Hazelmyer. Ai miei occhi, creatore di universi.

Tom Hazelmyer non ha studi di design alle spalle. Il fatto che non conosca gente che possa disegnargli le copertine dei dischi lo obbliga ad imparare; pesca idee più o meno ovunque gli capiti, dai cartelloni pubblicitari dozzinali ai più celebri designer legati al punk, e tira fuori un’estetica inconsapevole votata ad un iperrealismo rock’n’roll che non ha quasi termini di paragone. Il piglio artistico delle foto di Charles Peterson che stanno nei dischi Sub Pop è lontano centinaia di chilometri. A riguardare oggi quelle copertine si viene ancora sbattuti di peso in un’epoca nella quale il grado di finzione all’interno del rock’n’roll era praticamente zero.

Solo una volta sono rimasto deluso: Yeah, Me Too dei Gaunt, l’anno era forse il 1996, poppettino-punkettino all’acqua di rose, giusto quel minimo meno conciliante degli umilianti standard dell’epoca, comunque offensivo quanto un bicchier d’acqua. Mai capito perché fosse uscito su AmRep, mai rappresentato un problema comunque: non c’è luce senza ombre, e una singola ombra sposta di niente il quadro generale.

Di una cosa sono assolutamente certo: i gruppi di bianchi che hanno capito il blues li puoi contare sulle dita di una mano. Ne avanza pure qualcuna. La lista è brevissima: ZZ Top, Rollins Band, UNSANE. Gli UNSANE stavano su Amphetamine Reptile e i loro dischi (fino a Occupational Hazard perlomeno) restano la cosa più sporca e violenta si possa concepire. BLUES. Asfalto e grattacieli al posto di paludi e baracche, Chris Spencer l’equivalente morale di Mississippi Quell’Altro o Blind Pinco Palla. I dischi una ricognizione nei bassifondi più fetidi della Grande Mela Marcia, un microcosmo parallelo dove i cinema proiettano solo horroracci con sangue a ettolitri e per le strade ci si spacca le ossa. Il suono della sopraffazione, con più eroina che sangue a scorrere nelle vene. Forse il gruppo che più di ogni altro ha incarnato il dolore fisico in tutta la scuderia AmRep; di sicuro quello che ha lasciato gli sfregi più profondi.

A un certo punto i dischi Amphetamine Reptile semplicemente hanno smesso di uscire. Nessuna dichiarazione al proposito, nessun commento. Solo silenzio. Era la fine degli anni novanta, la fine di un’era. L’immensità del vuoto che quell’assenza, improvvisa, brutale, aveva creato si è insinuata lentamente in me. A un tratto niente più AmRep, fine della storia. Il mondo sembrava non avere fatto una piega, ma per me era come per un tossico vedersi privato del metadone senza motivo dall’oggi al domani. Sul momento non te ne accorgi, è sulla lunga distanza che gli effetti si rivelano devastanti. Mai più sono riuscito a trovare roba del genere.

Da qualche anno risorge periodicamente dalle sue ceneri AmRep, come un’araba fenice con le sinapsi in disordine, farcita di bile e allucinogeni di dubbia provenienza. Ogni tanto esce qualcosa, roba puramente autocelebrativa in edizione limitata numerata venduta direttamente dal sito Internet, a volte ripescaggi dai soliti sospetti, vinili curatissimi, graficamente ineccepibili, niente da dire. Solo che è l’esatto opposto dei CD con libretto di due pagine in bianco e nero che pubblicavano regolarmente una volta. Questo non mi interessa.

Quello di questa settimana è una sorta di tributo. Parliamo di una musica che c’interessa, prendendo spunto da tre o quattro cose successe in questo periodo, da qui a fine settimana. Ci dividiamo tra recuperi e nuova roba, proviamo a rintracciare l’estetica di AmRep in giro per gli anni che vanno dalla fine di AmRep ad oggi. Una specie di esperimento. buona lettura.

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MC + FF

Le facce delle trecento persone che ti comprano il disco

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Il titolo è bello e stupido come mia cugina: DORMI O MORDI. Nella grafica della copertina la O scompare e rimane DORMI MORDI e mi viene in mente il mio amico Renda e la sua maglietta con scritto MADRE DERMA DREAM MERDA e mi ricordo che erano cinque, ce n’era un’altra, ma adesso non mi viene in mente.

