L’agendina dei concerti Bologna e dintorni – 21-27 marzo 2011

 

al prossimo che sento cianciare a proposito della "dignità dei giapponesi" gli infilo questo vinile su per il culo.

È arrivata la primavera, come diceva anche Marina Rei. L’ex Fragilecontinuo festeggia da par suo con un concerto aperitivo di BeMyDelay + Rella the Woodcutter; oggi pomeriggio dalle 19, prima tutti ai Giardini a suonare le prime trombe della stagione. Martedì gran festa per gli amanti del thrash metal coi riffettini puliti a mitraglia e il giubbetto di jeans con la toppa dei Forbidden e tanti altri loghi improponibili, arrivano i lungocriniti Lazarus A.D. e i molesti latinos Bonded By Blood (originali fin dal nome) in data unica al Blogos (dalle 21.30 con Criminal Side e Injury di spalla; quindici euro). Mercoledì a MeryXM si parla di Frigidaire insieme  a Vincenzo Sparagna (non un coglione qualunque che ha scoperto il più grande giornale della storia dell’Umanità l’altroieri chissà come); imperdibile, dalle 20.30. Poi dopo c’è anche un concerto.
Giovedì il delirio: per i froci stilosi ci sono gli Stereo Total al TPO (dalle 22, non so il prezzo), per gli hipster senza una ragione ma col frangettone colorato gli Everything Everything (purtroppo niente a che vedere con gli Underworld a nessun titolo) al Covo (dalle 22, ingresso boh?), mentre per le teste metal che si sentono molto vikinghe o celtiche nell’animo la nuova edizione della Pagan Fest all’Estragon (dalle 18.30, venticinque euro, non entri se non indossi almeno un capo in pelliccia di vero animale morto possibilmente soffrendo, vegetariani e astemi fuori dal cazzo). Venerdì rispolverate il crocifisso della nonna e la tonaca stile “il nome della rosa” del carnevale scorso, al Locomotiv arrivano i Current 93 in data unica (dalle 22, ventitrè euro più tessera AICS, fondamentale una flebo di sali minerali da casa che probabilmente si evapora); poi un paio di cucchiaiate di horse power e via di nuovo in forma per Villalobos al Kindergarten (trentacinque euro). Sabato si festeggia il decennale dell’Atlantide con Raein, Sumo, Affranti e release party del nuovo D.U.N.E. (dalle 22.30, siateci che dice che l’anno prossimo la chiudono); domenica Glam Fest al Sottotetto coi mitologici Vain e tanti altri gruppi che farebbero diventare eterosessuale ingrifato anche Ratzinger.

Giovedì, venerdì e sabato al dalle 19 alle 3 (sabato fino alle 24 poi gran festone finale al Locomotiv a oltranza) si terrà la nona edizione di Homework Festival: programma da urlo, prezzi ultracontenuti (soltanto cinque euro la sera del venerdì e dieci per il closing party al Locomotiv), cucina tipica, stare bene. Spettacolare l’immagine scelta a rappresentare l’evento; è il panorama che vedo ogni volta che vado verso l’XM. Bella la città.

Rozzemilia issue #6: MAHATMA/MOTHER PROPAGANDA

(foto di Maria Ambra Silvi)

