Neutral Milk Hotel, Anna Frank, la peste e gli zombie.

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Qualche tempo fa i ragazzi di Flying Kids hanno iniziato a mettere insieme un libro collettivo sull’indie rock ’80 e ’90. Ognuno ha preso un gruppo e ha scritto il pezzo che preferiva. Il libro verrà pubblicato il 21 maggio, si intitola Non ti divertire troppo. In copertina c’è un disegno di Guy Picciotto sul canestro fatto da Zerocalcare. Quello che state per leggere è il primo estratto del libro, parla dei Neutral Milk Hotel ed è scritto da Capra.

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Se ti ascolti di volata il disco In the aeroplane over the sea capisci subito che con ottime probabilità si tratta di un disco di fricchettoni. Se ti leggi i testi, la probabilità si fa quasi certezza. Scoperta della sessualità, acqua, cime di montagne e cime degli alberi, fiori carnosi, sole e sempreverdi e primavera, musica che risuona nelle strade, la Terra vista da una stella, ceneri che da un aeroplano cadono verso il mare e accenni a una religiosità messianica non troppo classificata.
Tutto tenderebbe verso, ma non tutto.
Perché c’è anche una forchetta piantata in una spalla, un cervello che sprizza fuori dalla testa, una ragazza “nata in una bottiglia-razzo nel 1929”, “l’unica ragazza mai amata”, “nata con le rose negli occhi” e “sepolta viva una notte del 1945”, e “il fantasma di Anna tutto intorno”: “Anna’s ghost all around / hear her voice as it’s rolling and ringing through me / soft and sweet / how the notes all bend and reach above the trees”.

La sua voce attraverso la mia. “Sua” è riferito ad Anna Frank.
Non si tratta di una dietrologia forzata. I riferimenti sono chiari, e pure palesati da Jeff Mangum (che è quello che nella band faceva i pezzi) in interviste e ai concerti del tour.
È interessante questa roba? Sì.
Le due figure, dell’io narrante e di Anna Frank, si mescolano, e i reciproci ricordi a volte si confondono e a volte si staccano. L’adolescenza di Jeff diventa l’adolescenza di Anna, assieme a storie di scoperte del corpo, di liti in famiglia, di fantasmi.
Importante: l’album viene scritto ad Athens, una città della Georgia, dove tutta la band e rispettive compagne e sicuramente un fracasso di fattoni si sono ritirati (freak alert!) a vivere in una casa fuori città.
Ci interessa sapere che il pezzo “Ghost” è stato scritto perché pensavano che ci fosse un fantasma nel bagno? Andiamo su.
Quello che interessa davvero è che fare un disco, una ventina d’anni fa, poteva significare entrare in quarantena. Cercare un isolamento, o esserci costretti. In una sorta di bilanciamento interno-esterno, un contagio che non deve trapelare nel mondo, e un mondo che non deve interferire col contagio.
Questa cosa c’entra con Anna Frank, e il suo soffitto sul canale Prinsengracht di Amsterdam.
Ed entrambi c’entrano con la peste, e il raccontare la peste.

Prima descriverò come un lager sia affine ad una città colpita dalla peste, poi parlerò degli appestati come zombie, infine come si può parlare della peste e tutto il resto e che senso possa avere.
Andiamo a vincere questa partita.

Il campo aveva l’aria di aver subito un’epidemia: vuoto e morto.
E. Wiesel, La notte

Partiamo dal contagio.
«L’Ebreo non soltanto è impuro e contamina con il suo stesso contatto, ma impuro è tutto quanto gli appartiene o partecipa alla sua vita. […] I tribunali distribuiscono senza economia pene di prigione e reclusione per contaminazione razziale (fin dal 1936 Streicher giudicava queste sanzioni insufficienti e chiedeva l’introduzione della pena capitale: il suo desiderio venne esaudito nel 1939) e la giurisprudenza specifica che baci e semplici contatti corporali costituiscono reati di contaminazione razziale: “La contaminazione razziale è un crimine peggiore dell’assassinio!” proclama un presidente di tribunale a commento del proprio verdetto.» (Poliakov 1955: 26)
L’ebreo contagia. Questa era la minaccia, il suo peccato peggiore. L’ebreo era il flagello da cui difendersi, il morbo che andava estirpato. L’ebreo era il capro espiatorio.
Ne L’uovo del serpente (1977) di Bergman, la lettera del fratello ebreo suicida dice: «Un flagello sta per abbattersi su di noi.» Non l’avete visto? Guardatelo.
Speer riceve in confidenza dal suo amico Hanke – che, ve lo dico se volete fare i belli durante una cena, era pure il Gauleiter della Slesia – un chiaro avvertimento riguardo ai lager: «Mi chiese di non accettare mai l’invito a visitare un campo di concentramento nel Gau dell’Alta Slesia. Mai, per nessuna ragione. Aveva visto uno spettacolo che gli era vietato descrivere e che non era neanche capace di descrivere.» (Todorov 1992: 135).
Tucidide per la peste di Atene usa le medesime parole. (Primi stupori)
Nel verbale stenografato di una riunione del Consiglio dei ministri del 12 novembre 1938 leggiamo:
«Goebbels:  Poi bisogna impedire che gli Ebrei vadano in giro pavoneggiandosi per i giardini pubblici tedeschi. Segnalo a questo proposito la propaganda mormorata dagli Ebrei nei giardini del Fehrbelliner Platz. Ci sono degli Ebrei che non hanno l’aria di esserlo; si siedono vicino alle madri tedesche e ai bambini tedeschi e cominciano a borbottare lamentele contro di noi e ad appestare l’aria» (Poliakov 1955: 44)
Ha davvero detto “appestare”? Pazzesco.
Attenzione. Per par condicio ci tengo a sottolineare che:
«I movimenti totalitari moderni, di destra come di sinistra, hanno mostrato una tendenza particolare – rivelatrice – a servirsi di immagini di malattia. I nazisti proclamavano che la persona di origini “razziali” miste era come un sifilitico.» (Sontag 1992: 77)
Insomma, la razza inferiore contamina, perciò dapprima si procede con l’evitare ogni contatto, camminare in zone separate delle strade, vietare l’ingresso in negozi e servizi per ariani, ecc; poi, con il rinchiudere i veicoli del contagio in zone delimitate e dominabili: prevenzione cautelativa.

«Nelle grandi città i ghetti furono cinti da mura; in altre località si trattava di quartieri delimitati, all’ingresso dei quali stavano cartelli in lingua tedesca che avvertivano: “Pericolo d’epidemia; potete entrare a vostro rischio e pericolo!”» (Poliakov 1955: 67)

L’isolamento del ghetto insomma è una quarantena (proprio come avevo detto all’inizio!) dove manca il cibo, le forze vengono meno e dove si vive un’ininterrotta sfida con quello che ci si ritrova ad essere ma che, prima della peste, non si sospettava minimamente di poter essere.
«Una fame rabbiosa e nuovi pericoli a ogni istante incombevano sugli abitanti del ghetto: la lotta per la vita era diventata lo scopo essenziale della loro esistenza. Condizioni di questo genere sono propizie per mettere a nudo la natura più intima degli uomini, per far cadere le maschere convenzionali, esacerbando i conflitti di ogni specie, accentuando i contrasti.» (Poliakov 1955: 134)
Nella storia e nella vita pare talvolta di discernere una legge feroce, che suona “a chi ha sarà dato; a chi non ha, sarà tolto”. Nel lager, dove l’uomo è solo e la lotta per la vita si riduce al suo meccanismo primordiale, le legge iniqua è apertamente in vigore, è riconosciuta da tutti. (Levi 1999: 80)
Il ghetto ha poi alcune caratteristiche di un enorme lazzaretto a cielo aperto: «Decine di disgraziati morivano nelle strade; i passanti ricoprivano frettolosamente i cadaveri con giornali, in attesa che il carro delle pompe funebri venisse a raccoglierli.» (Poliakov 1955: 127)
Tra gli appunti di Mary Berg riguardo la vita nel ghetto si legge, nei giorni 1-2 ottobre 1942:
«Di giorno le strade sono quasi deserte, si ha un po’ di circolazione solo alle sei del mattino, quando la gente va a lavorare. […] Gli ebrei sentono di continuo su di loro l’ombra della morte, ma ciascuno pensa, malgrado tutto, di avere qualche possibilità di sfuggire. […] I mariti sono stati separati dalle mogli e dai bambini, i bambini dai genitori, e ciascuno alloggia dove riesce a trovar posto.»
Nel ghetto, come nel lager, non si potevano ricevere pacchi, l’esilio era ineludibile (o quasi), la sensazione di chi vi abitava era di trovarsi completamente sperduto e perduto. L’abbandono. Se si volesse riassumere in 10 parole quello che succede quando una città viene presa dalla peste, direi queste: paura, inquietudine, fobia, follia, smarrimento, mestizia, crudeltà, morte, innocenza. E abbandono. (Sembrano paroloni vuoti, non credo sia così, ora non c’è spazio, ma se non ci credi ho un centinaio di titoli nella bibliografia completa e te li passo)
E i lager sono città: con prigioni, cliniche, bordelli, strade,… in uno dei campi c’era persino uno zoo. E dei monumenti: oggi i turisti si fanno fotografare davanti ai forni crematori.

Detto ciò, aggiungiamo un tassello a questo simpatico paragone lager-peste.
Al pari della peste, la politica nazista mirava a spersonalizzare i propri reclusi.
Una legge del 26 agosto 1938 sanciva che ogni ebreo doveva prendere il nome di Israele e ogni ebrea il nome di Sara.
E come sappiamo bene fin dalla terza elementare, al posto del nome ai detenuti viene invece dato un numero. «E il nome è il primo segno distintivo dell’individuo. […] Uccidere due persone è in un certo senso più difficile che ucciderne duemila: un numero elevato finisce quindi col fare lo stesso effetto. “Li ho raramente visti come individui. Era sempre un’enorme massa”, dichiara Stangl. (Continuiamo tutti a reagire così all’annuncio di migliaia di morti; la quantità depersonalizza le vittime e automaticamente ci depersonalizza: una morte è un dolore, un milione di morti un’informazione)» (Todorov 1992: 176-7)
Ci piazzo pure una citazione da uno dei testi dei Neutral Milk Hotel che non guasta in un pezzo sui Neutral Milk Hotel:

And I know they buried her body with others / her sister and mother and 500 families / and will she remember me 50 years later / I wished I could sav her in some sort of time machine – Oh Comely

Salto indietro di 50 anni circa: a Buchenwald un altoparlante scandiva: «Ogni Ebreo che desideri impiccarsi è pregato di avere la cortesia di introdurre nella bocca un pezzo di carta recante il proprio nome al fine di poter procedere all’identificazione» (in Poliakov 1955: 40)
A tal pro, un progetto che Himmler tentò di mettere in opera più volte, ma non riuscì mai a portare a compimento, era quello di «giungere alla “soluzione finale” collettiva, non attraverso una soppressione fisica sanguinosa e immediata, ma per mezzo della sterilizzazione o castrazione in massa: così da ottenere l’estinzione efficace della razza ebraica in forma più lenta, ma parimenti sicura.» (Poliakov 1955: 337).
Non più uomini ma automi. (Sto per introdurre un nuovo tassello, non lasciamoci proprio adesso.)
Il film Il grande uno rosso (1980) di Samuel Fuller riesce a mostrare in maniera eloquente questo automatismo spersonalizzante di un manipolo di soldati – macchine da guerra – che, sul finale, si ritrovano, in Cecoslovacchia, alle porte dei campi, dove sopravvivevano altri automi come loro, solo più magri e disperati. Non l’avete visto? Guardatelo.
L’imperativo principe era: obbedire. Condizione mentale cui non soggiacevano soltanto i condannati a morte, ma sotto la cui egida rientravano tutti: deportati e guardiani.
«L’atteggiamento di docile sottomissione spersonalizza chi vi si assoggetta trasformandolo in un puro ingranaggio di una immensa macchina» (Todorov 1992: 183)
«I popoli adorano l’autorità» (Baudelaire 1970: 46), taaac.
E l’autorità dei regimi è il compimento della hybris dell’uomo.
Tra le massime del Mein Kampf  si annoverano: “le masse sentono cose forti e nettamente definite”; “alla gente piace essere comandata”; “vuole un insegnamento intollerante”; “detesta i dubbi”; “soffre pochissimo le beffe più impudenti”.

Le fosse comuni sono l’ultimo passaggio.
Morte senza lapide, senza memoria, senza il proprio spazio vitale (sic!). Morte senza dignità. Morte oscena (letteralmente). Morte che accomuna: unico tratto distintivo dell’essere umano. E unico tratto distintivo dall’automa.

Omnia denique sancta deum delubra replerat / corporibus mors exanimis oneratque passim / cuncta cadaveribus caelestum templa manebant, / hospitibus loca quae complerat aedituentes  (Lucrezio, De rerum natura,VI 1272-75)

Obbedire. La giustificazione di tutti i passaggi intermedi: “Stavo obbedendo agli ordini”. Leggi: automatismo. Nel senso di: conservazione della specie. In particolare della propria specie singolare. Come i batteri e i virus.
Il fatto che i vampiri trasmettano la peste getta un’ombra curiosa sulla faccenda.
Il Nosferatu di Murnau porta con sé un’epidemia di peste verso l’Olanda, e sarà solo il sacrificio di una vergine a stroncare il suo diffondersi.
Il Nosferatu di Herzog è accompagnato da un’orda di undicimila topi che stillano contagio nel loro vorace accumularsi in ogni angolo di una piazza mollemente agghindata da ultimo giorno sulla terra.
«Il vampirismo è contagioso» afferma l’eremita del convento nel racconto I Vurdalak di Alekséj Tolstòj.
Nosferatu significa non-morto. I cadaveri dissepolti di uomini ritenuti vampiri presentavano corpi ben imporporati dal rossore di una salute traboccante.
Il vampiro è un non-morto votato all’immortalità.
Chi viene morso da un vampiro diventa come lui: uno zombie.
È un personaggio sofferente, castigato nella sua non vita ibrida e notturna.
Il Nosferatu di Herzog – Klaus Kinski – incarna perfettamente questa solitudine esistenziale: ha i tratti di inespiabile inquietudine dell’appestato: di chi ha contratto il morbo e ne vive smarrito l’isolamento.  Non l’avete visto? Sciocchi.
Caratteristica degli zombie è di camminare tutti nella medesima direzione, pur senza comunicare l’uno con l’altro. E senza potersi mai voltare indietro. Imboccata una strada, quella rimane fino alla fine. L’unica strada – l’unica finalità – è quella del contagio.
Come per i batteri: conta solo la conservazione della specie.
Se la peste scatena negli uomini un egotismo irrefrenabile, ci rivela che in ogni natura suppura, da sempre, l’istinto più ovvio: quello della sopravvivenza. E la città appestata perciò si trasforma in un’orda di zombie incomunicanti, eppure precisi e omologhi, dove è salda e presente, nella testa di tutti, la rotta da prendere.
Nel film di Romero La terra dei morti viventi (2005), gli zombie vengono chiamati “appestati”. Va visto eh.
Zombie sono i reclusi, zombie sono i guardiani. Zombie sono i salvati.
«Chi è stato contemporaneo ai campi è per sempre un sopravvissuto: la morte non lo farà morire.» (Blanchot 1990: 163)