La prima volta che ho sentito nominare Babalot è stato quando sono usciti i Cani e tutti parlavano dei Cani e mio cugino paolaki mi ha detto Sì carini però Babalot era meglio. I dischi di Babalot sono facili da trovare su internet e ci ho messo davvero poco a innamorarmi della canzone della lavatrice e del muro, quella che dice

esiste o non esiste niente

possibilmente riposante

per vivere felicemente

che non sia fare il cantante?

 

Le altre canzoni non sono bella come questa, ma suppongo che molti altri miei pezzi scritti su internet siano più belli di questo. Le due canzoni nuove di Babalot si possono scaricare e in una c’è la pioggia e le margherite, che se al posto delle margherite ci metti le gerbere è un attimo tornare al 2011.

 

Non chiedo aiuto né compassione

non sono uno di quelli che sta sempre male

a volte mi godo un po’ la depressione

come il pipistrello quando sorge il sole.

 

Babalotto suona da sedici anni e per fare uscire 300 copie del suo quarto disco ha bisogno, in soldoni, che 300 persone gli garantiscano in anticipo che lo pagheranno 10 euro, o 400 persone a 8 euro, o 3mila a un euro, o una qualsiasi delle combinazioni possibili per arrivare a 3mila euro per produrre, stampare e far circolare 300 pezzi di un prodotto che in questo caso è un disco di cantautorato indipendente, ma potrebbe tranquillamente essere un libro, un fumetto, una maglietta, o un libro con in omaggio un disco avvolto dentro una maglietta. Sembra che fare un disco costi di più che scrivere un libro, ma non sono sicuro. Ci sono ore in cui sto davanti allo schermo senza battere un tasto ed è difficile in quei momenti convincere mia moglie che sto lavorando, diceva Dave Eggers, se era Dave Eggers.

 

I nostri prodotti artistici, e quando dico nostri intendo di noialtri che se vendiamo 300 pezzi siamo contenti, e quando dico artistici intendo non sempre di buon livello artistico, generalmente li valutiamo 10 euro al pezzo, e se ne vendiamo 300 siamo contenti. Fino a mille pezzi credo che si possa fare tutto da soli. Io con i libri l’ho fatto due volte e ci ho pagato l’affitto due anni. Il disco che ho fatto qua in Spagna lo vendiamo per strada a 8 euro e quello che fisicamente masterizza e impacchetta i dischi sono io. Non arriverà mai secondo me il giorno in cui venderò talmente tanti dischi o libri o magliette da non potere più gestire la cosa, gestire quantitativamente, intendo. Non ho un altro lavoro. Gli scrittori più bravi di me, i musicisti più bravi di me, hanno semplicemente più lavoro di me, quindi a un certo punto hanno bisogno di un tizio che glielo smaltisca. Come i rifiuti. È una questione di quantità? Certo che no, è una questione di qualità. Ma davvero? Non lo so. Io non mi credo più bravo della media degli scrittori che leggo o dei musicisti che ascolto, spesso sono calante e faccio fatica a tenere il filo dei pensieri, ma di sicuro ho amici che scrivono e fanno dei dischi e io ogni volta che esce un pezzo nuovo di questi miei amici benedetti dal talento ho un tuffo al cuore e davvero non c’è più differenza tra chi l’amore lo fa per noia e chi se lo sceglie per professione: da fruitore ho la stessa possibilità di accesso a Babalot e a Ligabue (ho appena visto che Brunori suonerà negli stadi prima di Ligabue e mi è venuto in mente il pezzo che ha scritto l’altro giorno Giancarlo Frigieri su Rigo, il bassista di Ligabue, ma non devo pensare a questa cosa come una cosa che finirà su internet, non adesso, dobbiamo prima cercare di arrivare da qualche parte) e le canzoni brutte è sufficiente non ascoltarle, i libri brutti basta non leggerli: nonostante un vago ronzio di fondo viviamo in tempi lussuosi. Il fatto che io ogni tanto tiri fuori un prodotto grossomodo artistico e lo venda grossomodo a dieci euro non fa di me uno che necessariamente ti comprerà il disco, o il libro. Mi stai molto simpatico, ma non sei capace. Sei un mio amico e sei pure bravissimo. Mi stai sulle palle, ma non posso fare a meno di leggerti. Ti odio e sei scarso. Ah, quante combinazioni possibili. Non ci vuole una laurea in semiotica per capire che l’uomo e l’artista non sono la stessa persona, l’autore è un personaggio creato dal lettore e non è vero che mi viene voglia di diventare amico dei miei cantanti preferiti: se c’è stato uno stronzetto supponente su questo pianeta è stato Bob Dylan tra il ‘66 e il ‘69 e io basicamente non ascolto altro.

