Serena ha una chioma di capelli neri ricci e folti, si mette certe paia di Levi’s oversize che le finiscono sotto le Puma nere e ha i fili delle cuffie che s’intravedono a malapena sotto il mento, poco prima del parka scuro che porta come se fosse una seconda casa. La intravedo più o meno quotidianamente alla fermata dell’autobus mentre sto camminando verso la lezione del pomeriggio in facoltà. Qualche anno prima siamo finiti insieme, quelle storielle di bacini e abbraccini che possono capitarti in terza superiore con ragazze delle quali sai poco o niente e che -soprattutto- sanno poco o niente di te. Il sesso è roba da film porno e pippe quotidiane. Lei le superiori le sta ancora finendo, io ho un anno di università sulle spalle. Ho un monte di teorie che mischiano un marxismo-leninismo calligrafico e soporifero di certi testi universitari alle tematiche global di cui mi documento a viva forza leggendo Internazionale. Sono pieno di stronzate, molte delle quali assorbite e rese innocue dal fatto che non parlo con nessuno. Sospetto che Serena non mi riconoscerebbe nemmeno se mi presentassi, fantastico perfino di finire in qualche occasione casuale nella quale le rivelo che anni prima ci eravamo amati teneramente, con lei che d’improvviso ricorda e sospira cose tipo “ma che ci è successo?”. A diciott’anni.
Una domenica sera la incontro in un locale. Lei è in giro con i suoi amici, io sono in giro con i miei. I miei sanno che abbiamo flirtato da giovani, in effetti a suo tempo non hanno mancato di prendermi per il culo. Serena è obesa. Le ragazze obese mi eccitano, ma i miei amici non hanno gli strumenti concettuali per capirlo. Tra i venti e i venticinque sei ancora in balia di quello che gli altri pensano di te. Ci incontriamo e parliamo. I suoi amici sghignazzano, i miei sghignazzano di più. Qualche mio amico tenta un approccio con qualche sua amica. Marco avrà persino successo, finirà assieme ad una di loro per un paio di settimane (finire assieme uguale limonare, questa non è New York). Serena mi chiede come mai passo davanti alla fermata del tram tutti i giorni e la guardo senza andare a salutarla. Mi sento un cretino, chiacchieriamo. Ho un fidanzato, dice lei. Io non ho nessuno, dico. La sua non è una storia seria, la mia sì. Forse ci sta provando un po’, forse sono solo io a voler pensare che ci provi. Il locale in cui siamo brilla di luci artificiali riflesse sulle camicie bianche degli avventori in cerca di un pezzo di figa, e dei capelli troppo stirati di certi pezzi di figa in cerca di camicie bianche a cui non darla. Ho bevuto troppo, come ogni sera che non passo in casa. Probabilmente indosso una felpa nera col cappuccio e un paio di jeans bucherellati che sembrano raccontare la storia di uno skater valoroso che non ha paura di cadere e rialzarsi. L’ultima volta che sono salito su uno skateboard è stato in terza media, e non sono mai andato oltre la prima sbucciatura. Serena mi rivela di essere passata all’accacì, ascolta roba Fat Wreck e qualche disco vecchio stile Bad Religion. Odio i Bad Religion e non riesco a non dirglielo. Abbozza. Le prometto di passare a salutarla la prossima volta che la vedo alla fermata dell’autobus. Qualche giorno dopo dopo passo davvero, ma lei sta limonando con qualcuno -probabilmente il suo fidanzato non-troppo-serio. Li vedo in lontananza e passo oltre. Io sto ascoltando sul walkman la cassetta di Undisputed Attitude che mi ha doppiato Alberto un paio di mesi prima. Alzo il volume ad un livello indecoroso e non spengo finchè non è ora di iniziare la lezione. Il walkman con cui vado in giro suona i nastri ad una velocità un po’ più alta di quanto non siano supposti girare in realtà: per i dischi rock è una cosa talmente figa che riascoltarli a velocità normale diventa praticamente impossibile. Due giorni dopo ripasso dalla fermata dell’autobus. Lei mi viene incontro, dice di avermi visto l’altro ieri, mi chiede scusa. Parliamo due minuti. Mi sorride, mi chiede cosa sto ascoltando. Un disco di cover accacì fatto dagli Slayer, le dico. Le passo le cuffie e le faccio ascoltare la cover di Guilty Of Being White. Non è molto il mio genere, risponde. Tra qualche giorno finirà il semestre. La rivedrò altre due volte: cinque anni dopo compro dischi in un centro commerciale e lei sta guardando nel reparto videogame con il suo fidanzato. Un paio d’anni dopo ancora, quasi la investo con l’auto mentre attraversa la strada vicino ad un semaforo in centro. Ha un paio di infradito, sembra incinta. Non sono il padre, e probabilmente Serena non è mai esistita. Il locale dove ci siamo incontrati è diventato un emporio di cibi e attrezzature per cani.
Questa sopra è l’unica cosa detta dallo zio Henry con la quale non sono d’accordo -eccezion fatta forse per la tirata sulla musica elettronica. La storia degli Slayer è la più bella storia metal della storia, in parte perchè la loro musica è la miglior musica mai scritta e suonata e in parte perchè Kerry King e Jeff Hanneman sono dei campioni olimpici di sbrocco. I dischi brutti degli Slayer, tipo Christ Illusion e World Painted Blood, sono “semplici” amarcord di potenza devastante. I dischi belli degli Slayer li abbiamo ascoltati così tanto che la voce di Tom Araya ci è più familiare di quella della mamma.
I gruppi rock sono come le ragazze. Di alcuni ti invaghisci, di altri ti innamori. Alcune sono storie intense che si bruciano in una notte, altre sono successe solo nella tua testa. Solo una manciata diventano compagni sicuri con cui passare degli anni, e ne puoi sposare uno soltanto. Il 6 giugno, come ogni anno, è eletto International Day of Slayer. Stavo dimenticandolo, Matteo me l’ha ricordato nell’agendina di concerti di questa settimana. Per me è un po’ come la festa di compleanno del mio migliore amico. Tutto ciò che ci è richiesto di fare domenica è di prendere in mano QUEI dischi, ripiazzarli nel lettore, alzare il volume e brindare alla salute di chi, come noi, ha sposato la loro musica. Per altri, semplicemente, “non è molto il mio genere”.
Ti piacciono le grassone!?
yep
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