La Peste. Ho scelto il dominio e ora sapete che è cosa più seria dell’inferno. […] Ed era fatto piuttosto bene, e non mancava l’idea; ma non c’era tutta l’idea… Se volete la mia opinione: un morto rinfresca, ma non rende. In una parola: non vale uno schiavo. L’ideale è di ottenere una maggioranza di schiavi vivi con l’aiuto di una minoranza di morti ben scelti. Oggi la tecnica è perfetta. (A. Camus, Lo stato d’assedio)

Zombie dentro e zombie a controllare quindi. E chi stava fuori? Inerzia.
Anna Politkovskaja scrive queste parole sull’acquiescenza dell’opinione pubblica russa nei confronti della condizione dei ceceni.
«E la società? E il popolo? In linea generale non ci sono slanci di compassione né proteste sociali che le autorità si sentano in dovere di prendere in considerazione. Al contrario, la società perversa reclama ancora una volta benessere e tranquillità al prezzo della vita altrui. Ed elude la tragedia del Nord-Ost preferendo credere al lavaggio del cervello di Stato anziché alla parola di un vicino che è stato tenuto in ostaggio.» (Politkovskaja 2003: 146)
Di nuovo la storia. Putin usa il medesimo motto di Stalin (che è un motto evangelico!): “Chi non è con me è contro di me”.
La collettività è assuefatta, come drogata, e…. vampirizzata! Punto esclamativo!
Ora parte una citazione da un libro bellissimo che cerco di comprare da circa 10 anni e mai lo trovo: «L’autorità esercitata dal vampiro è una forma di carisma, quel potere che consente al capo di inibire la volontà dei suoi seguaci e di indurli a sacrificarsi a vantaggio delle sue mire personali. Hitler, come abbiamo già rilevato, vedeva le masse come femminili: la capacità di insinuarsi nella mente di un popolo e di convogliarlo verso un certo fine è una forma di seduzione sessuale. Politica e teatro erano interconnessi già da molto prima dell’età dei mass media. L’attore dotato di presenza scenica e di intrinseca autorità domina le platee. L’oratore “affascinante” è quello che opera, alla lettera, un incantesimo. Egli “cattura” l’attenzione. Il pubblico è “avvinto” o “soggiogato”, vale a dire asservito (dai vincoli o dal giogo della schiavitù), quando nessuno muove un muscolo né chiacchiera col proprio vicino, e c’è un tale silenzio “che si sentirebbe volare una mosca”. Le metafore di sesso e di potere si sprecano a riguardo delle esibizioni di attori e di politici. L’oratore ha il dominio della dimensione della comunicazione visiva. Tutti gli occhi sono fissi su di lui, come ipnotizzati. Il pubblico è rigettato nell’immobilità e nel mutismo, che sono da sempre le armi in possesso del demone.» (Paglia 1993: 444)

Hitler era il capocomico che seduce e soggioga. Chi segue True Blood ha qualche immagine in più.
Per Agostino il teatro era un fetido bubbone. In tempo di peste i teatri londinesi furono chiusi.
«Indubbiamente le voci dei nemici dei teatri si facevano più stridenti, urlando che Dio aveva mandato la peste perché Londra fosse punita dei suoi peccati, e soprattutto della prostituzione, della sodomia e della recitazione» (Greenblatt 2005: 255). Abbiamo fatto un salto indietro di circa 4 secoli, tra True Blood e Shakespeare, giusto per.
Il potere totalitario, in questo senso, è una messa in scena: poggia solo su se stesso.
Tautologia irrefrenabile che non lascia scampo. Sipario.
Anche in questo caso la peste nel lager proviene dalla peste di fuori, quella dello stato: al vampirismo dei detenuti fa da specchio il vampirismo delle masse.

Tassello numero tre (ho messo un numero a caso).
Animalità. L’aspetto che forse maggiormente atterrisce nei campi è la ricerca indefessa dell’animalità del proprio capro espiatorio. Più è capro e più è espiatorio. [Ma con una premessa basilare: e cioè che «né la tortura né lo sterminio hanno un benché minimo equivalente tra le bestie.» (Todorov 1992: 123)]

Ormai non mi interessavo ad altro che alla mia scodella quotidiana di zuppa, al mio pezzo di pane raffermo, il pane, la zuppa: tutta la mia vita. Ero un corpo. Forse ancora meno: uno stomaco affamato. Soltanto lo stomaco sentiva il tempo passare. (E. Wiesel, La notte)

È la stessa nostra umanità che ha prodotto Auschwitz o Kolyma, giusto qualche generazione fa, e dell’umanità sono parte inestricabile: la bestialità degli stermini non è ferina. Eppure, il rigetto spirituale che istilla, ci costringe a dire, in un qualche modo, che non è neppure una bestialità umana. Un aggettivo sensato potrebbe essere: innaturale.
Nel Decameron Boccaccio scrive che gli uomini si ritrovano ad essere come animali perché muoiono «indifferentemente». Rendere i deportati degli animali è la causa, e il sintomo, del tentativo del lager di generare indifferenza.
«Goering: Benissimo; metteremo a disposizione degli Ebrei una parte della foresta. Alpers avrà cura di farvi arrivare le varie specie di animali che assomigliano maledettamente agli Ebrei: il cervo, per esempio, ha il naso adunco come loro» (Poliakov 1955: 44), e risate attorno al tavolo.
Le baracche dei campi sono edifici che potrebbero essere «scuderie», dice Resnais in Notte e nebbia (1960). Guardare!
Ricerca disumanizzante che trova la sua tragica perfezione esiziale nell’uso del gas – originariamente utilizzato per i parassiti.
«Molti parassiti, cimici, ecc., infestavano le antiche caserme di Auschwitz e, per distruggerli, si era ricorso a comuni mezzi di disinfestazione. Un fornitore della Wehrmacht, la ditta “Testa”, consegnava un gas a base di acido prussico, brevettato come “Cyclone B”; sul posto se ne trovava un ingente quantitativo. Date le circostanze, l’idea di applicare quei gas ad esseri umani per sopprimerli, non esigeva probabilmente un eccessivo sforzo intellettivo.» (Poliakov 1955: 270)
La propaganda nazista mirava a sottolineare questa sottospecie biologica degli ebrei.
Erano cani, scimmie, maiali. Quando erano di buonumore l’ebreo diventava una “forma di transizione tra l’animale e l’uomo nordico”.
La faccenda non cambia molto se ci si sposta alle purghe comuniste degli anni ’30: nel linguaggio sovietico di allora si usavano espressioni del tenore di “ai cani, una morte da cani”, “schiacciamo il canagliume”, etc.
Attualmente in Russia un epiteto con cui si può tranquillamente appellare un ceceno è “lurido topo di fogna”.
Non solo gli ebrei, anche gli Slavi andavano trattati come bestiame. E persino gli Alsaziani, tuonava Himmler, «sono un popolo di maiali».
E come coi maiali, non si buttava via nulla. Dai cadaveri dei campi: capelli per fare tessuti, ossa per fare concimi, corpi per fare saponi, epidermide per fare fogli da disegno. I filmati degli eserciti alleati al loro arrivo nei campi ci mostrano capannoni enormi in cui erano stivate montagne di capelli, montagne di orologi, montagne di denti.
Sempre in Notte e nebbia vediamo dei cadaveri che si confondono in mezzo a cataste di legna: i crani bianchi delle salme sembrano sezioni di tronchi di abete.

Ma l’animalità non è generalizzata e senza distizinzioni. Todorov ama ripetere che “Se non c’è scelta, non c’è morale”. Eppure, anche nei campi, a pochi passi dall’estremo, là dove si perde la possibilità di scelta, ci sono stati uomini in grado di scegliere tra l’automa e l’essere umano.
«Jorge Semprun, superstite di Buchenwald, scrive: “Nei lager l’uomo diventa un animale capace di rubare il pane di un compagno, di spingerlo verso la morte. Ma nei lager l’uomo diventa anche un essere invincibile capace di condividere fino all’ultima cicca, fino all’ultimo pezzo di pane, fino all’ultimo respiro, per sostenere i compagni”» (Todorov 1992: 43)
Sono due, essenzialmente, i modi in cui la logica disumana dei campi viene scalfita: o con il sacrificio eroico, o con l’altruismo quotidiano.
“L’insurrezione non è stata che un modo di scegliere la nostra morte”, dicono gli insorti del ghetto di Varsavia, «ma la differenza tra lo scegliere la propria morte e subirla è immensa: è la stessa che distingue l’essere umano dagli animali. Scegliendo la propria morte si compie un atto di volontà e si afferma così la propria appartenenza al genere umano – nel senso pregnante del termine.» (Todorov 1992: 21)
Sette sono state le persone che hanno aiutato la famiglia Frank e gli altri 4 esiliati nell’alloggio segreto durante di due anni di reclusione volontaria.

Il mondo, in sé, non è ragionevole: è tutto ciò che si può dire.
A. Camus, Il mito di Sisifo

Pare incredibile, ma mi avvio già alla conclusione.
La vicenda de La peste di Camus è semplice e abbastanza nota.
E, credo, altrettanto noto è l’intento di «esprimere il soffocamento di cui tutti avevano sofferto, l’atmosfera di minaccia e di esilio in cui erano vissuti durante la guerra, dare un’immagine di coloro che avevano avuto in essa la parte del tormento silenzioso e morale. Propositi confermati in una lettera a Roland Barthes dell’11 giugno 1955, in cui si legge che il contenuto evidente del romanzo è la lotta della resistenza europea contro il nazismo.» (Vetturini 2003: 21) Se non era noto, ora lo è.
Camus definisce la peste, e lo fa in maniera definitiva.
L’aggettivo definitivo conserva, credo, un certo spettro di significati che vanno messi tutti assieme sul desktop.
È definitivo ciò che non merita più ulteriori modifiche o miglioramenti. Definitivo appartiene a definire, e perciò a definizione, e cioè: recintato, incasellato, spiegabile?, conoscibile. Ma definitivo non manca neppure di lasciar odorare un vago sentore escatologico, una prospettiva di sbieco sulle cose ultime, una risoluzione che sposta l’accento sul sempre. 
L’esilio della città di Orano (la città della peste di Camus) è un esilio specifico, e definito. Ma quest’esilio coartato dalla peste, se sfaccettato negli uomini che la vivono, nei personaggi che Camus avvicina, diventa un esilio metafisico.
La peste di Camus è grande perché parla della peste di sterminio, e perché parla della peste.
«Il romanzo di Camus non è, come a volte si sostiene, un’allegoria politica in cui lo scoppio della peste bubbonica in una città portuale del Mediterraneo rappresenta l’occupazione nazista. La peste di cui scrive non è punitiva. Camus infatti non eleva protesta contro nulla, né contro la corruzione o la tirannia e neppure contro la mortalità. La peste non è altro che un avvenimento che serve da modello, l’irruzione della morte che conferisce alla vita un senso di gravità. Il suo uso della peste, più epitome che metafora, è insieme distaccato, stoico, consapevole – non comporta un giudizio e non lo sollecita.» (Sontag 1992:  146-7)
Nessun giudizio, vero. Ma Camus sceglie di essere morale.
«Quando scoppia una guerra, le gente dice: “Non durerà, è cosa troppo stupida.” E non vi è dubbio che una guerra sia davvero troppo stupida, ma questo non le impedisce di durare. La stupidaggine insiste sempre, ce se n’accorgerebbe se non si pensasse sempre a se stessi. I nostri concittadini, al riguardo, erano come tutti quanti, pensavano a se stessi. In altre parole, erano degli umanisti: non credevano ai flagelli. Il flagello non è commisurato all’uomo, ci si dice quindi che il flagello è irreale, è un brutto sogno che passerà. Ma non passa sempre, e di cattivo sogno in cattivo sogno sono gli uomini che passano, e gli umanisti in primo luogo, in quanto non hanno preso le loro precauzioni.» (Camus 2004: 30, da cui tutte le citazioni che seguono)
La peste è la storia di un medico, Bernard Rieux, e delle persone che incontra durante il disastro. Rieux riesce a darsi tutte le risposte possibili, di fronte al male. Quelle impossibili, non se le pone. Sarebbe insensato. È un romanzo dove le persone si parlano sul serio. Dove i personaggi arrivano a conoscersi, e il lettore li può conoscere. Io li conosco.
C’è comunicazione. Ed è una comunicazione che nasce assieme al male.
«Ho avuto un bel dirgli che la sola maniera di non esser separato dagli altri era, dopo tutto, avere una buona coscienza; mi ha guardato malamente e mi ha detto: ‘Allora, a questo patto, nessuno è mai con nessuno’. E poi: ‘Lei può ancora andare, glielo dico io; la sola maniera di mettere insieme le persone è ancora mandargli la peste. Ma si guardi intorno!’» (Camus 2004: 150)
Chi ha vissuto l’ultimo terremoto nella bassa modenese legge questa frase sorridendo.
Se è impossibile avere una «buona coscienza», non è tuttavia impossibile «non esser separato dagli altri».
Leopardi, nel La ginestra, usa parole che Camus sicuramente ha ripetuto a memoria un sacco di volte: «E quell’orror che primo / Contra l’empia natura / Strinse i mortali in social catena»
Davanti all’orrore, davanti all’immotivata peste, che è peste che non punisce e non giudica, non flagella e non castiga, Rieux non cerca faziose eziologie, o definizioni calzanti.
Rieux si mette il camice.

«“Lei crede in Dio, dottore?”
Anche questa domanda era posta con naturalezza, ma stavolta Rieux esitò.
“No, ma che vuol dire questo? Sono nella notte, e cerco di vederci chiaro. Da molto tempo ho finito di trovare originale la cosa”.
“Non è questo che la divide da Paneloux?”
“Non credo. Paneloux è un uomo di studio, non ha veduto morire abbastanza: per questo parla in nome d’una verità. Ma ogni piccolo prete di campagna, che amministra i suoi parrocchiani e ha sentito il respiro dei moribondi, la pensa come me. Curerebbe la miseria prima di volerne dimostrare la perfezione”.» (97)

Quando a Marek Edelman, ebreo di Varsavia sopravvissuto alla Shoah, viene chiesto perché ha scelto la professione di medico, lui risponde: «“Come medico posso essere responsabile della vita umana”. “Ma perché vuoi esserne responsabile?”. “Probabilmente perché tutto il resto mi pare meno importante”» (Todorov 1992: 25)
Se c’è un senso di fronte al male senza senso, che sia la peste o la guerra o la morte di una figlia, «di fronte all’assurdità quotidiana dei campi di concentramento», se c’è qualcosa che spolvera via un po’ di quella assurdità, se si cerca un gesto con cui recuperare un po’ di perfezione, «aiutare una persona, o semplicemente far caso ad essa, è un atto ricco di senso.» (Todorov 1992: 88)
Se chiedessimo a Riuex dove trova le sue risposte, ci direbbe che «Semplicemente, quando si è medici, ci si è fatta un’idea del dolore e si ha un po’ più di fantasia.» (31)
Farsi un’idea del dolore: non trascurarlo, non essere distratti.
Farsi un’idea. Non ignorarlo.
«La nostra cronaca volge alla fine. È tempo che il dottor Bernard Rieux confessi di esserne l’autore; […] Chiamato a testimoniare» (230)
Rieux è scrittore. Cioè è qualcuno che ha un «po’ più di fantasia» per poter parlare del dolore.
Per dare qualche risposta, fin dove si può. Oltre, è questione di perfezione. Di cui non si è capaci. Perché non ne si è padroni. E per cui bisogna rassegnarci. Ma senza risentimento. Con umiltà vigile. Attiva.
«Chi desidera ma non agisce, alleva pestilenza», è uno dei Proverbi dell’inferno di Blake. (Blake 2006: 107)
Camus ci dice che gli uomini devono essere medici.
E gli scrittori, per essere medici, devono essere inviati speciali.

