STRATEGIA DELLA TENSIONE EVOLUTIVA #3 – Amadeus imita Jovanotti a Tale e Quale Show (con gli ovvi richiami ad Amedeo Minghi)

(pezzo a quattro mani, Franci + Accento Svedese)

Francesco F Senti scusa, mi hai girato un video di Amadeus che canta Ragazzo fortunato di Jovanotti al Tale e Quale show e ora sarò di cattivo umore per tutto il giorno nonostante qui abbia potuto vederlo soltanto senza audio. La prima cosa a cui ho pensato è che diocristo con quella barbina e quei capelli lì Amadeus è davvero la  copia un po’ sciapa di Costantino della Gherardesca, il che tutto sommato implica che uno dei massimi intellettuali italiani della nostra epoca è fisicamente il mashup tra Amadeus e Lorenzo Cherubini con la vergogna che basta a non vestirsi come uno dei due. C’è altro? Dimmi dell’audio, ti prego. Dimmi perchè. Dimmi perchè Gabriele Cirilli che parrucca PSY e Gangnam Style non è -evidentemente- un punto d’arrivo. 
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Accento Svedese Pensa se avessi sentito l’audio. Amadeus è stonatissimo ed in sovrappiù per imitare Jovanotti fa la zeppola, con l’unico risultato di somigliare più a Max Tortora che imita Silvio Muccino che imita Amadeus che imita Jovanotti – una cosa psichedelicissima e pericolosa, insomma – che a Jovanotti stesso.
Poi canta Ragazzo fortunato, il cui testo, se applicato alla triste figura di Amadeus, si trasforma all’istante in un delizioso ossimoro. Amadeus, che ormai è talmente alla frutta da ridursi a partecipare a quel fantasmagorico carrello dei bolliti che risponde al nome di Tale e Quale Show (a proposito, ci sono anche Fabrizio Frizzi, Riccardo Fogli e financo Gabriele Cirilli, che l’ultima volta ha imitato Wanda Osiris ma quando dalla regia hanno fatto partire Gangnam Style ha iniziato a ballare come PSY – meglio dei barbiturici con l’alcool, insomma) perchè artisticamente parlando non si è mai più ripreso dal suo jumping the shark, il litigio con Pedro all’Eredità, che istantaneamente ha trasformato Pedro in una celebrità sotterranea ed ha rappresentato l’imbocco del viale del tramonto per il buon Amadeus.
Amadeus, che a Deejay Television quando ero piccolo veniva sfottuto da tutti (Fiorello compreso – ricordo una puntata estiva all’Aquafan in cui Fiorello canzonava Amadeus perché si era ustionato naso e faccia) e che continuo a chiedermi come abbia fatto ad arrivare così in alto, in quell’imitazione ha stonato tantissimo, si è rotolato per terra, ha baciato Loretta Goggi, ha entusiasmato la sua compagna Giovanna Civitillo, ha imbarazzato perfino quel gran maestro di classe & stile che risponde al nome di Claudio Lippi ma ci ha fatto assistere a quella che nel suo complesso è stata una delle scene televisive più tristi ed imbarazzanti di sempre, e questo basta. Quell’imitazione di venerdì sera in prima serata – che più che un’imitazione è un autentico rip-off – sta lì a certificare che Jovanotti è diventato uno dei più grandi intellettuali pop italiani senza nemmeno rendersene conto, anche se spiegare bene il perché è molto difficile.

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E VOTATECI, diocristo. (Bastonate for Macchianera ’13)

Per la prima volta Bastonate concorre ai Blog Awards. In realtà non si chiamano più da un pezzo “Blog awards”, ora sono i Macchianera Italian Awards e a sancirlo informalmente c’è il fatto che Bastonate è (assieme al mai troppo lodato Pop Topoi) l’unico blog che concorre per la categoria musicale.

Essendo che corriamo contro gente tipo MTV, Rolling Stone, Radio Deejay e il Mucchio, dubitiamo ci sia posto per noi che non sia l’ultimo. Essendo non da oggi amanti del combattere battaglie stupide, senza senso e perse in partenza, combatteremo anche questa con un briciolo di accanimento. Anche perché la blogfest quest’anno è a Rimini ed io ho intenzione di presentarmi alla premiazione. Se posso permettermi, aggiungo al pezzo i miei consigli per votare nelle altre categorie su cui ho un’opinione.

Aggiungo anche che, essendo le nomination basate sulla segnalazione delle persone, grazie grazie grazie a chiunque ci ha segnalato come miglior sito musicale. Non so chi siete né quanti siete ma sto passando uno strano momento di giuoia. Qui le votazioni.