L’estate 2009, come del resto gran parte delle estati nei dieci anni precedenti, era cominciata anzitempo: già a metà maggio si crepava di caldo fin dalle prime ore del mattino, una cappa di umidità asfissiante e impenetrabile avvolgeva costantemente la città come un sudario e gli unici momenti di tregua erano – quando andava bene – quelle due-tre ore nel pieno della notte in cui, se si era particolarmente fortunati, arrivava pure ad alzarsi una lievissima brezza. Nel tentativo di tornare a respirare per un po’, scappavo al Lazzaretto ogni volta che potevo. Il Lazzaretto è stato la mia seconda casa, oltre che il migliore centro sociale che Bologna abbia mai avuto (di quelli che ho fatto in tempo a vivere perlomeno; ero troppo piccolo e troppo pavido per varcare l’ingresso dell’Isola nel Kantiere quando c’era): una vecchia casa colonica sopra un pezzo di terra che era quasi campagna, da una parte il deposito dei treni e dall’altra il verde, nessun vicino a rompere il cazzo per i volumi, concerti e dj-set quasi tutte le sere, prezzi bassissimi, orari indefiniti, clima temperato e la compagnia di persone con gli stessi interessi. È stato lì che ho visto per la prima volta all’opera i Mahatma. La cornice era una maratona di otto ore di concerti – prevalentemente crust-hardcore – organizzata i primi di giugno come costola del Festival delle Culture Antifasciste, che si teneva in un posto dove invece di problemi con il vicinato ce n’erano eccome: a mezzanotte bisognava chiudere e quindi la serata si spostava al Lazzaretto. Dopo una serie di gruppi grind tutti identici, intorno alle 5 di mattina hanno cominciato a suonare i Mahatma; la formazione era il classico power-trio chitarra basso batteria con un paio di pedali a supporto per rendere il suono (ancora più) crasso e pastoso come un tocco di hashish quando ti si sfalda tra le dita. Esteticamente sembravano una frangia ribelle di hippie appena scappati dalla comune dopo aver sgozzato tutti gli altri: altissimi e dinoccolati, macilenti come una scultura di Giacometti, calzoni sdruciti, magliette sformate che neanche l’esercito della salvezza, capelli lunghi a coprire il viso. Non ci voleva un genio per capire che la musica sarebbe stata diversa, molto diversa, dal precedente bailamme antagonista ipercinetico. E infatti bastarono un paio di riff in cadenzata successione per catapultare la mente in un universo parallelo deformato e deformante, popolato da visioni spettrali, lo stesso luogo che nei decenni precedenti è stato zona franca di spericolati corrieri tossici delle più svariate origini ed estrazioni, unico comune denominatore la propensione naturale all’esplorazione delle zone più oscure del subconscio, preferibilmente con i sensi alterati da dosi robuste di sostanze psicotrope: dai Black Sabbath ai Blue Cheer, dai Saint Vitus agli Electric Wizard fino alle cavalcate stupefacenti (in senso chimico) degli Hawkwind e le risacche acide dei primi Monster Magnet, tutta roba che convergeva nelle micidiali jam semi-improvvisate dei Mahatma, ognuna un diverso microcosmo maligno a sé bastante, sulfureo come una vecchia cava siciliana e spaventoso come una corsa a perdifiato nel buio. Non ero drogato quella notte, ma già dopo il primo pezzo mi sentivo come se avessi tirato a più non posso per ore e ore da un chillum grosso e grasso come una bottiglia di minerale. Trattandosi di un trio di doom rock interamente strumentale la prima associazione mentale a scattare è stata quella – assai prevedibile – con i Misantropus, grandissimo e misconosciuto trio di Latina autore di un paio di splendidi album pubblicati tra il 2000 e il 2002 e tirati esclusivamente in vinile; ma rispetto a loro i Mahatma inglobavano nel loro suono una componente lisergica autenticamente minacciosa e insidiosamente inquietante, pur conservando al tempo stesso una condivisa propensione alla concisione e al controllo. Il risultato, ipnotico e destabilizzante, era una serie di brani (relativamente) brevi e totalmente privi di sbracate divagazioni ad minchiam (che restano il rischio maggiore di qualsiasi musica anche solo vagamente improvvisata), un blocco di suono compatto, magnetico, atemporale.
All’uscita il sole era già alto; intercettando il gruppo per i doverosi complimenti sono venuto a sapere che quello era stato il loro secondo concerto in assoluto (o qualcosa del genere). Da allora non li ho più visti suonare; ogni tanto incontravo casualmente il bassista o il batterista da qualche parte in giro (o l’uno o l’altro, raramente tutti e due insieme), soprattutto all’Atlantide o all’XM24, spesso a orari disumani. Ho poi imparato che il chitarrista Eugenio si è trasferito a Roma, il bassista Tommy è passato alla chitarra e insieme col batterista Carlo hanno proseguito cambiando il moniker in Mother Propaganda. In questa veste li ho sentiti venerdì scorso all’XM24, in una situazione praticamente speculare alla precedente: festival lunghissimo e inizio del loro set intorno alle 5 del mattino. Nemmeno stavolta ero drogato, però non mangiavo da circa 24 ore e i visuals allucinanti (un mix di scenari ultrapsichedelici in computer grafica alternati a scene da Il mostro è in tavola barone Frankenstein) facevano il resto; la musica non è cambiata rispetto ai Mahatma, sempre lo stesso trip velenoso e deragliante e allucinatorio ma la cura nei suoni è maggiore e i pezzi più incarogniti e il groove mentale e assassino assolutamente impressionante. Una macchina da guerra, Tommy con il suo arsenale di pedali (alcuni dei quali autocostruiti) e Carlo che sente ogni colpo sulle pelli come fosse l’ultima cosa da fare prima dell’apocalisse. Come Mahatma hanno inciso due CD-R (l’omonimo e Gilgamesh, entrambi in free download sul loro myspace) ma per ora il vero viaggio è live; con qualche altro concerto all’attivo e un ingegnere del suono coi coglioni potrebbero far piangere parte del catalogo Southern Lord. In ogni caso, musica che farebbe diventare tossico anche Ian MacKaye. Una benedizione.