Non dimentichiamo, dopo tutto, che se Edipo può fare quel che ciascuno (dicono) si limita a desiderare, ciò avviene perché un oracolo ha narrato in anticipo che un giorno avrebbe ucciso il padre e sposato la madre: senza oracolo, niente esilio, dunque niente incognito, dunque niente parricidio, dunque niente incesto.
G. Genette, Figure III

C’entra qualcosa con Jeff Mangum e il suo disco fricchettone?
Un po’ penso di sì. Quando in “Oh Comely” scrive: “And I know they buried her body with others / her sister and mother and 500 families / and will she remember me 50 years later / I wished I could save her in some sort of time machine” penso abbia lo stesso medesimo scopo.
E ancora: “Hear her voice as it’s rolling and ringing through me / soft and sweet / how the notes all bend and reach above the trees
La sua voce attraverso la mia, cinquant’anni dopo, il racconto, macchina del tempo, un tentativo di salvare qualcosa dal disastro, la scrittura del disastro.

Sto mettendo a fianco i Neutral Milk Hotel e Camus? No.
Però è affascinante questo voler incorporare il diario di una sopravvivenza al proprio disco.
Che però è il diario di un fallimento. Anna Frank muore nel marzo del 1945 nel campo di Bergen-Balsen, tre settimane prima che il campo fosse liberato. Il loro nascondiglio posto sopra la ditta del padre viene scoperto nell’agosto 1944, dopo due anni di segretezza. Degli otto che questo posto aveva ospitato, solo il padre di Anna, Otto Frank, sopravvisse ai campi e si prese poi cura di dare alle stampe il diario.
Un diario che leggi con la morte nel cuore, scritto da una ragazza in un’età che tutti noi davanti a queste righe abbiamo vissuto, e superato. Un diario che – come ogni libro -, è destinato a finire, ma a finire diversamente.
In the aeroplane over the sea è il canto del cigno dei Neutral Milk Hotel. L’ultimo disco che si poteva comporre, in perfetta sintonia con questa ricerca ineluttabile (letteralmente: che non può essere priva di lutto) di voler cantare una storia senza lieto fine.
Ma la mancanza di un lieto fine non ha mai scoraggiato nessuno.
Tra l’altro non è affatto strano che questa credenza del cigno selvatico che intona una canzone prima di morire sia una bufala totale. Facciamocene una ragione.
«Perché qualcuno si fa avanti? Perché uno scampò al naufragio», dice Melville sul finale di Moby  Dick.
Ho fatto un finale un po’ tagliato con l’accetta, così ve lo rileggete prima di piangere.

Holland, 1945
The only girl I’ve ever loved
Was born with roses in her eyes
But then they buried her alive
One evening 1945
With just her sister at her side
And only weeks before the guns
All came and rained on everyone
Now she’s a little boy in Spain
Playing pianos filled with flames
On empty rings around the sun
All sing to say my dream has come

But now we must pick up every piece
Of the life we used to love
Just to keep ourselves at least enough to carry on

[…]
And here’s where your mother sleeps
And here is the room where your brothers were born
Indentions in the sheets
Where their bodies once moved but don’t move any more
And it’s so sad to see the world agree
That they’d rather see their faces filled with flies
All when I’d want to keep white roses in their eyes

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Bibliografia essenziale

AAVV (2001), Memoria dei campi : fotografie dei campi di concentramento e di sterminio nazisti : (1933-1999), sotto la direzione di Clément Chéroux, Roma, Contrasto
Arendt H. (1964), La banalità del male. Eichmann a Gerusalemme, Milano, Feltrinelli;
Artaud, A. (2000), Il teatro e il suo doppio, Torino, Einaudi;
Bataille, G. (1990), La Letteratura e il Male, Milano, SE;
Bergdolt, K. (1997), La peste nera e la fine del Medioevo, Casale Monferrato, Piemme;
Blake, W. (1991), Poesie, Roma, Newton Compton;
Blake, W. (2006), Visioni, Milano, Mondadori;
Blanchot, M. (1990), La scrittura del disastro, Milano, SE;
Boccaccio, G. (2004), Decameron, Milano, Garzanti;
Borromeo, F. (1987), La peste di Milano, Milano, Rusconi;
Camus, A. (2003), Tutto il teatro, Milano, Bompiani;
Camus, A. (2004), La peste, Milano, Bompiani;
Camus, A. (2005), Il mito di Sisifo, Milano, Bompiani;
Capitani, O. (1995), a cura di, Morire di peste: testimonianze antiche e interpretazioni moderne della peste nera del 1348, Bologna, Pàtron;
Cordero, F. (1984), La fabbrica della peste, Roma, Laterza;
Defoe, D. (1995), Diario dell’anno della peste in Opere, Milano, Mondadori;
Delumeau, J. (1987), Il peccato e la paura, Bologna, il Mulino;
Diamond, J. (2005), Armi, acciaio e malattie. Breve storia del mondo negli ultimi tredicimila anni, Torino, Einaudi;
Greenblatt, S. (2005), Vita, arte e passioni di William Shakespeare, capocomico. Come Shakespeare divenne Shakespeare, Torino, Einaudi;
Levi, P. (1996), I racconti, Torino, Einaudi;
Levi, P. (1999), Se questo è un uomo; La tregua, Torino, Einaudi;
Lucrezio (1983), trad. di O. Cescatti, De rerum natura, Milano, Garzanti;
McNeill, W. (1982), La peste nella storia. Epidemie, morbi e contagio dall’antichità all’età contemporanea,Torino, Einaudi;
Melville, Herman (1998), Moby Dick, Milano, Garzanti;
Paglia, C. (1993), Sexual Personae. Arte e decadenza da Nefertiti e Emily Dickinson, Torino, Einaudi;
Poliakov, L. (1955), Il nazismo e lo sterminio degli ebrei, Torino, Einaudi;
Politkovskaja, A. (2003), Cecenia. Il disonore russo, Roma, Fandango;
Politkovskaja, A. (2006), La Russia di Putin, Milano, Adelphi;
Sontag, S. (1992), Malattia come metafora. Aids e cancro, Torino, Einadi;
Todorov, T. (1992), Di fronte all’estremo, Milano, Garzanti;
Vetturini, A. (2003), La peste, la pelle, Imola, La mandragora;
Wiesel, E. (2003), La notte, Firenze, La Giuntina.

THE LOAF MAKER – Mark Kozelek/Sun Kil Moon live a Roma

Kozelek

Il biglietto per il concerto di Mark Kozelek l’ho comprato sei mesi fa, da un service di Avellino, o Avezzano, tipo, che serve il Circolo degli Artisti da qualche tempo. L’ho preso la notte stessa in cui avevo ascoltato Benji la prima volta e, preso da questo inconsueto fuoco sacro per il sostanzialmente mai cacato Kozelek[1] – fuoco sacro che mi illudo, come tutti, non avere niente a che fare con la recensione di Pitchfork – ho gridato verso il cielo notturno: COME VORREI SUONASSE A ROMA!, venendo per una volta, una soltanto, esaudito all’istante da Dio, che modificando all’istante la mia ricerca Google, mi deliziava indirizzandomi al service di Avezzano di cui sopra. Ed ecco finalmente un punto, e la fine di un periodo. Che poi, cazzo volete, Thomas Mann li metteva, forse, i punti? Thomas Mann di merda. Tisico del cazzo. Questo Caspar Torp[2], lì, come si chiama il protagonista della Montagna magica? Che poi, la montagna magica per me è sempre stata quella che sovrasta Avezzano, e che accoglie Pescasseroli e la pizzeria San Francisco, la migliore del mondo, che ci crediate o no (la seconda è quella della stazione di Avezzano, non distante dalla quale, tra l’altro, c’è una terza pizzeria che si chiama Nebraska).

Il concerto di Mark Kozelek, dicevo, si è tenuto a Roma la sera del quattro aprile, e non ho alcuna intenzione di recensirlo qui. Il fatto è che le recensioni di concerti non le ho mai capite, perché quale vuoi che sia, il messaggio, alla fine? È stato una ficata, o tu merdaccia che non c’eri, oppure è stato una merda, hai fatto bene a risparmiare i soldi – non che io li abbia spesi, HOT LOAL, perché ero accreditato da un qualche cazzo di media (per la cronaca, di norma Bastonate, oltre al già congruo mensile, ci rimborsa le spese di tutti i concerti compresa una maglietta al banco. Questa volta ho scritto al Direttore, che cazzo, che le magliette di certo non ci sarebbero state, e perciò era un po’ una truffa: per evitare azioni sindacali, mi ha mandato gli otto euro del biglietto in francobolli). Su Mark Kozelek, non saprei cosa dirvi. La cosa che essenzialmente si è perso chi non dovesse essere venuto è uno scazzato totale con una gran voce. Non parlo di me, ma di Kozelek, totale odiatore dei romani  – il che sarebbe anche comprensibile, di norma, ma non nel caso di una audience composta da romani derelitti e innamorati di Kozelek – e facitore non già di loffe[3] (non escludo, ma per fortuna non posso saperlo), ma di tagliente ironia non-divertente, tipo che a Roma c’erano un sacco di graffiti, che ok dillo una volta e il pubblico reagirà con un LOAL (=il pubblico di qualsiasi concerto reagisce con un LOAL a qualsiasi cosa dica il cantante tra una canzone e l’altra), dillo due volte, dillo persino tre se vòi, ma a un certo punto a Markò, amo capito, mo basta.

Il concerto di per sé, che dire, non c’è concerto di per sé in realtà, la ficaggine-stronzaggine dell’artista essendone parte integrante (se non siete d’accordo ascoltatevi il vostro Brahms).  Diciamo che si è trattato del più grande minore del ventennio che eseguiva, voce e chitarra acustica, alcuni dei pezzi più belli sentiti negli ultimi anni, in particolar modo Carissa e I Watched the Film the Song Remains the Same. Perché Benji è un disco straordinario – è qualcuno che ti ha raccontato la verità, e pur facendolo ha mantenuto la grazia di chi si inventa tutto. Che poi c’è questo problema ontologico[4] dell’influenza che i concerti hanno sui dischi: vai a vedere Mark Kozelek convinto che Benji sia l’album dell’anno, torni con lui che ti ha mandato affanculo senza ragione e neanche ti va più di sentirlo. Mia moglie, che è una donna onesta, e ha questa straordinaria capacità di apprezzare o meno gli album senza bisogno di un particolare impianto ideologico, ama Kozelek da anni ma Benji non le piace particolarmente. Io non lo so se questo significa qualcosa, ma l’altra sera lui portava una camicia troppo stretta, e i capelli troppo spessi e crespi, e siamo andati via un po’ prima della fine, con la sensazione che qualcuno ci avesse mentito.


[1] Non del tutto vero. Mi piaceva Kozelek, e una volta, al liceo, imposi un disco dei Red House Painters ai miei amici pariolini in un weekend che passammo nel Cimino. Non ricordo che disco fosse, ma ricordo che suonava nello stereo, un sabato pomeriggio o quello che era, uno stereo abbandonato lì, nella campagna, mentre tutti si facevano i cazzi loro – le canne, le partite di calcio – e io ascoltavo questo Mark Kozelek che riempiva l’aria come in un romanzo o in un blog piagnone, sapendo fin da allora che le sensazioni prevalenti al momento – che quella musica non sarebbe mai più stata così bella, e che le cose piagnone e sdolcinate come questa stessa nota sono a volte profondamente vere – sarebbero state con me tutta la vita, quando sarei andato all’università, quando avrei perso tutti gli amici di quel giorno.

[2] Hans Castorp. Ho controllato dopo. Ma il lapsus mi piaceva, e per onestà intellettuale lo ho lasciato.

[3] Devo spiegarla: mio padre, dieci o quindici anni fa, una mattina si svegliò ridendo dalle lacrime: aveva sognato di essere a Napoli con un importante industriale della zona, e di essersi rifugiato con lui in un portone a causa di una pioggia improvvisa. A questo punto, il tizio gli aveva detto: “È venuta repentinamente, comm no facitore ‘e loffe”.

[4] Almeno credo sia “ontologico”, non faccio filosofia, io sono un catalizzatore di energia (=non ho idea di che cosa io stia citando a memoria ma potrebbe essere Jovanotti).

Il disco più bello di sempre.

niandra

Quando dico “il disco più bello di sempre” non mento mai, però in realtà il disco più bello di sempre è più di uno. Ci sono tre ragioni per cui lo faccio: la prima è che mi permette di dare un’altra sfumatura a “uno dei miei dischi preferiti”. “Uno dei miei dischi preferiti” posso dirlo di centinaia di dischi. The More Things Change è uno dei miei dischi preferiti,  Zen Arcade è il disco più bello di sempre. La seconda è che mi permette di non scegliere tra Zen Arcade e, non so, End Hits o SxM. La terza è che le ragioni devono sempre essere tre. John Frusciante esce dai Red Hot Chili Peppers nel giugno del ’92, in maniera rocambolesca ma non del tutto inaspettata. I Red Hot Chili Peppers sono esplosi da un annetto con Blood Sugar Sex Magik e lui manifesta da tempo totale incapacità di gestire tanto successo di pubblico. Reagisce sabotando i concerti, buttandola in caciara, registrandosi canzoncine in cameretta e facendosi di eroina: l’inizio di una spirale autodistruttiva che se lo mangia mani e piedi, lo fa uscire dal gruppo, lo rinchiude in casa per due annetti e lo risputa fuori sotto forma di zombie.

L’anno successivo all’uscita dalla band John Frusciante lo passa chiuso in casa in uno stato di isolamento e dipendenza sempre più profondi. La lista di amici che gli sono vicino in questo momento include gente tipo Gibby Haynes e Flea, il bassista dei Peppers. Pare sia soprattutto lui a spingere perché Frusciante pubblichi alcune canzoni che ha registrato nei ritagli di tempo durante le session di BSSM e nel tour promozionale seguente: pop psichedelico preso a rasoiate da una chitarra elettrica che spara assoli senza senso, lui che canta e urla con una voce sgraziatissima. Roba registrata per supplire (parrebbe) ad una generale insoddisfazione per la musica a lui contemporanea. Riescono a convincerlo a far uscire il materiale: sono due mini-dischi chiamati Niandra LaDes e Usually Just a T-Shirt. Warner Bros. ha un’opzione legata al contratto dei RHCP, ma una volta ascoltati i nastri decide di lavarsene le mani. L’occasione viene colta dalla American di Rick Rubin, la quale pubblicherà i due dischi insieme con il titolo Niandra LaDes and Usually Just a T-Shirt. Esce l’8 marzo del 1994, con John Frusciante sempre più isolato e stordito dalle droghe, magro come uno scheletro e incapace di promuovere il disco. Viene raggiunto a casa da una troupe che lo intervista per una rete olandese, a creare uno dei freakshow più disturbanti della storia del rock.