Miglior Sito Diecimila Me (diecimila.me)

Miglior Personaggio Azael (twitter.com/azael)

Miglior Rivelazione Vice Italia (vice.com/it), unica categoria in cui è candidato, per me miglior sito senza problemi. Beh, ci scrivo pure io quando capita.

Miglior Articolo  Ma pensarci domenica? (leonardo.blogspot.it/2013/03/ma-pensarci-domenica.html)

Miglior Community ItalianSubs (italiansubs.net)

Miglior sito di News ANSA (ansa.it)

Miglior sito di Satira Lercio.it (lercio.it)

Miglior Battuta  Se continua così, questo papa finirà per far sembrare un pezzo di merda pure Gesù Cristo. (Azael)

Miglior Disegnatore-Vignettista Zerocalcare (zerocalcare.it)

Miglior sito Televisivo sempre ItalianSubs (italiansubs.net)

Miglior sito Cinematografico fortissimamente  I 400 calci (i400calci.com)

Miglior sito Musicale  Bastonate (mi autovoto, anche. Non servirà ma è scaramantico). (bastonate.wordpress.com)

Miglior sito Letterario Barabba (barabba-log.blogspot.it) E DIOCRISTO MANDIAMOCELO IL MANY IN PEDANA DAI.

Miglior sito Fashion Matiseivista? (matiseivista.com)

Miglior sito di Economia  Il Sole 24 ore (sono un classicista) (ilsole24ore.it)

Miglior sito Educational Wikipedia Italia cioè in linea di principio è l’unico che conosco ma lo uso abbestia insomma (it.wikipedia.org)

Miglior sito Politico-d’Opinione  Leonardo (leonardo.blogspot.it)

Miglior Radio-Podcast Radio 24 per via delLa Zanzara (radio24.ilsole24ore.com)

Miglior sito di Viaggi e Turismo TripAdvisor (tripadvisor.it)

Miglior pagina Facebook  Siamo la gente il potere ci temono (facebook.com/SiamoLaGenteIlPotereCiTemono)

Miss Internet Andrea Delogu (twitter.com/andreadelogu)

Mister Internet Azael (twitter.com/azael)

Peggior Flop Parlamentarie del Movimento 5 Stelle (beppegrillo.it/parlamentarie.html) o  Quirinarie del Movimento 5 Stelle (goo.gl/DwljdI), o anche l’Huffington Post Italia, scegliete pure quell che vi pare.

Miglior Fake Casalegglo (twitter.com/casalegglo)

PAESE REALE – Lo spiegone.

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Non dico che scrivo per passione, ma quando scrivo sono abbastanza contento e qui sopra lo faccio gratis. Quello che scrivo è basato su qualche assunto di base, elementi di etica/morale e di linguaggio che mi sembrano scontati, tra cui una cosa sulla gente che decide di mandarmi un disco via email: se mi mandi un disco, vuoi sapere cosa ne penso io. Un paio di mesi fa ho scritto dieci recensioni (perlopiù negative) di dischi tra quelli che c’erano arrivati via email. Alcuni gruppi manco le hanno lette, altri le hanno lette e non hanno scritto, alcuni si sono incazzati apertamente, altri hanno ringraziato. Tendenzialmente se stronchi un gruppo malcagato ti becchi un sacco di accuse: accanirti contro dei poveracci malcagati, usare dei gruppi senza potere per fare due accessi in più, sputare merda sopra gente che si sbatte, ruggini pregresse, incompetenza manifesta, dente avvelenato, sensazionalismo, frustrazione sessuale. Qualcuno, nel dubbio, arriva a darti pure del fascista: ci sta, naturalmente. In generale è uno sport ingrato, passi due anni a provare e risparmiare soldi sulle birre per poterti pagare tre giorni di studio e massacrarti a registrare cinque pezzi che non venderanno; poi mi mandi il disco e io te lo stronco male. Fossi un musicista, probabilmente non registrerei nemmeno il disco. Se volessi le recensioni le manderei a gente di cui mi piacciono i gusti. Non spedirei nessun disco alle redazioni, giusto per essere sicuro che (boh) la rece su Rumore non sia firmata da quella gente tipo Ester Apa.