MATTONI issue #10: LESBIAN

 
Vincono già dal nome, soprattutto in tempi in cui per non finire immediatamente nei peer-to-peer l’alternativa è tra stupidissimi termini di uso comune ricontestualizzati (tipo The Music, Girls, Tombs, ecc.) o sigle illeggibili piene di simboli criptici tipo triangolini e altre merdate a incasinare il tutto (tipo l’intero fenomeno witch house, che poi tra l’altro mica ho ancora capito di che cazzo si tratti, ma comunque). Loro scelgono una terza via: nome ultracomune e ultrabeota “perché quelli belli, tipo Black Sabbath o Venom, erano già presi“. Sono in quattro, hanno inciso per Holy Mountain (che già di per sè stessa è una bella garanzia di alterazione mentale) e a guardare la foto sul sito dell’etichetta sembrano, nell’ordine: un ciccione che ama i Neurosis, un professore ex-hippie col cervello fritto dai troppi acidi ai tempi dei fiori nei capelli, un immigrato clandestino e un buzzurro rissaiolo coi tatuaggi anche nel buco del culo. Insieme suonano uno strano incrocio tra sludge, doom old school e progressive metal, fangosissimo e lisergico eppure cronometrico e intricato al tempo stesso; immaginatevi, se riuscite, una sintesi tossica tra Dream Theater, Grief, Lake of Tears e Facedowninshit, sarete comunque piuttosto lontani da un’idea anche lontanamente esaustiva. Uno di loro, Dan La Rochelle, ha suonato la chitarra negli ASVA per un paio d’anni, magari questo dettaglio può essere di aiuto. Il primo album è del 2007; Power Hor, un gioiellino di psichedelia malata e deviante che con un buon cilotto sdruso di bella (o un paio di cartoni) a supporto è la morte sua. I numeri già dicono tutto: quattro pezzi per sessantadue minuti di durata. C’è già un bestione di quasi 25 minuti, Loadbath, ma non è il pezzo migliore del disco, e comunque a quei tempi Bastonate (con annessa la vostra rubrica preferita) ancora non esisteva. Sempre del 2007 è un ‘Tour EP” con un pezzo di quarantasette minuti (dal temibilissimo titolo, Fungal Abyss), che purtroppo non sono ancora riuscito ad ascoltare; ho invece mandato a memoria lo split del 2008 con gli Ocean americani (altro gruppo per cui vale la legge dei grandi numeri), ma purtroppo entrambe le compagini in quell’occasione mordevano decisamente i freni: ‘soltanto’ dodici e quattordici minuti le durate dei rispettivi pezzi.
Tornano ora con un nuovo disco fuori, Stratospheria Cubensis, titolo delirantemente pseudointellettuale, produzione paludosa del paludato Randall Dunn e artwork sideral-tentacolare del funghesco Seldon Hunt. Un disco che è un po’ il loro The Age of Adz: smodato, incontenibile, eccessivo, irraccontabile, radicalmente altro da sè e da tutto, con il brano più lungo posto alla fine a riassumere e a tirare le fila e a fornire il senso ultimo di un suono e un metodo compositivo che non asc0lterete altrove. Black Stygian è il nome del mattone finale, ventidue minuti di delirio psych-sludge-prog-doom da far precipitare dal cielo gli arcangeli con le trombe e schizzare dalle viscere della terra i diavoli coi tromboni, un’ininterrotta, sfrenata cavalcata della Morte ma con un cannone grosso come un carciofo incastrato tra le arcate dentarie; se esistesse un ipotetico mash-up tra Jerusalem degli Sleep ma con il tiro e senza la narcosi chimica, e A Change of Seasons dei Dream Theater ma senza i barocchismi e le leziosità e le tastiere d’avorio e la suddivisione in capitoli, magari reinterpretata dagli Eyehategod in jam alcolica con Fates Warning e (Men of) Porn, forse quel pezzo avrebbe il suono di Black Stygian. Veramente devastante.

 
 
PS STREAMO: http://lesbian.bandcamp.com/album/stratospheria-cubensis