Ai tempi di Niandra John Frusciante è ancora all’inizio della spirale discendente. Continua lo stato di sostanziale reclusione, mix a eroina crack e cocaina ed è a un passo dallo stirare le zampine. Tre anni dopo fa uscire il suo secondo disco Smile from the Streets You Hold, raccolta di canzoni disseminate in giro per la sua carriera, poco meno disturbante del disco precedente. Da dichiarazioni successive, il disco è stato messo insieme allo scopo di far soldi per la droga. Prima dell’uscita dell’album, in ogni caso, il chitarrista (aiutato tra gli altri dal solito Flea) inizia a disintossicarsi: viene ricoverato in una clinica, gli vengono estirpati e sostituiti i denti marci e subisce interventi alle braccia per curare infezioni estese. è un periodo di riabilitazione da cui esce rinnovato. Nel 1998 i Red Hot Chili Peppers hanno fatto fuori Dave Navarro (con cui avevano realizzato One Hot Minute) e sono sul punto di sciogliersi: Flea spinge per fare un ultimo tentativo con Frusciante, che accetta con entusiasmo e ricomincia la vita da musicista con uno slancio senza precedenti. Nell’ottica di questa rinascita, e del successo senza precedenti di Californication, nel ’99 ritira dal mercato i due dischi solisti. Continuerà a fare uscire materiale: due anni dopo il famigerato internet album e quello che forse è il suo disco solista più famoso, To Record Only Water for Ten Days; da lì in poi dischi tristi dei Peppers e dischi tristi da solo.

Jack Frusciante è uscito dal gruppo di Brizzi arriva in libreria tre mesi dopo Niandra. Come per quasi tutti i rockettari italiani di provincia della mia generazione, al netto di tutti gli sfottò che poi gli abbiamo appioppato, è un culto assoluto. La dimensione romanzesca in cui ancor oggi viene sbattuta la musica di John Frusciante dalla critica internazionale non è poi così diversa da quella messa in piedi nel libro: l’amore per la musica che ti fa uscire dal cono di luce, il salto fuori dal cerchio e tutta quella roba lì. Niandra LaDes and Usually Just a T-Shirt invece è la negazione più violenta e feroce di questo canovaccio, prima ancora che ci sia dato modo di metterlo insieme. Niandra è l’espressione di una non-volontà che tende a mangiarsi qualsiasi ipotetica dimensione di eroismo applicata a Frusciante e lo sbatte in un vicolo cieco di irragionevoli seghe mentali, nelle quali entrare è sostanzialmente impossibile. Niandra è l’espressione di un tossicodipendente sociopatico incapace di relazionarsi a se stesso, figurarsi di creare un qualsiasi grado di empatia con il suo pubblico. Metà grassa del minutaggio del disco è composto di esperimenti che altrove non vengono tentati per pura ragionevolezza: urla stridule, chitarre irragionevolmente acide, effetti stupidi, voci rallentate/velocizzate. Metà della roba registrata dentro Niandra (e ancora più in Usually Just a T-Shirt) è messa lì apposta per dare fastidio e far sapere all’ascoltatore di essere entrato in un ambiente insalubre, un ecosistema ostile.

John Frusciante - Vpro 1994 Documentary 035

John Frusciante, 1994

Ho ascoltato molti dischi realizzati da dissociati; perlopiù sono tentativi malriusciti di diventare popstar, alimentati da un culto forse eccessivo ed affascinanti quasi solo nel loro essere in fieri. Sono moltissimi i dischi che valgono (anche tanto) come esplorazioni di una coscienza in disuso più che come opere di musica popolare in senso stretto: buona parte del materiale di Songs in the Key of Z, per dire. Intendo, è più facile che un matto faccia musica come Wesley Willis piuttosto che come Daniel Johnston; è più facile trovare in una sola persona psicosi, incoscienza e buona fede in una persona di quanto lo sia trovare in una sola persona psicosi, incoscienza, buona fede e genio compositivo. Questo in senso stretto non significa che Daniel Johnston sia meglio di Wesley Willis, ma senz’altro servono coraggio o incoscienza (o entrambe le cose) per prendere la melodia di una canzone come (prendo a caso) Running Away Into You, decidere di sabotarne l’altissimo potenziale pop e massacrarla di pitch vocali fino a ridurla come la trovate su Niandra LaDes. Per parte ascoltare Running Away Into You è divertente perché ti sembra di essere in cameretta con Frusciante nel momento in cui decide di buttarla in caciara, ma chiunque l’ha sentita anche distrattamente non può negare che si tratta di roba esattamente all’opposto del so bad it’s good. È una composizione maestosa, infilata in una veste così bizzarra da averle permesso di superare ogni ragionevole data di scadenza.

Niandra, all’uscita, ha venduto qualche decina di migliaia di copie (perlopiù tra completisti ed irriducibili fan dei Peppers). Oggi è difficilissimo porsi a distanza di sicurezza ed analizzarlo come il disco di cantautorato pop-rock che l’autore voleva realizzare: è più facile vederci la fotografia di una stagione nella vita di un uomo che ha toccato il fondo, il momento in cui senza accorgersene si distacca da tutto il resto e cade vittima di se stesso. La maggior parte dei dischi che ho ascoltato e che parlano di questo, in ogni caso, non reggono vent’anni come li regge Niandra. Un disco che di fatto (e non tenendo conto del suo gemello uscito tre anni dopo) non era mai stato inciso e non sarà mai più inciso nella storia della musica, un’opera pop involontariamente stratificata e complessa che ha un aspetto diverso ogni volta che la rimetti sul piatto e che sostanzialmente nessuno (in buona parte per totale disinteresse) è mai riuscito a replicare in seguito.

Non ho ascoltato Niandra il giorno dell’uscita, ma sono comunque passati diversi anni. C’è qualcosa di meraviglioso in un disco che ti permette di invecchiare con lui, una sorta di mutuo privilegio di cui né tu né tantomeno lui siete troppo inclini a parlare. A volte Niandra LaDes and Usually Just a T-Shirt aiuta ad andare avanti, in quel modo un po’ adolescenziale di metterti a contatto con un dolore comunque più intenso e spaventoso di quello che puoi provare. Volendo è pure una storia con un lieto fine, dipende che campana ascoltate (intendo dire, l’autore non ha più realizzato niente di lontanamente paragonabile a Niandra). Fosse morto di overdose nel ’96, Jack Frusciante sarebbe comunque uno dei miei migliori amici. I vostri migliori amici non hanno mai scritto una canzone intitolata La tua fica è incollata a un palazzo in fiamme.

Sabato 8 marzo questo disco meraviglioso compirà vent’anni. Ho intenzione di festeggiare: mi alzerò di buon mattino, girerò per casa rincoglionito come uno zombi, lo metterò in cuffia e lo riascolterò a volumi insensati per la millesima volta. Mi piacerebbe lo facessimo tutti.

STRATEGIA DELLA TENSIONE EVOLUTIVA #3 – Amadeus imita Jovanotti a Tale e Quale Show (con gli ovvi richiami ad Amedeo Minghi)

(pezzo a quattro mani, Franci + Accento Svedese)

Francesco F Senti scusa, mi hai girato un video di Amadeus che canta Ragazzo fortunato di Jovanotti al Tale e Quale show e ora sarò di cattivo umore per tutto il giorno nonostante qui abbia potuto vederlo soltanto senza audio. La prima cosa a cui ho pensato è che diocristo con quella barbina e quei capelli lì Amadeus è davvero la  copia un po’ sciapa di Costantino della Gherardesca, il che tutto sommato implica che uno dei massimi intellettuali italiani della nostra epoca è fisicamente il mashup tra Amadeus e Lorenzo Cherubini con la vergogna che basta a non vestirsi come uno dei due. C’è altro? Dimmi dell’audio, ti prego. Dimmi perchè. Dimmi perchè Gabriele Cirilli che parrucca PSY e Gangnam Style non è -evidentemente- un punto d’arrivo. 
amj

Accento Svedese Pensa se avessi sentito l’audio. Amadeus è stonatissimo ed in sovrappiù per imitare Jovanotti fa la zeppola, con l’unico risultato di somigliare più a Max Tortora che imita Silvio Muccino che imita Amadeus che imita Jovanotti – una cosa psichedelicissima e pericolosa, insomma – che a Jovanotti stesso.
Poi canta Ragazzo fortunato, il cui testo, se applicato alla triste figura di Amadeus, si trasforma all’istante in un delizioso ossimoro. Amadeus, che ormai è talmente alla frutta da ridursi a partecipare a quel fantasmagorico carrello dei bolliti che risponde al nome di Tale e Quale Show (a proposito, ci sono anche Fabrizio Frizzi, Riccardo Fogli e financo Gabriele Cirilli, che l’ultima volta ha imitato Wanda Osiris ma quando dalla regia hanno fatto partire Gangnam Style ha iniziato a ballare come PSY – meglio dei barbiturici con l’alcool, insomma) perchè artisticamente parlando non si è mai più ripreso dal suo jumping the shark, il litigio con Pedro all’Eredità, che istantaneamente ha trasformato Pedro in una celebrità sotterranea ed ha rappresentato l’imbocco del viale del tramonto per il buon Amadeus.
Amadeus, che a Deejay Television quando ero piccolo veniva sfottuto da tutti (Fiorello compreso – ricordo una puntata estiva all’Aquafan in cui Fiorello canzonava Amadeus perché si era ustionato naso e faccia) e che continuo a chiedermi come abbia fatto ad arrivare così in alto, in quell’imitazione ha stonato tantissimo, si è rotolato per terra, ha baciato Loretta Goggi, ha entusiasmato la sua compagna Giovanna Civitillo, ha imbarazzato perfino quel gran maestro di classe & stile che risponde al nome di Claudio Lippi ma ci ha fatto assistere a quella che nel suo complesso è stata una delle scene televisive più tristi ed imbarazzanti di sempre, e questo basta. Quell’imitazione di venerdì sera in prima serata – che più che un’imitazione è un autentico rip-off – sta lì a certificare che Jovanotti è diventato uno dei più grandi intellettuali pop italiani senza nemmeno rendersene conto, anche se spiegare bene il perché è molto difficile.

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E VOTATECI, diocristo. (Bastonate for Macchianera ’13)

Per la prima volta Bastonate concorre ai Blog Awards. In realtà non si chiamano più da un pezzo “Blog awards”, ora sono i Macchianera Italian Awards e a sancirlo informalmente c’è il fatto che Bastonate è (assieme al mai troppo lodato Pop Topoi) l’unico blog che concorre per la categoria musicale.

Essendo che corriamo contro gente tipo MTV, Rolling Stone, Radio Deejay e il Mucchio, dubitiamo ci sia posto per noi che non sia l’ultimo. Essendo non da oggi amanti del combattere battaglie stupide, senza senso e perse in partenza, combatteremo anche questa con un briciolo di accanimento. Anche perché la blogfest quest’anno è a Rimini ed io ho intenzione di presentarmi alla premiazione. Se posso permettermi, aggiungo al pezzo i miei consigli per votare nelle altre categorie su cui ho un’opinione.

Aggiungo anche che, essendo le nomination basate sulla segnalazione delle persone, grazie grazie grazie a chiunque ci ha segnalato come miglior sito musicale. Non so chi siete né quanti siete ma sto passando uno strano momento di giuoia. Qui le votazioni.

Miglior Sito Diecimila Me (diecimila.me)

Miglior Personaggio Azael (twitter.com/azael)

Miglior Rivelazione Vice Italia (vice.com/it), unica categoria in cui è candidato, per me miglior sito senza problemi. Beh, ci scrivo pure io quando capita.

Miglior Articolo  Ma pensarci domenica? (leonardo.blogspot.it/2013/03/ma-pensarci-domenica.html)

Miglior Community ItalianSubs (italiansubs.net)

Miglior sito di News ANSA (ansa.it)

Miglior sito di Satira Lercio.it (lercio.it)

Miglior Battuta  Se continua così, questo papa finirà per far sembrare un pezzo di merda pure Gesù Cristo. (Azael)

Miglior Disegnatore-Vignettista Zerocalcare (zerocalcare.it)

Miglior sito Televisivo sempre ItalianSubs (italiansubs.net)

Miglior sito Cinematografico fortissimamente  I 400 calci (i400calci.com)

Miglior sito Musicale  Bastonate (mi autovoto, anche. Non servirà ma è scaramantico). (bastonate.wordpress.com)

Miglior sito Letterario Barabba (barabba-log.blogspot.it) E DIOCRISTO MANDIAMOCELO IL MANY IN PEDANA DAI.

Miglior sito Fashion Matiseivista? (matiseivista.com)

Miglior sito di Economia  Il Sole 24 ore (sono un classicista) (ilsole24ore.it)

Miglior sito Educational Wikipedia Italia cioè in linea di principio è l’unico che conosco ma lo uso abbestia insomma (it.wikipedia.org)

Miglior sito Politico-d’Opinione  Leonardo (leonardo.blogspot.it)

Miglior Radio-Podcast Radio 24 per via delLa Zanzara (radio24.ilsole24ore.com)

Miglior sito di Viaggi e Turismo TripAdvisor (tripadvisor.it)

Miglior pagina Facebook  Siamo la gente il potere ci temono (facebook.com/SiamoLaGenteIlPotereCiTemono)

Miss Internet Andrea Delogu (twitter.com/andreadelogu)

Mister Internet Azael (twitter.com/azael)

Peggior Flop Parlamentarie del Movimento 5 Stelle (beppegrillo.it/parlamentarie.html) o  Quirinarie del Movimento 5 Stelle (goo.gl/DwljdI), o anche l’Huffington Post Italia, scegliete pure quell che vi pare.

Miglior Fake Casalegglo (twitter.com/casalegglo)

PAESE REALE – Lo spiegone.

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Non dico che scrivo per passione, ma quando scrivo sono abbastanza contento e qui sopra lo faccio gratis. Quello che scrivo è basato su qualche assunto di base, elementi di etica/morale e di linguaggio che mi sembrano scontati, tra cui una cosa sulla gente che decide di mandarmi un disco via email: se mi mandi un disco, vuoi sapere cosa ne penso io. Un paio di mesi fa ho scritto dieci recensioni (perlopiù negative) di dischi tra quelli che c’erano arrivati via email. Alcuni gruppi manco le hanno lette, altri le hanno lette e non hanno scritto, alcuni si sono incazzati apertamente, altri hanno ringraziato. Tendenzialmente se stronchi un gruppo malcagato ti becchi un sacco di accuse: accanirti contro dei poveracci malcagati, usare dei gruppi senza potere per fare due accessi in più, sputare merda sopra gente che si sbatte, ruggini pregresse, incompetenza manifesta, dente avvelenato, sensazionalismo, frustrazione sessuale. Qualcuno, nel dubbio, arriva a darti pure del fascista: ci sta, naturalmente. In generale è uno sport ingrato, passi due anni a provare e risparmiare soldi sulle birre per poterti pagare tre giorni di studio e massacrarti a registrare cinque pezzi che non venderanno; poi mi mandi il disco e io te lo stronco male. Fossi un musicista, probabilmente non registrerei nemmeno il disco. Se volessi le recensioni le manderei a gente di cui mi piacciono i gusti. Non spedirei nessun disco alle redazioni, giusto per essere sicuro che (boh) la rece su Rumore non sia firmata da quella gente tipo Ester Apa.