 

La soglia di sbarramento dei prodotti artistici è una soglia emotiva. Dieci euro è uno standard fissato dall’epoca aurea di Max Pezzali, in realtà lui parlava di diecimila lire ma l’inflazione, estate 1.9.9.2. anno dell’europa unita e delle mie delle tue sbracanze. Dieci euro è il prezzo di un disco al banchetto del gruppo, quindici euro è il prezzo del disco in un negozio -che per un disco che l’hai stampato e l’hai venduto al distributore e poi l’hai venduto al negoziante e il negoziante lo vende a te e ci paga l’IVA del 22% vuol dire che qualcuno stasera non mangia, sorry, e allora i dischi tanto vale non farli. Niente, dicevo, quindici euro è la cifra del negozio, venti euro è IL VINILE la cui rispettabilità è senz’altro in crescita e senz’altro migliore del CD ma a parte Atom Earth Mother chi se ne frega del vinile, io non solo non lo possiedo ma ho pure sbagliato apposta il titolo. Ho fatto un conto di quanto ho scritto negli ultimi cinque anni ed è saltato fuori due volte Infinite Jest, che secondo me è abbastanza intendo dire, o potrei sbagliare il conto perchè ho scritto troppo e trascurato l’aritmetica e ora a fare i conti sono una pippa. Poi ci sono le valutazioni economiche legate alle frequentazioni: questo video ha due milioni di click sul tubo e settantamila fan su tal network e quel cantante che dice che ho sei milioni di fan e nessuno che si sia degnato di comprare il mio libro. Quanto costa l’amore? Dieci euro fino a trecento copie, poi dicono che devi dare da mangiare a qualcuno e l’amore costa cinque euro in più e la tua fetta è la metà di prima. L’aritmetica forse in questo dice che se ne vendi milleduecento vai in pari con l’amore dei trecento. Però magari ti intervista su Repubblica. “Scandellara è la nostra Woodstock”, virgolettato inventato e via di fegato. Non vendi trecento copie per aumentare l’autostima, ne vendi trecento perchè non sei capace a venderne duemila e perchè boh. Però è un boh molto bello, strutturato, anni di lotta di classe, ecco.

Le facce delle trecento persone che ti comprano il disco mandandoti per posta un biglietto da diecimilalire nascosto nella carta stagnola sono più belle delle altre millesettecento che non hanno avuto lo sbattimento, ma a quel punto pure tua nonna che ti dà cinquanta euro diventano cinque libri in meno che devi preoccuparti di vendere: i soldi hanno questo potere omogeneizzante che non finirà mai di stupirmi, ma nel 2011 ogni tanto mi trovavo a pensare che tra i miei datori di lavoro del mese c’era una liceale punkabbestia di Teramo e mi prendevo un po’ male.

 

Sotto i dieci euro è implicito che stai dando via una parte del tuo guadagno perchè non sei sicuro di te, questo riguarda il libro la maglia e il disco indifferentemente. Otto euro per un disco sono dieci euro meno due euro di insicurezze. Cinque euro sono una pistola sulla testa e l’implicita ammissione che questa è l’ultima volta che ci provi. L’insicurezza si paga. Oppure puoi decidere di non ragionare secondo lo schemino e quello che costa il tuo prodotto è un margine standard. E poi cerchi di tener bassi i costi, che non ci guarda nessuno perchè la tentazione dello scrittore e del musicista è sempre quella di sniffare la Rolls Royce. Almeno credo. O perchè contenere i costi è una noia mortale e non vale la candela. E poi c’è sempre il discorso di chi ci guadagna dalla cosa che tu vorresti fare gratis. Io lo vorrei fare gratis, perchè tu non vuoi la roba che ti do quanto io voglio dartela. C’era un gruppo che pagava la gente che ascoltava il suo disco, ma se li paghi sei un situazionista o un figlio di papà o comunque uno che ha soldi da buttare e io vivo esattamente a metà tra non me ne frega un cazzo dei soldi e odiare chi li butta via. Bah, tutto finto e vuoto. Tanto vale che mi faccia una moralità caso per caso, voglio dire, è più semplice, ha senso, non costa soldi. Vorrei che nessuno pagasse la mia roba e non pagare la roba di nessuno. Magari lavorare nella farina e pagare il pane, ecco, quello mi sembra corretto.

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simone rossi e Francesco Farabegoli