Questa cosa che chi stronca non ha rispetto dei gruppi è permeata nel mondo delle riviste e delle webzine, riducendo il tutto a un discorso tipo “se è figo ne parlo bene, se fa schifo non ne parlo proprio”. Una volta le linee editoriali venivano scavate a viva forza pisciando sui gruppi: questo ha fatto un disco del cazzo, questo ha fatto un disco bello. Soppesavi la firma, traevi le tue conclusioni e decidevi da che parte stare. Oggi non funziona più: la gente che scrive, generalmente, è considerata amica o nemica sulla base di un rapporto pezzi positivi fratto pezzi negativi. Questa cosa ha reso la recensione un genere narrativo che confina con l’agiografia, e dopo qualche anno di questo andazzo stan tutti a dire che bisogna superare il formato classico della rivista e basta con le recensioni che se voglio valutare il disco lo scarico. In realtà quello che abbiamo perso è la considerazione di chi scrive di musica. L’assunto di base di cui ho parlato sopra non è contemplato dal gruppetto o dal suo ufficio stampa: per loro l’assunto è che mandano il mediafire a cinquecento persone e dopo due mesi ci sono trenta recensioni da mettere nella cartella stampa. Cose che succedono davvero: un musicista ti scrive incazzato perché gli hai stroncato il disco, magari ti accusa di non averlo ascoltato con sufficiente attenzione, tu gli rispondi “come ti aspetti che parli del tuo disco il mio sito?” e lui ti risponde ancora più infuriato che “non è che posso passare la vita a leggere i siti di musica”.

Da oggi qua dentro apre un nuovo spazio fisso, a cadenza non so se mensile o che altro. Si chiama PAESE REALE e recensisce alcuni dei dischi che arrivano via email, allo scopo di ritrovare in qualche modo un senso in tutta la faccenda. Anche se suona stupidissimo, prima di postare le prime recensioni vorrei mettere in chiaro quali saranno le regole:

1 I dischi che recensisco mi sono stati segnalati da qualcuno: arrivano per posta, per email, tramite facebook o qualsiasi altro canale. La mail a cui potete mandare le vostre cose è disappuntoCHIOCCIOLAgmailPUNTOcom.

2 Non è detto che io ascolti tutti i dischi che mandate. Mi arrivano un disco o due al giorno, più i dischi che mi interessano, più i dischi che non mi interessano ma vanno ascoltati per capire di che cazzo parlano le riviste (quei gruppi tipo Alt-J o Altar of Plagues o chi volete voi insomma): fanno una ventina di dischi a settimana, se va benissimo ne ascolto la metà, se taglio qualcosa taglio i dischi che devo ascoltare.

3 Ascolto tutti i dischi che recensisco (o se non li ascolto lo dico chiaro e tondo), ma non è detto che li ascolti dalla prima all’ultima nota. Magari di alcuni ascolto metà del primo pezzo, decido che ne ho le palle piene e scrivo il pezzo.

4 La responsabilità dei dischi che ascolto/ascoltiamo è VOSTRA. Leggetevi il pezzo, leggetevi il blog, leggetevi quel che scrivo e mettetemi pure in copia carbone alle vostre email, ma se vi seghiamo il terzo EP non venite qua a recriminare.

5 Alcuni di quelli che mi mandano dischi vanno a finire nello spam. Spesso ci finiscono per questioni di sfiga. Più spesso ancora ci finiscono perché in passato ho cliccato “segnala come spam”. Potrei aver fatto un errore, ma è più probabile che l’errore l’abbiate fatto voi.

6 Non odio nessuno di quelli che mi mandano i dischi, anzi molte grazie a tutti, ma mi riservo il diritto di sentirmi offeso e odiare la vostra musica. La maggior parte delle volte ascolto il vostro disco invece di guardarmi un film o di fare un disegnino o di ascoltare dischi migliori.

7 Il modo in cui scegliete di presentarvi influisce molto nel giudizio sulla musica. Se assieme al disco mi mandate una presentazione in pdf potrei leggerla, odiarla e stroncarla senza aver sentito il disco. Il nome del gruppo e il titolo del disco influiscono nel giudizio sulla musica. I testi che scrivete influiscono nel giudizio sulla musica. La vostra pronuncia dell’inglese influisce nel giudizio sulla musica. La vostra foto influsce nel giudizio sulla musica. I vostri vestiti influiscono nel giudizio sulla musica. I gruppi che citate influiscono nel giudizio sulla musica.

8 Non sono un musicista, non ho mai registrato un disco, non ho mai posseduto un’etichetta, so distinguere a malapena una chitarra dall’altra. Le recriminazioni tipo “sei incazzato perché non ti caga nessuno” o “vediamo cosa saresti in grado di fare tu” mi fanno una pippa.

E basta, direi. Entro stanotte metto online le prime recensioni.

STREAMO/TrueBelievers/StareBene/DISCONE e altre cose sul nuovoWolf Eyes

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La prima volta che ho letto il nome Wolf Eyes, come quasi tutti in Italia, è stato su Blow Up. Erano i primi anni duemila e si parlava con un certo entusiasmo di qualche uscita a loro nome, poi collegata a tutto un discorso di nuova musica wave e nuova musica industriale, che tuttora mi ronza nelle orecchie. Ho letto e sedimentato, un momento in cui Blow Up e la musica sembravano nutrirsi a vicenda di questa sorta di energia che li spingeva tutti nella stessa direzione. Ho scoperto abbastanza presto che i Wolf Eyes erano, effettivamente, uno dei gruppi più interessanti del periodo: registrazioni carbonare licenziate sul mercato a botte di venti o trenta l’anno, nei formati più disparati e con in calce nomi di etichette assurdi che negli anni a venire avrebbero ossessionato un intero immaginario. Anche solo metterne in condivisione i dischi su Soulseek ti faceva sentire un punk di prima categoria o una specie di grande diffusore della Cultura, a cui un certo punto persino il mondo esterno prima o poi sarebbe arrivato riconoscendo implicitamente il nostro ruolo di teste di ponte (c’era già arrivato, ovviamente, due minuti prima di noi). Ho scoperto abbastanza presto che essere fan dei Wolf Eyes e del NOISE richiedeva una dedizione ed uno stipendio assolutamente maggiori di quelli di cui disponevo ai tempi. Dischi in vinile colorato stampati su un lato solo e tirati in poche decine di copie; cassette a tiratura ugualmente limitata smerciate più o meno a caso ai banchetti di qualche festival europeo a tema in cui era possibile assistere alle performance; amici che risparmiavano per mesi prima di quell’evento e si portavano a casa edizioni immancabilmente limitate e scrause pagando trecento euro a botta; si fa presto a sentirsi inadeguati, uomini non-nuovi, adepti di seconda o terza categoria destinati a una più che prevedibile abiura del NOISE una volta che quei suoni fossero passati di moda.

L’unico modo di continuare a quei livelli, nel noise, è di diventare artista. Ovviamente a un certo punto lo faccio, un po’ lo facevo anche prima ma ora lo faccio con uno spirito. Lo stupore intrinseco alla scoperta che certa musica può interessare a qualcuno che non sei tu. Registro cose con un mangianastri, aggiungo stronzatine fatte con una strumentazione rimediata e composta (vado a memoria) da tre pedali, un mixer, una tastiera, qualche microfono a contatto piazzato ovunque, un vecchio lettore CD dotato di un tasto per i loop e via; il pezzo forte era un Kaoss Pad 2 comprato a un centinaio di euro ad un amico, utilizzato un paio di volte e ributtato nel cestino. Il valore artistico della musica oscillava quasi sempre tra il ripugnante e l’inascoltabile, e le cassette/gli mp3 sono giustamente rimasti in un cassetto finchè la vita è andata necessariamente avanti e mi ha imposto di buttare le macchinette e ricominciare, boh, a disegnare; la mancanza di dedizione alla CAUSA ci ha imposto di rivedere il nostro asse critico ed abbiamo più che volentieri declassato l’harshnoise a un baraccone di idioti che (a parte pochi nomi, dei quali peraltro manco eravamo così convinti) sfruttava l’hype intorno a Wolf Eyes e simili come un trampolino di lancio per fare cagnara con macchinette autocostruite invece che con le vecchie autoghettizzatesi chitarre, senza alcuna idea alla base della musica stessa a parte il puro casino e a qualche cicatrice autoinflitta nei fortunatamente rari concerti dal vivo. Per poi bollarlo come una sega mentale artsy-fartsy non appena abbiamo visto comparire (tipo ai tempi dell’esplosione di un Prurient) il sospetto che la musica di qualcuno si fosse estesa oltre le bestemmie sputate in faccia a un pubblico di dieci stronzi con un microfono effettato a boia. Le storie di ascesa e caduta, nel rock e derivati, sono tutte riscritture apocrife della rivoluzione francese. Nel periodo di monomania riesco persino a farli piacere a qualche collega di lavoro, con il risultato di ritrovarmi di lì a un anno in discussioni in cui è LUI a raccontarmi per filo e per segno progetti di secondo e terzo grado di gente che ha suonato il corno in una cassetta dei WE uscita nel 2004 su American Tapes dicendomi cose tipo questa te la devi assolutamente sentire ti faccio un disco di mp3 mentre tu pensi quanto tempo da perdere ha ‘sto tizio. E poi? Boh, più niente. Circa un lustro fa smettono di uscire dischi a nome Wolf Eyes e i membri si fanno vivi solo in proprio.

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È abbastanza commovente riascoltarsi oggi i dischi dei Wolf Eyes. L’ho fatto la scorsa settimana: ho iniziato per caso trasferendo dischi da un appartamento all’altro e ripescando dalla pila dei disastri sfilati a qualche distro una delle collaborazioni con i Black Dice. Bello, per niente noioso, per niente gratuito. Ho ricominciato così, un po’ alla volta: Burned Mind che continuo non-originalmente a pensare sia il loro disco definitivo, Human Animal di qualche anno seguente, sempre su Sub Pop, sempre bellissimo. Slicer che forse era uscito su Hanson qualche anno prima, il disco (bellissimo anche questo) con Anthony Braxton. Al momento sono fermo qui. Probabilmente sono partito dai miei preferiti, ma è difficile guardare indietro a quegli anni e trovare un gruppo così amato allora che ancor oggi suona così dentro i tempi. Gran parte del merito è da darsi ovviamente all’eleganza formale dell’estetica del gruppo, oltre ovviamente alla capacità di Nate Young di ottenere un risultato specifico e peculiare a partire da qualsiasi suono. O alla sua capacità di selettore della propria musica capace di buttare sistematicamente nel cestino la roba non interessante o comunque riservarla ad uscite che finisco per non ascoltare. Resta il fatto che il nome Wolf Eyes continua ad essere –parlando di America- la pietra miliare del NOISE così come lo conosco io: al nome Wolf Eyes è associabile quasi tutto quel che so di questa musica, a partire dai padri fondatori per arrivare alle deviazioni freejazz a cui in qualche modo sono giunto ascoltandoli, a una manciata di etichette con nomi tipo Bulb o Hanson o Hospital o American Tapes ma anche Important e Troubleman che li hanno fatti uscire, a duecento side-project dei membri del gruppo, duecento gruppi con cui sono usciti split o dischi in formazione allargata e via di questo passo. Parlando di NOISE, in quella accezione, Wolf Eyes è quasi un genere musicale in sè.

E certo è una notizia che stranisce quella che una nuova formazione del gruppo senza Aaron Dilloway (presente come ospite su una traccia), quattro anni dopo le ultime uscite a nome Wolf Eyes, torna sul mercato con un disco nuovo intitolato No Answer: Lower Floors e viene ospitata su Pitchfork Advance –quindi per certi versi esce con lo stesso hype riservato ai nuovi Strokes* o Yo La Tengo. Siamo ai primi ascolti ma il disco sembra comunque buonissimo: NOISE di sapore molto industrial (in senso buono), per nulla gratuito, costruito su un equilibrio impossibile e su un profilo bassissimo, quasi ad elemosinare nella sua estrema eleganza un posto qualsiasi ai margini dello spettro musicale. Ancora una volta familiare ma al contempo non allineato, ed animato da questo senso di necessità che anche spento il player non accenna ad andarsene: un disco il cui solo essere uscito è una dichiarazione politica che ci colpisce dove fa più male: io ho mollato, i miei conoscenti hanno mollato, il NOISE in molti casi ha mollato. Wolf Eyes è ancora qui in forma smagliante: non sembra potersi permettere di essere altrove.

*mi chiedevo tra l’altro se nel caso di un disco come Comedown Machine sono gli Strokes a pagare per finire su Pitchfork Advance o se è Pitchfork a pagare gli Strokes per l’esclusiva. Quante cazzo di cose che non so.

Federico Guglielmi

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Federico Guglielmi, giornalista musicale di vecchissimo corso e neo-blogger. 

Ho aperto un blog sul quale per ora sto pubblicando pezzi vecchi, ma sul quale conto di inserire anche materiale inedito scritto appositamente. Perché? Beh, perché ho un archivio immenso nel quale c’è tanto materiale che ritengo interessante e che altrimenti sarebbe difficile leggere, perché era un’esperienza che ancora mi mancava, perché un sacco di miei lettori me lo chiedevano da anni, perché è divertente, perché immagino gioverà alla mia “public image”, perché sono orgoglioso di tutto quello che ho combinato in tutti questi decenni e dato che di soldi ne ho sempre visti pochi, via, che almeno sia “pagato” in soddisfazioni. Non sarebbe accaduto, però, senza l’ispirazione dalla magnifica title track dell’ultimo – in tutti i sensi – album di Francesco Guccini, che non parla di blog ma che, involontariamente, fotografa il mio stato d’animo nei confronti della mia professione.

me l’ascolto e magari ti chiedo qualcosa in merito. però: come può giovare all’immagine pubblica di un giornalista musicale aprire un blog? e poi: che differenza ci sarà tra i pezzi scritti apposta per il blog e i pezzi che scrivi sul mucchio?

Oggi le percezioni delle cose e delle persone mi sembrano più superficiali di un tempo. Nell’ambiente musicale chiunque sa più o meno chi sono, ma molti meno hanno un’idea un po’ più precisa di quante cose ho fatto. Continuando a pubblicare un post al giorno, fra un tot di mesi dovrebbe emergere un quadro sufficientemente ampio, che suppongo farà capire anche ai più duri di comprendonio che anche quella che al momento rimane ancora la mia professione – domani, chissà? – può essere “una cosa seria”, che comporta competenze, studio e (duro) lavoro. Scrivere di musica in un certo modo non è lo stesso che buttar giù su un forum o su un sito pensieri random a proposito di un disco o un artista, insomma. E non è nemmeno solo farsi le seghe nella propria cameretta, senza “vivere” la musica a tutti i livelli. Io la vivo da ormai quarant’anni e la racconto, per come posso, da trentaquattro, anche continuando a seguire esordienti e confrontandomi con tutto quello che succede oggi. Mi farebbe piacere che esistesse un posto – il blog, appunto – che fra un po’ di tempo sia in grado di fungere da biglietto da visita di ciò che sono, professionalmente parlando.

Per quanto riguarda la seconda domanda… beh, non mi sono ancora posto il problema. Magari ci saranno commenti che mi andrà di diffondere subito, senza attendere i tempi della carta stampata, e che forse sul Mucchio svilupperò in altro modo o non svilupperò affatto. Per ora, a parte le introduzioni “contestualizzanti” ai vari recuperi, mi limiterò comunque a materiale vecchio.

“Scrivere di musica in un certo modo non è lo stesso che buttar giù su un forum o su un sito pensieri random a proposito di un disco o un artista ” – Non sono d’accordo, dimmi quali sono le differenze. magari una volta ce n’erano di differenze perchè reperire i materiali e le notizie era difficile, oggi secondo me non ce n’è, o ce n’è poca. quello che c’è di diverso è la bontà dei pezzi, ma è una differenza tra gente buona e gente non buona (non tra professione e scrivere roba). Mi devi convincere del contrario, se vuoi puoi fare degli esempi. Che poi cosa vuol dire “vivere la musica a tutti i livelli”? farsi le seghe nella cameretta dieci ore al giorno è uno dei modi per imparare meglio la musica, no?

“farsi le seghe” è uno degli elementi, benché pure per quello c’è modo e modo: ascoltare solo un genere, ascoltare solo musica vecchia o solo musica nuova, piluccare con superficialità e non approfondire mai, non sforzarsi di acquisire almeno un’infarinatura globale perché “tanto di certi generi scriverò mai”… non sono buoni modi. Poi, per come la vedo io, serve anche vedere molti concerti, parlare con molti musicisti di ogni livello e intervistarli, raccogliere informazioni serie su come funzionano i mondi dell’ormai morente discografia, dell’organizzazione dei concerti, dei media specializzati… nonché avere un’idea vaga di cosa significhi suonare (il che non significa necessariamente saperlo fare) e utilizzare uno studio di registrazione. Inoltre, sentire la responsabilità non solo verso se stessi ma anche verso chi paga per leggere, impegnandosi a essere quanto più possibile seri, documentati, comprensibili… e magari rispettare un po’ la cara, vecchia lingua italiana, così spesso maltrattata. Certo, va da sé che a contare è la qualità degli articoli, così come è scontato che si trovino anche cose ottime in Rete e anche cose pessime su carta… però, in generale, io rivendico a gran voce il bisogno di professionalità e il valore dell’esperienza.

Ma la maggior parte della gente che scrive di musica fa queste cose, anche i blogger. un concerto o due a settimana, interviste quando si riesce. che poi l’intervista al musicista, magari tappati le orecchie, è il genere letterario più merdoso della storia dei generi letterari e della merda. per uno che ti dice una cosa vagamente interessante ce ne sono 25 che ti raccontano stronzate promozionali generiche. tra l’altro se un musicista avesse qualcosa di interessante da dire dovrebbe avere la decenza di metterlo tutto dentro al disco o quando suona dal vivo. Quindi secondo me non lo so, non regge insomma. anche il fatto che hai aperto un blog mi suona più come una testimonianza che è in atto un bel ripensamento del mestiere. anche eddy cilìa ne ha aperto uno qualche tempo fa, molto simile tra l’altro come impostazione. 

Sì, certo, e chi lo nega? Ci pensavo da una vita ma rimandavo perché non avevo mai tempo, poi Eddy ha varato il suo un anno fa e allora ho pensato “perché no?”. Sul ripensamento hai perfettamente ragione: visto che ormai guadagnare due lire scrivendo di musica è diventato un’impresa persino per me, tanto vale accontentarsi della soddisfazione di essere comunque letti da molti, e in tempo reale. Credo inoltre che sarebbe stato un peccato non rendere disponibile il materiale che ho accumulato in tutto questo tempo: non ho difficoltà ad ammettere che, essendomi costato del lavoro, avrei preferito venderlo, ma dato che ormai regna il “gratis o niente”… chi se frega, lo regalo. Credo che in tanti, leggendomi, possano essere portati a conoscere o approfondire determinati argomenti. E in ogni caso da molte cose che leggo in Rete – non tutte, lo specifico – traspaiono per lo più copiaincolla dai comunicati-stampa, superficialità, ignoranza, semi-analfabetismo, voglia di apparire e frenesia di essere “il primo” a scrivere del tale disco o evento. Per quanto riguarda le interviste, sono d’accordo a metà: è vero, verissimo che spesso si ha a che fare con interlocutori svogliati o poco acuti, ma molto dipende anche dall’abilità dell’intervistatore nel portare avanti i discorsi e poi nel “cucinarli” in modo da ottenere una lettura ricca e piacevole. Io, per esempio, sono molto soddisfatto di tantissime mie interviste, e so che lo sono anche gli intervistati.

Com’è stare nella redazione di una rivista oggi rispetto a com’era 15 o 20 anni fa?

In era pre Internet tutto era meno frenetico, sia per la quantità infinitamente minore di uscite discografiche, sia nelle modalità di lavoro. Benché le spese fossero tante e le vendite mai davvero sicure, si credeva che lavorando bene si sarebbe comunque avuto un pubblico disposto a seguirti, perché esisteva un autentico, solido mercato editoriale: quello che oggi sta andando sempre più velocemente a puttane perché il mondo si è rivoltato. Adesso tutto corre velocissimo e noi giornalisti della carta siamo stati largamente ridimensionati perché, almeno nell’informare, arriviamo inevitabilmente dopo la Rete. Rete che non ha regole, purtroppo: stamattina l’etichetta invia a me e ad altre centinaia di colleghi più o meno qualificati di tutto il mondo i file di un album che uscirà fra due mesi; dopo un’ora qualche miserabile bastardo che crede anche sia giusto così ha “condiviso”; dopo un giorno, in un’infinità di blog, siti e forum si parla già di un disco che nella sua forma “corretta” – quella fisica, CD o vinile che sia – arriverà dopo settimane, e che sui giornali sarà trattato sempre dopo settimane. E che quindi, oltretutto, sarà considerato “vecchio” prima ancora di essere uscito. Per quanto riguarda aspetti più strettamente legati alla scrittura, posso dire che anni fa mi sentivo addosso una grande responsabilità: sapevo che parecchia gente avrebbe acquistato un certo disco a scatola chiusa solo basandosi su un paio di recensioni. Oggi, più che al giudizio, punto alla spiegazione e contestualizzazione dei dischi dei quali mi occupo, perché tanto so che la massima parte dei miei lettori si limiterà a perdere un po’ di tempo ad ascoltare quello che ho consigliato, ma certo non ci spenderà soldi senza aver prima “toccato con mano”.

Quante copie vende il mucchio?

Dolenti note. Più di Rumore, Blow Up o Rockerilla, ma sempre poco: fra edicola e abbonamenti, una media di settemila copie al mese. Tutte le riviste, di qualsiasi genere, hanno subito crolli di vendite.

Con i finanziamenti pubblici come state messi? Leggevo qui che fino al 2011 vi arrivavano circa 500mila euro. su 8000 copie al mese vuol dire più di 5 euro a copia. ora?

Premetto che non sono né sono mai stato parte della società editrice del Mucchio, né ho mai avuto ruoli che avessero a che fare con la gestione del denaro. So comunque per certo che quelle cifre, reali qualche anno fa (quando si vendeva anche di più), sono state notevolmente ridimensionate, oltretutto retroattivamente: insomma, i rimborsi previsti per il passato – c’è sempre un ritardo di due anni – per spese già sostenute, sono stati pesantemente decurtati. È stato questo a causare, all’inizio del 2012, i problemi che hanno quasi portato alla chiusura. Comunque, quando si parla di contributi, quasi tutti pensano che si tratti di soldi regalati e nessuno dice che per avervi accesso è obbligatorio avere personale regolarmente assunto – per la cronaca, non io – e sostenere tutta una serie di spese che creano lavoro che altrimenti non ci sarebbe. La situazione attuale? Non è affatto buona, purtroppo. Daniela Federico ha spiegato tutto dettagliatamente nell’editoriale del numero di febbraio, ma non sono previste campagne salva-Mucchio tipo quella dell’anno scorso. (NdFF da Febbraio il Mucchio ha avuto una notevole diminuzione di pagine, tra le altre cose)

Nel dettaglio, a che spese extra bisogna far fronte quando hai accesso ai contributi statali?

Non essendo mai stato socio della Stemax o di altre strutture affini non conosco i dettagli alla pari di un amministratore. So comunque per certo che ci sono obblighi di un numero minimo di dipendenti con contratto a tempo indeterminato (alla Stemax, negli ultimi tempi, quattro), che il commercialista deve essere molto bravo, che i bilanci devono essere certificati da una costosissima società di revisione… In pratica, la Presidenza del Consiglio dei Ministri esamina la documentazione presentata e, con un paio d’anni di scarto, decide se rimborsare oppure no una parte delle spese. Anni fa era tutto molto più vago, tipo “basta dimostrare di aver speso 100 e viene restituito 50”, mentre negli ultimi anni ci sono stati notevoli giri di vite: adesso continuano a rimborsare, ma praticamente solo una parte delle spese relative all’affitto, alla stampa dei giornali (quindi, carta e tipografia) e ai dipendenti. Scelta secondo me giustissima, ma che ha una sola, enorme “stortura”: viene applicata anche a rimborsi del passato che, per consuetudine, si ritenevano “promessi”. La fregatura sta nella retroattività: determinati soldi non sarebbero stati spesi in partenza, se si fosse saputo che non sarebbero più stati soggetti a parziale rimborso.

In questi giorni mi prende male perchè alla fine sono usciti pezzi di Cilìa e Del Papa sul loro blog e poi s’è iniziato a capire che il mucchio verrà esfoliato e tutto questo genere di cose, alla fine sono anni che sento raccontare la stessa cosa da angolature diverse e -boh- la prima cosa che viene da pensare, ormai, è che sarebbe convenuto chiudere baracca, mettersi d’impegno, rifondare un’altra rivista -o insomma, un altro progetto dal niente- e vedere cosa se ne sarebbe potuto tirar fuori. magari non ci si sarebbe cavato un ragno dal buco, ma almeno non si sarebbero passati due anni a chiedersi chi ha la colpa di cosa. mettiamo che dovessi fondare un nuovo progetto adesso, che progetto sarebbe? chi chiameresti a lavorare?

L’enorme crisi dell’editoria in genere e di quella musicale in particolare taglia le gambe a qualsiasi ambizione: una rivista indipendente avrebbe ben poche chance di sopravvivere, una sponsorizzata da un grande editore – e quindi in grado di far sapere al pubblico la sua esistenza – non venderebbe comunque abbastanza da giustificare un grande investimento anche promozionale. A livello personale, con l’editoria “ho già dato” quando ho creato “Velvet”, nel 1988: non so se rischierei di nuovo, oggi, di lanciarmi in una simile impresa, a meno che non fossi schifosamente ricco. E non lo sono. Se poi vogliamo fare un discorso puramente ipotetico, una mia eventuale nuova rivista sarebbe una specie di incrocio fra Mucchio ed Extra, con un piccolo settore per cinema, libri e attualità legati (anche solo per affinità) alla musica, con grafica estremamente semplice e un bellissimo sito.  E ci scriverebbero tutti i “miei” attuali collaboratori del Mucchio più tutti quelli “da Mucchio” che purtroppo scrivono su altre testate (Maurizio Blatto, per esempio). Il tutto con autorevolezza ma senza eccessi di seriosità. E, naturalmente, senza cercare di accedere a contributi pubblici.

Capisco il tuo discorso sul ricominciare da zero, ma ti pare che avremmo mai dato questa soddisfazione all’ex direttore? E, comunque, l’idea in questione potrebbe essere applicata solo dalla proprietà: insomma, se per assurdo tutti andassero via, la proprietà continuerebbe a fare uscire in qualche modo il giornale.

Forse hai ragione, quello che mi indispone personalmente è il fatto che tutti i giorni se ne perde un pezzo, Stefani che abbandona la nave o viene buttato in acqua e tutti i tiramolla  tra i vecchi e i nuovi e poi lo strappo con Cilìa e tutto il resto. vabbè. mi citi Blatto, che insomma come si fa a non amare quello che scrive ma è uno ed è pop. tutto il resto più o meno sarebbe immutato sia come forma che come contenuto, quindi insomma lo scenario che mi figuro è sempre lo stesso: le riviste di musica, ma anche i siti, ridotti a lavorare con la stessa gente che ci lavorava 15 anni fa, più o meno, e lette dalle stesse persone che le leggevano allora. Una cosa che scriveva Ceronetti o che io mi mettevo in testa quando leggevo altre cose scritte da Ceronetti è che non dobbiamo avere paura dell’apocalisse, della recessione e del rinnovamento. ti pongo la stessa questione che ho posto ad altri: quello che ci piace di più scrivere e leggere sulla musica è roba perlopiù antiquata e costruita su sistemi di pensiero vecchi come il cucco, che -visto che in qualche modo tu che hai 50 anni ti ci puoi definire un’autorità- è più che giusto vengano abbattuti quanto prima da altra gente con la metà dei nostri anni e che pensa in un modo diverso e più elastico. voglio dire, I DISCHI, la promozione dei dischi, le recensioni dei dischi, le interviste ai gruppi, tutte quelle robe lì, son cose con la muffa. la roba che sta succedendo è tutt’altra, più elastica e tranquilla e senza tanti cazzi. il video caricato sul tubo a sorpresa, kevin shields che minaccia di pubblicare un disco tra due giorni senza averlo fatto sentire a nessuno, questa roba qui. quello che si ottiene col fatto di essere così tanti trentenni in giro per i festival europei è che ci si becca due reunion diverse dei Black Flag la stessa settimana, o che in alternativa Bob Mould finisca sulla copertina di un Blow Up con uno dei suoi dischi più noiosi e allineati di sempre (è la stessa cosa).

Si tratta insomma del fatto che non vedo cose nuove, non so nemmeno che forma potrebbero avere a parte mettere in streaming il disco del gruppo. la prima volta che salta fuori un’idea decente andiamo tutti a compilare il curriculum, e secondo me non è una cosa con cui si può pensare di essere operativi. 

Un bel sito servirebbe appunto ad assecondare tutte le piccole e grandi follie del “moderno”, fungendo al contempo da vetrina promozionale per la rivista. Per come la vedo io, una rivista – magari con distribuzione minima solo in alcune città e in abbonamento – è ancora il naturale complemento di quello che può essere sviluppato sul web, una cosa “in più” che comunque può piacere e interessare a un numero di persone sufficiente a consentirne la sopravvivenza. Qui nessuno ha chissà quali ambizioni o vuole arricchirsi, si vorrebbe solo soddisfare un’esigenza di un pur ristretto pubblico ricavando da ciò un compenso dignitoso. In Italia ci sono sessanta milioni di persone, per campare senza rischi basterebbe essere acquistati da diecimila. Mica voglio cambiare il mondo, mica pretendo di arrestare il progresso… dico solo che conosco un sacco di gente, ultratrentenne ma anche in piccola misura giovane, che ama quello che tu chiami muffa e vuole continuare a viverla, fottendosene se la cosa non è… gggiovane, trendy, cool o come vuoi definirla. A me una rivista di nicchia, per un pubblico di pochi eletti, andrebbe benissimo, e non la vedo così incompatibile con tutta l’infinità di input dai quali siamo quotidianamente bersagliati attraverso la Rete: la gente normale non ha mica il tempo di star dietro a tutto questo circo, e ha bisogno di qualcuno che gli suggerisca a quali musiche, artisti e dischi dedicare le poche ore settimanali che ha a disposizione per lo svago. Kevin Shields minaccia di pubblicare un disco fra due giorni? Ottimo. Ma se l’impegato di Rho quel disco lo ascolta fra due mesi invece di dopodomani… che differenza fa? Bisognerebbe liberarsi – e lo dico anche a me stesso, eh – di tutta questa maledetta frenesia, di questa corsa all’apparire immediatamente sul Web con i propri cazzo di pensieri. E prima o poi, spero, la situazione diventerà più normale: arriva l’onda, ma poi c’è il riflusso.

Ma non è per una questione di giovane o trendy o cool, è una questione di MUFFA. cioè io posso tranquillamente passare il resto della vita a scrivere di dischi e concerti sul mio blog, ma sono un VECCHIO senza ragione di esistere e spero -un giorno non troppo lontano- di dover bussare all’impazzata alla porta di mia figlia urlando spegni questo casino, perchè credo i nostri figli si meritino di scaricarci giù per il cesso in favore di qualcosa di più intenso. e quindi in qualche modo che la loro musica si metta di traverso e voglia negare alla nostra l’esistenza. non so se riesco a spiegarmi. ti faccio un esempio: quando ero ragazzo e leggevo le riviste di musica c’erano le riviste che leggevo io e poi c’erano i Castaldo o Assante o Bertoncelli o i rottinculo che provavano a ficcarti i Pink Floyd in gola, e questa cosa di disprezzare la musica dei Pink Floyd e ascoltare il death metal per me è molto sana perchè ha definito la mia generazione come una cosa che stava succedendo negli anni in cui stava succedendo. oggi un 35enne riesce a capire, o riesce a fingere di capire, qualsiasi musica ci sia là fuori, ma secondo me qualsiasi musica comprensibile da un 35enne è sbagliata. comunque capisco che sono io. 

Ribadisco: ma a me, o a chiunque altro, cosa importa di cosa sia giovane o vecchio? E non è una forzatura voler per forza vedere certa musica come antagonista alla musica e al “sistema” preesistenti? Sono vecchio? E ‘STI GRAN CAZZI, scusami. Al mondo c’è spazio per tutti i punti di vista, e se la psichedelia rigorosamente anni ’60 o il grindcore avessero un pubblico sufficiente a sostenerle, perché mai non dovrebbere esistere riviste dedicate a questi generi, dedicate all’approfondimento di queste cose? Ma basta con questa cazzata delle “rottamazioni”, che ognuno si ascolti quello che vuole lui e non rompa i coglioni a quelli che vogliono ascoltare altro, vecchio o nuovo che sia. La musica rock (e dintorni) è una forma di linguaggio e di cultura come tante altre, che si presta a essere analizzata, storicizzata, contestualizzata SERENAMENTE, senza conflitti generazionali. Non capisco il senso di certa musica elettronica di oggi? Amen, non ne scrivo. Però magari il senso di Dylan e dei Social Distortion lo capisco, e scrivo di quello… che non ha meno valore della musica elettronica o di quello che vuoi tu.

Scusa se te lo dico, ma di rado ho sentito un discorso più fuori del mondo del tuo.

Un altro discorso è quello della distribuzione limitata, voglio dire, se il mucchio lo legge una persona ogni diecimila, cioè tipo 10 persone in tutta Ravenna, tanto vale non distribuirlo, o distribuirlo al negozio di dischi e vaffanculo. quante copie si stampano e quante se ne vendono?

Alla fine si vende circa il 30% di quello che si stampa: quindi, certo, la distribuzione “mirata” sarebbe meragliosa sotto ogni profilo. L’ideale sarebbe che tutti gli affezionati si abbonassero al cartaceo, in modo da fissare una tiratura pari al venduto sicuro. Si potrebbe poi studiare una piccola diffusione nelle edicole solo nelle principali città, e per il resto puntare sui pdf. In ogni caso, si tratta di una faccenda parecchio complessa. Nei negozi di dischi? Si potrebbe fare, magari affidandosi a un Self, un Audioglobe o un Goodfellas, ma non mi sembra che i negozi di dischi se la passino bene… e comunque ci sarebbe il problema dei resi delle copie invendute.

e poi iniziamo a parlare del crowdfunding.

Mio dio, e perché? 😦

Perchè è importante. l’altro mese, ai tempi della tua polemica con Moltheni, ho messo online un pezzo sul crowdfunding che parlava molto in negativo di certe cose che vengono fatte. Di solito quando metto un pezzo del genere arriva qualcuno a darmi del rosicone e mi dice di vivere e lasciar vivere (che nella musica per me è la cosa più sbagliata che si possa fare), invece per il crowdfunding ho trovato quasi solo gente interessata al discorso. e poi alla fine credo che nel 2013 sarai più ricordato per come ti sei messo di traverso in un certo momento, che come uno che ha sostenuto/scoperto questo o quel gruppo. voglio dire, chi ha più bisogno di scoprire i gruppi?

Oddio… sì, certo, negli ultimi anni il ruolo del giornalista che si occupa di musica è parecchio cambiato e in effetti con lo scoprire gruppi c’entra ormai pochino, ma spero davvvero che non sarò ricordato – sempre che lo sarò, ricordato – per avere innocentemente alzato il ditino e affermato, con un post di due righe su facebook, che mi sembrava si stesse iniziando ad abusare malamente di una pratica in sé valida che, fra l’altro, esiste da un bel po’ anche su Internet e che adesso si sta perfezionando o, se preferisci, “industrializzando”. Io non ho assolutamente nulla contro lo strumento crowdfunding e mi va benissimo che Giovanni Gulino o qualsiasi altra persona per bene allestisca una struttura seria per sostenere quanti vogliono applicarlo e che per questo guadagni una percentuale. Però, da addetto ai lavori che in questo ambiente vive e lavora da quasi trentacinque anni, mi permetto di osservare che tutto questo trionfalismo mi sembra eccessivo: ovvio che il crowdfunding può essere di grande aiuto per trasformare alcune belle idee in realtà, ma considerarlo la panacea per tutti i mali della musica italiana è a mio avviso una pia illusione: basti vedere come, immediatamente, chiunque ci si sia buttato a pesce per cercare di realizzare progetti pretestuosi e inutili, anche offrendo prestazioni discutibilissime in cambio del sostegno economico ricevuto. E chissà quante altre ne vedremo.

Il “vivi e lascia vivere” è il nemico non solo della musica ma di tutta questa nostra società di merda. Ma poi, scusa, perché “rosicone”?

beh c’è una mentalità diffusa (specie all’interno della musica italiana) di considerare un pezzo pieno di insulti come il parto mentale di uno che rosica, o di uno che ha dei conti suoi da regolare o cose così. Tipo qualche settimana dopo ho scritto un pezzo sull’ultimo disco dei Baustelle, manco negativissimo, e su Facebook mi hanno dato del nazista e dell’attention whore -oddio dell’attention whore mi son beccato anche oggi a pranzo per una stroncatura dei Muse. Allo stesso momento qualcuno è arrivato nei commenti a dare del minorato a Bianconi, così più o meno a cazzo, che alla fine è come dare del nazo a me per avere scritto il pezzo. Non puoi negare che questa cosa delle ruggini sia una delle dinamiche-chiave, voglio dire, tra te e moltheni (per dire) il confronto non è stato sulle posizioni in merito alla cosa, ma su chi ha insultato prima chi altro e chi si è comportato peggio nel passato… Alla fine la cosa che mi piace di più dei blog è il fatto che nessuno li confonde per delle riviste, e che siano posti talmente piccoli e insignificanti da far sì che ogni tanto ci passi dentro anche qualche pezzo che sa di vero.

Io credo che anche sulle riviste vengano fuori pezzi autentici. E poi, con quello che contano oggi le riviste, non vedo i blog – certi blog, almeno – così insignificanti. Ma poi in questo processo Internet sta facendo danni pazzeschi. Se io stronco qualcuno sul Mucchio, mezz’ora dopo l’uscita in edicola del giornale la mia recensione è “condivisa” e dal trentunesimo minuto in poi i fan si scatenano nel darmi del coglione. La cosa più sorprendente è che alcuni mi scrivono chiedendomi “ma cosa ti hanno fatto?”, e rimangono basiti dalla mia risposta “nulla, non li conosco neppure, penso solo che facciano cagare a spruzzo e trovo che il loro disco sia un oltraggio per la musica”. L’ulteriore replica che immancabilmente mi arriva è “ma allora non potevi far finta che non esistesse?”. E allora mi arrendo.

La storia di Moltheni/Giardini è lì sul mio blog, chiunque voglia farsi un’idea basata su fatti reali e non su chiacchiere, la leggesse tutta.

Beh ma alla fine questa mentalità è basilare, bisogna senz’altro parlarne. per esempio, boh, qualche anno fa davo una mano a un tizio che aveva un’etichetta e lui si prendeva malissimo, MALISSIMO, se gli stroncavano un gruppo. Cioè era seriamente convinto che una persona avesse tutto il diritto di schifare il gruppo a man bassa e non dovesse mentire per nessun motivo, ma che una stroncatura proibisse al gruppo di evolversi, diciamo, e quindi non andava pubblicata. Un’altra citazione che potrei farti è quella del mio amico Enzo Polaroid, che dice che il fatto di NON parlare di un gruppo, nell’evoluzione di internet, sia l’unico vero criterio di esclusione. Ho sempre pensato che fossero cazzate tonanti ma la verità è che un po’ questo approccio lo seguo. Non dico nel non parlare dei dischi brutti (parlo quasi solo di dischi brutti), ma per dire, anche solo nella lista dei dischi che escono non sto a vedere se uno ne parla bene o male ma CHI ne parla. Qualche giorno fa ho ascoltato l’ultimo disco degli hair police perchè l’ho trovato su Nodata, dopo almeno sei anni che non ascoltavo un disco degli hair police, e il disco è pure molto bello. la stessa cosa succede per esempio nel leggere una stroncatura su pitchfork o sul mucchio o dove sia, non lo so. voi per dire sul mucchio avete un numero di recensioni piuttosto misero sul quantitativo totale di recensioni di altre riviste/siti, che mi dicevi è frutto di una selezione. magari la strada è questa, non lo so. che criteri usi per dire se una cosa finisce nelle rece del mucchio o no?

Ho sempre pensato che le stroncature facciano benissimo: possono aiutare a riflettere, a porsi delle domande. Magari non fanno piacere, ma se l’artista stroncato non è del tutto ottenebrato dal proprio ego può ricavarne qualche lezione. Per quanto riguarda il Mucchio, abbiamo optato per recensioni mediamente lunghe (non “francobollini”, insomma) e sempre ben ordinate e visibili (la copertina non manca mai), fregandocene della quantità: visto che scrivere di tutto è impossibile, ogni mese inserisco tutti i dischi più importanti in linea con le tradizioni della rivista, di artisti sia vecchi che nuovi, e un tot delle cose migliori di ambiti più “laterali”. Ogni collaboratore propone quello che lui potrebbe recensire e io tiro un po’ i fili, assegnando poi (o facendo direttamente io) quello che secondo me “manca”. Guardiamo in faccia la realtà: ci sono migliaia di appassionati di musica che, non essendo fancazzisti ma avendo un lavoro, una famiglia e quant’altro, non hanno proprio il tempo e la fantasia di star dietro al delirio delle uscite. Tutti costoro hanno piacere che qualcuno ritenuto competente gli segnali qualcosa di valido e di interessante, quei due-cinque-dieci dischi al mese che magari potrebbero piacergli. Un sacco di gente se ne strafotte delle centinaia di altri dischi che potrebbero appassionarli, anche perché sa che non avrebbe la possibilità di ascoltarli/approfondirli tutti: preferisce, invece, che qualcuno gli dica “ecco, prova questa band all’esordio” e che gli faccia sapere come sono gli ennesimi album dei suoi artisti preferiti, quelli che segue da sempre.

Ultima cosa. Se uno mi dice il tuo nome io in genere lo associo al nuovo rock italiano nel senso del libro di alberto campo, per capirci, quelle robe che andavano come il pane una dozzina di anni fa e che poi hanno avuto la loro (non) evoluzione. io mi ci sto iniziando ad affezionare nell’ultimissimo periodo perchè i gruppi stanno iniziando ad avere sempre meno senso del reale; gli afterhours di padania, per dire, o i bachi da pietra dell’ultimo disco sono gruppi fuori dal tempo, hanno questi dischi che suonano fuori controllo e quasi collassati sui nervi. I baustelle han fatto un concept album (bellissimo, peccato per i testi) sui sepolcri, l’ultimo disco dei verdena era tipo Tommy, robe così. ci son gruppi tipo lo stato sociale che hanno perso quasi tutto il senso dell’umorismo che si richiederebbe alla musica che suonano e in questo (ok, per me) diventano roba grandiosa, odio puro in formato pop plastificato. non lo so, la domanda credo sia -come ti sembra questa roba rispetto a quello che era dieci o venti anni fa? è comunque questa la roba da ascoltare? ce n’è altra da ascoltare di più?

Mi occupo assiduamente di rock italiano dal 1980, non solo di artisti famosi ma anche di emergenti, e quindi l’accostamento è più che legittimo, anche se è solo uno dei miei campi d’azione professionali. Capisco cosa vuoi dire e, sì, non hai torto: molti gruppi e solisti affermati – e i tuoi esempi sono azzeccatissimi – sembrano puntare a produzioni sempre più complesse, sofisticate e concettuali, anche se con un linguaggio che quasi sempre rimane rock e spigoloso. Se però vuoi paragonare costoro alle star del progressive degli anni ’70, e quindi roba come Lo Stato Sociale al punk, credo tu sia fuori strada. Per come la vedo io, non c’è nessun odio: sono solo cazzeggi e pantomime di gente priva di talento che pensa a divertirsi, a giocare a fare la pseudo-rockstar con tutto ciò che questo comporta in termini di fama su YouTube e Rockit, concerti pagati anche decentemente, ubriachezza molesta ed eventuale sesso promiscuo. Non ci sono intenti pseudo-rivoluzionari e non c’è nessuna ingenuità o naturalezza: sono solo paraculate costruitissime volte all’autogratificazione, non è rock’n’roll né tantomeno arte: sono miserie di stagione, buone al massimo per farsi due risate, che di sicuro non dureranno. Molta della musica di dieci e vent’anni fa era fatta per durare, e infatti ancora dura. Poi, certo, per qualcuno la musica da ascoltare sarà questa, ma non lo è per me: io amo la musica che trasmette sensazioni ed emozioni forti, o che quantomeno abbia fra i suoi requisiti una certa “classe”.

Non la penso così. o meglio, c’è una cosa interessante che dici tra le righe, che è quella delle dinamiche. cioè che in qualche modo la nostra idea sulla musica (in questo caso dello Stato Sociale, per dire) è che debba riprodurre una dinamica già vista in passato, l’idea della rottura, l’idea di punk. per dire, oggigiorno chiunque si riempie la bocca di punk quando evidentemente mancano proprio le basi concettuali su cui il punk si è costruito e imposto, o non imposto. il fatto che si possa fare un disco in cameretta e che questo disco rispetti ogni canone di professionalità e vendibilità mi sembra innegabile, vedi ad esempio I Cani che sono una one-man-band da cameretta e al contempo il grande evento di pop italiano del 2011. però i Cani non sono punk, mi sembra un’offesa al punk e a noi stessi e soprattutto ai Cani che sono molto più complessi e contemporanei. Sono un gruppo che fa una cosa oggi in un modo che è diverso da come poteva essere negli anni ottanta o novanta o primi duemila. Lo Stato Sociale ha una sensibilità ancora diversa, degli altri obiettivi e un modo diverso di porsi. La stessa cosa succede a un sacco di altri gruppi, anche internazionali ma io la vedo molto nella musica italiana. Persino Trucebaldazzi, che alla fine per uno come me è l’incarnazione stessa del punk, in realtà è tutta un’altra cosa, un fenomeno puro che non c’entra né col punk né col rap né col pop. Questo sarebbe poi lo stesso discorso di cui ti parlavo sopra, siamo legati a dei canoni critici che ci stanno morendo e noi facciamo finta di niente, o semplicemente non comprendiamo le cose e proviamo a ricontestualizzare tutto. anche solo l’idea che dicevi sopra di internet, “internet ha fatto dei danni qui e ha aiutato qua”, non credo si possa più pensare al modo in cui “internet influenza la musica”. sarebbe come dire “in che modo il CD influenza la musica?”. la musica è su CD ed è su internet. forse si potevano fare dei discorsi del genere fino al 2000, ora non credo. Tra qualche giorno arriva in italia Spotify, tutta la musica a cui si può pensare in streaming legale. Non si può essere pro o contro Spotify, per dire, o pro/contro Soundcloud, stanno lì, è un po’ come essere contro la fine del PCI. no?

Tutto molto sensato, ma ciò non significa che tutto il mondo debba adeguarsi alla modernità reale o presunta, o essere “contro” questa modernità. Per come la vedo io, che ho una certa età ma che vorrei tanto essere molto più vecchio invece che molto più giovane, vedo solo un’assurda, demenziale corsa a chi è più aggiornato: tutti a star dietro all’ultimo smartphone, all’ultima applicazione, all’ultimo giochino on line, all’ultimo blog alla moda, all’ultima band con il nome stupido, all’ultimo ritrovato per salvare la musica. Io, e come me tanti altri, osservo tutto ciò e lo analizzo secondo i miei parametri, che sono gli stessi di tanti altri. E scelgo come muovermi, come regolarmi, anche contestualizzando in base a parametri che ritengo comunque validi. In ogni caso, lo Stato Sociale o chi per loro non sta facendo proprio nulla di “nuovo”, non fa altro che adattare all’oggi una serie di concetti che esistono da quando esistono il rock e il pop e forse anche da prima che esistessero. Quindi, per quale motivo dovrei dire che “non comprendo”? Io credo di comprendere, anche perché non vivo in una torre dalla quale pontifico: magari vivo l’attuale “società musicale” con un certo cinismo, un certo distacco dato dall’esperienza, ma non penso di essere meno lucido di un ventenne che di tutto quello che è successo ieri non sa nulla. Anzi, penso esattamente il contrario: conosco quello che succede e lo valuto secondo canoni che mi sembrano tuttora adeguati, al di là di qualche piccola contingenza. Ho vissuto in diretta l’ascesa dei cantautori italiani, il progressive, il krautrock, il punk e il post-punk, l’hardcore, il neo-Sixties, il grunge, lo shoegaze, il post-rock, il britpop, il nu-metal e tutto il resto, e ho raccontato molti di questi fenomeni in modo – credo – corretto… e adesso dovrei sentirmi inadeguato di fronte a Lo Stato Sociale? Dai, su.

nelle puntate precedenti:

il listone del martedì: OTTO COVER NON DISPREZZABILI DEI JOY DIVISION

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Tra i prossimi listoni ci sarà qualche episodio sulle cover. Siamo partiti qualche tempo fa descrivendo le cover più brutte della storia come deterrente per realizzarle, e nel caso concreto parlavamo del fatto che (a parte Woven Hand e gli Swans) uno dei modi più sicuri di sbagliare è di coverizzare appunto un pezzo dei JD a caso tratto dalla nutrita discografia di inediti del gruppo -la quale per molti si riduce alla sola Love Will Tear Us Apart, ma in un caso o nell’altro stiamo parlando comunque di uno sport del cazzo. A parziale (totale) smentita di quel discorso, siamo a mettere in fila otto esempi di cover dei Joy Division ed affini i quali ci fanno stare bene nonostante lo sport in sè continui a essere ignobile. Per lamentele e cose così abbiamo una sezione commenti apposita, è obbligatorio l’indirizzo email ma potete metterne uno falso.

GIRLS AGAINST BOYS – SHE’S LOST CONTROL

“Nei concettuali anni ’90, i concetti più anni ’90 della storia umana erano non tanto i Girls Against Boys (gruppo dal design del tutto inconcepibile oggi, che all’epoca incredibilmente sembrava nuovo e fico e proibito e misterioso come, immagino, i ragazzi oggi percepiscano gentaglia come Health o Japandroids, che conosco di sfuggita e che abbino solo perché li vidi insieme sulla locandina di un concerto a cui non andai), quanto gli album di tributo. Negli anni ’90, chiunque ebbe un album di tributo, persino i Nomadi, i canti partigiani e i Joy Division. A Means to an End, che in realtà comprai perché conteneva un pezzo degli Smashing Pumpkins sotto falso nome (una risibile cover di Isolation), includeva almeno due grosse verità: l’unico buon pezzo della carriera di Moby (New Dawn Fades), e questa She’s Lost Control, entrambe heavy e anninovantissime, e ben superiori agli originali, cosa che torno oggi a dire senza vergogna nonostante io abbia passato gli ultimi diciassette anni a fingere di preferire una pacchiana voce baritonale su di uno scarno rullante a delle grasse, grosse chitarre distorte ed effettate. Negli anni ’90 si pagava tributo a chiunque, eppure non esisterà mai un posto meno asservito dove vivere.” (Ashared Apil-Ekur, che la mette in questa lista)

SWANS – LOVE WILL TEAR US APART

Di tutti quelli che ci han provato, la maggior parte ci ha provato con il pezzo più difficile da coverizzare, vale a dire Love Will Tear Us Apart, la canzone dei Joy Division che piace di più ai non-fan dei Joy Division –e quindi per contrappasso quella che piace di meno ai fan, i quali si tengono volentierissimo lo Ian Curtis pacificato delle varie Atrocity Exhibition e continuano ad ascoltare black metal con l’altra mano ed inalare il fetore delle carogne di animali per essere sicuri di farsi il viaggio al centouno per cento. Gli Swans, per la sola ragione di essere gli Swans E in segno di spregio, ne hanno fatte non una ma DUE versioni migliori dell’originale, una cantata da un annoiatissimo Michael Gira e l’altra da un’altrettanto annoiata Jarboe. Nessuna delle due la ascolto da anni, ma mi fido della memoria perché altrimenti arrivare a farne una decina è una pena.

SIXTEEN HORSEPOWER – HEART AND SOUL

Esistono diversi modi di sputtanare il tuo gruppo, uno dei quali è pubblicare una cover moscia e tremenda di Day of the Lords nel tuo disco dal vivo (un altro bel fail del disco dal vivo dei 16 Horsepower era che c’era allegato un biglietto con la VERA tracklist del disco perché quella stampata dietro era sbagliata, credo l’unico caso in cui questa cosa era successa). Soprattutto se da anni stai girando per i palchi di tutto il mondo con una paurosissima et spiritatissima cover di Heart and Soul nella quale a metà pezza sia tu che il tuo pubblico vi ritrovate a parlare coi fantasmini e a perdere la fidanzata (quello solo il tuo pubblico, in tuo favore). Ancora oggi che ha cambiato nome in Woven Hand (senza prendersi il disturbo, tra le altre cose, di cambiare membri del gruppo) porta in giro la cover di Heart&Soul per mandare fuori gli astanti e farsi fare i commenti dalle tipe, cosa che –per dire- con Ian Curtis non sarebbe successo o sarebbe successo solo in un contesto anni settanta/ottanta; le tipe hip lo avrebbero schifato in quanto sciatto e privo di una consapevole estetica anni settanta/ottanta.

CODEINE – ATMOSPHERE

Questa viene sempre dal tributo di metà anni novanta, appena dopo Transmission rifatta dai Low per mettere in chiaro qual è la differenza che passa tra i Codeine e qualsiasi altro gruppo slowcore. Tra l’altro in occasione del disco tributo si viene a scoprire che Atmosphere è una canzone dei Codeine scippata in malo modo dai Barney Sumner e compagni, velocizzata senza nessun diritto di farlo e buttata fuori a coprire l’evidente lacuna nel repertorio JD di un pezzo alla Codeine velocizzato. Forse sto esagerando perché stamattina mi è finita nell’autoradio mentre venivo al lavoro con una nebbia del cristo, rendendomi il più bolso e meteopatico ascoltatore di postrock sulla faccia della terra.

NINE INCH NAILS – DEAD SOULS

Per la colonna sonora del Corvo sono stati compiuti ben due miracoli, la parola miracoli intesa come sinonimo di cover metal di pezzi wave che non mandano tutto in vacca. Nella fattispecie Ghost Rider dei Bauhaus rifatta dalla Rollins Band e Dead Souls, sempre dei Bauhaus, rifatta da Trent Reznor basandosi sull’idea geniale che se tieni un ritmo dritto tanto vale tenerlo appunto dritto, mandargli dietro una chitarra e mettere un effettino sulla voce. Su quest’ultima cosa non gli va benissimo e comunque soccombe sull’originale, ma la scena di Brandon Lee che corre sotto la pioggia e sopra ai tetti con sotto la cover di Dead Souls fatta dai Nine Inch Nails ha un suo sporchissimo perché. Molto meglio del pezzo dei Cure, per dire, forse perché i Cure mi son sempre stati molto sui coioni (tra le cover dei Cure migliori degli originali, per dire, c’è Close To Me rifatta dagli Zero Assoluto con il titolo Per Dimenticare).

OFFLAGA DISCO PAX – VENTI MINUTI

Non è una cover in senso stretto ma è comunque il miglior pezzo di sempre degli Offlaga Disco Pax, quello più bastardo a livello emotivo e quello più nudo e sensato partendo dall’ottica del gruppo (prima o poi ammetterò a me stesso che odio gli emiliani per ovvi motivi ma degli Offlaga Disco Pax non penso poi così male). Quando nella seconda parte arriva la citazione di She’s Lost Control, come disse da qualche parte il redattore Martin Vega, è effettivamente difficile tenere a freno la lacrimella.

THE GET UP KIDS – REGRET

Quando registrarono Republic, nei primi anni novanta, i New Order avevano cambiato pelle una decina di volte e battuto ogni strada battibile negli anni ottanta, devastati di acid test e crollati a picco in una spirale di rock emotivo del quale Regret è lo specchio più grandioso. Oltre a questo, Regret è un po’ la negazione ultima di essere mai stati i Joy Division, il che rende la cosa abbastanza squillante da ammazzarci definitivamente quando la stessa Regret viene ripresa dai Get Up Kids e coverizzata come se fosse una outtake di Something To Write Home About. Stiamo andando un cicinino fuori tema, magari.

SWING KIDS – WARSAW

La cover più sconvolta dei Joy Division mai messa in piedi è in realtà una cover di Warsaw, suonata dagli Warsaw appunto e risuonata dagli Swing Kids in una tiratissima versione alla Swing Kids. Se vogliamo farci delle seghe mentali è pure una versione piuttosto importante dal punto di vista storico, nel senso che è da qui –tra le altre cose- che parte tutto un movimento accacì pesantemente influenzato dal postpunk che sfocerà in un decennio di musica a cassa dritta risuonata senza vergogna uguale identica agli originali (fui piuttosto scioccato quando mi dissero che il padrone di Level Plane era il batterista degli Interpol, oggi non lo sarei più). È tutto un magna magna.

QUINTALE.

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Non so se qualcuno ha usato la parolaccia con la M parlando dell’ultimo disco dei Bachi, nel caso credo stiano tutti aspettando che qualcuno cominci. Il nuovo disco dei Bachi da Pietra segna una svolta verso territori hard-blues-sludge-stoner-noise-aggro-core, vent’anni di leggere recensioni e ormai non mi fate più un baffo, potete dirlo che avvertite non so dove non so come che il nuovo disco dei Bachi da Pietra è METAL. Io lo sto ripetendo da venti minuti e mi sento molto meglio rispetto a questa mattina. Questa mattina ascoltavo Quintale in macchina e lo non-capivo con la mia solita nonchalance, ritirando fuori nella mia testa una miriade di gruppi che c’entrano un casino ma che non sono il punto: Hammerhead, Janitor Joe, primi GVSB, ovviamente Melvins (tutti i gruppi con una chitarra mi ricordano i Melvins) e tagliamola pure con certi deliri jesuslizardiani, l’insofferenza nei confronti della vita di un Fausto Rossi e qualcosa di macilento che lavora da sotto tipo una versione veloce dei primi Cathedral con Lee Dorrian che canta come se fosse ancora nei Napalm Death e via di questo passo. Di seguito ho passato la giornata lavorativa dentro l’ufficio canticchiando parola di Paolo, Paolo, Paolo, Paolo il Tarlo e lasciando che il mio collega si chiedesse se avevo sbroccato o meno per via della fotta di vedere che figura farà Berlusconi tra qualche ora davanti a Travaglio e soprattutto che figura farà Travaglio davanti a Berlusconi alla stessa ora.

E mentre trovavo una scusa qualsiasi per uscire dall’ufficio e andare a ricaricare 400 euro sul postepay da puntare online su Berlusconi che lascia lo studio entro 4 minuti dal primo scambio di battute, ho avuto l’illuminazione. Il quinto disco dei Bachi da Pietra è METAL. Un normalissimo e volgarissimo disco heavy metal, una roba che verso fine degli anni ottanta mi piace pensare ne uscissero sedici o diciassette al mese di questo livello, musica estremamente cafona ed estremamente arrabbiata ed estremamente cafona nel suo essere estremamente arrabbiata, testi di stampo fantasy, scale di chitarra, batterie rovinose e gente infoiata con la tecnica e il suono dall’inizio alla fine del disco. Poi le chitarre si doppiano e si triplicano come nei dischi degli Iron Maiden e la gente inizia a pensare che questa è la cosa più tamarra e meno spontanea della storia della musica, una cosa artificiosa, finta basata su premesse ideologiche farlocche e su valori morali che hanno quel che di protofascista (il desiderio di primeggiare, la lotta per la sopravvivenza, la delazione eccetera). Naturalmente solo dei dementi o degli ascoltatori senza spina dorsale possono pensare che queste cose siano classificabili come difetti, specie visto che stiamo parlando di un disco METAL. Al primo passaggio sullo stereo, Quintale sembra il disco più farlocco e sbagliato della storia. Cose tipo Fessura te le ascolti e sembrano un ripescaggio a buffo dei Litfiba di Spirito, la prima parte di Pensieri Parole Opere è cantata in un inglese stile Alberto Sordi, il pippone finale di Baratto sembra la lamentela contro il governo di un vecchio al bar. Dal secondo ascolto in poi si inizia ad entrare nel meccanismo. Contrariamente a quanto scritto quasi ovunque (“estremamente violento ma estremamente accessibile”, l’avran copiato dalla cartella stampa), Quintale è un disco METAL estremamente difficile e insidioso: Succi e Dorella ci blandiscono con promesse di riffoni facili e rovesciano la baracca a furia di sbroccare gratis. Escono fuori incroci impossibili tra cock rock e Rollins Band in Brutti versi, escono fuori bordate da primi della classe a partire da premesse senza costrutto. Viene in mente, soprattutto, quella sensazione di non starci dentro per la violenza della musica e di volerne comunque avere ancora a pacchi, una sensazione che ci ha fatto innamorare della musica METAL (ed evitare che le ragazze si innamorassero di noi e ci distraessero dal nostro volere PIÙ METAL) e che ormai riusciamo a provare se va bene una volta ogni anno e mezzo; una sensazione per cui devi essere tagliato, naturalmente, e non faccio una colpa a nessuno di quelli che si sentiranno –giustamente- esclusi a calci da Quintale e lo troveranno una cosa dozzinale crassa stupida cafona e in generale troppo METAL per volerci avere a che fare. Disco dell’anno.