Questa cosa che chi stronca non ha rispetto dei gruppi è permeata nel mondo delle riviste e delle webzine, riducendo il tutto a un discorso tipo “se è figo ne parlo bene, se fa schifo non ne parlo proprio”. Una volta le linee editoriali venivano scavate a viva forza pisciando sui gruppi: questo ha fatto un disco del cazzo, questo ha fatto un disco bello. Soppesavi la firma, traevi le tue conclusioni e decidevi da che parte stare. Oggi non funziona più: la gente che scrive, generalmente, è considerata amica o nemica sulla base di un rapporto pezzi positivi fratto pezzi negativi. Questa cosa ha reso la recensione un genere narrativo che confina con l’agiografia, e dopo qualche anno di questo andazzo stan tutti a dire che bisogna superare il formato classico della rivista e basta con le recensioni che se voglio valutare il disco lo scarico. In realtà quello che abbiamo perso è la considerazione di chi scrive di musica. L’assunto di base di cui ho parlato sopra non è contemplato dal gruppetto o dal suo ufficio stampa: per loro l’assunto è che mandano il mediafire a cinquecento persone e dopo due mesi ci sono trenta recensioni da mettere nella cartella stampa. Cose che succedono davvero: un musicista ti scrive incazzato perché gli hai stroncato il disco, magari ti accusa di non averlo ascoltato con sufficiente attenzione, tu gli rispondi “come ti aspetti che parli del tuo disco il mio sito?” e lui ti risponde ancora più infuriato che “non è che posso passare la vita a leggere i siti di musica”.

Da oggi qua dentro apre un nuovo spazio fisso, a cadenza non so se mensile o che altro. Si chiama PAESE REALE e recensisce alcuni dei dischi che arrivano via email, allo scopo di ritrovare in qualche modo un senso in tutta la faccenda. Anche se suona stupidissimo, prima di postare le prime recensioni vorrei mettere in chiaro quali saranno le regole:

1 I dischi che recensisco mi sono stati segnalati da qualcuno: arrivano per posta, per email, tramite facebook o qualsiasi altro canale. La mail a cui potete mandare le vostre cose è disappuntoCHIOCCIOLAgmailPUNTOcom.

2 Non è detto che io ascolti tutti i dischi che mandate. Mi arrivano un disco o due al giorno, più i dischi che mi interessano, più i dischi che non mi interessano ma vanno ascoltati per capire di che cazzo parlano le riviste (quei gruppi tipo Alt-J o Altar of Plagues o chi volete voi insomma): fanno una ventina di dischi a settimana, se va benissimo ne ascolto la metà, se taglio qualcosa taglio i dischi che devo ascoltare.

3 Ascolto tutti i dischi che recensisco (o se non li ascolto lo dico chiaro e tondo), ma non è detto che li ascolti dalla prima all’ultima nota. Magari di alcuni ascolto metà del primo pezzo, decido che ne ho le palle piene e scrivo il pezzo.

4 La responsabilità dei dischi che ascolto/ascoltiamo è VOSTRA. Leggetevi il pezzo, leggetevi il blog, leggetevi quel che scrivo e mettetemi pure in copia carbone alle vostre email, ma se vi seghiamo il terzo EP non venite qua a recriminare.

5 Alcuni di quelli che mi mandano dischi vanno a finire nello spam. Spesso ci finiscono per questioni di sfiga. Più spesso ancora ci finiscono perché in passato ho cliccato “segnala come spam”. Potrei aver fatto un errore, ma è più probabile che l’errore l’abbiate fatto voi.

6 Non odio nessuno di quelli che mi mandano i dischi, anzi molte grazie a tutti, ma mi riservo il diritto di sentirmi offeso e odiare la vostra musica. La maggior parte delle volte ascolto il vostro disco invece di guardarmi un film o di fare un disegnino o di ascoltare dischi migliori.

7 Il modo in cui scegliete di presentarvi influisce molto nel giudizio sulla musica. Se assieme al disco mi mandate una presentazione in pdf potrei leggerla, odiarla e stroncarla senza aver sentito il disco. Il nome del gruppo e il titolo del disco influiscono nel giudizio sulla musica. I testi che scrivete influiscono nel giudizio sulla musica. La vostra pronuncia dell’inglese influisce nel giudizio sulla musica. La vostra foto influsce nel giudizio sulla musica. I vostri vestiti influiscono nel giudizio sulla musica. I gruppi che citate influiscono nel giudizio sulla musica.

8 Non sono un musicista, non ho mai registrato un disco, non ho mai posseduto un’etichetta, so distinguere a malapena una chitarra dall’altra. Le recriminazioni tipo “sei incazzato perché non ti caga nessuno” o “vediamo cosa saresti in grado di fare tu” mi fanno una pippa.

E basta, direi. Entro stanotte metto online le prime recensioni.

STREAMO/TrueBelievers/StareBene/DISCONE e altre cose sul nuovoWolf Eyes

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La prima volta che ho letto il nome Wolf Eyes, come quasi tutti in Italia, è stato su Blow Up. Erano i primi anni duemila e si parlava con un certo entusiasmo di qualche uscita a loro nome, poi collegata a tutto un discorso di nuova musica wave e nuova musica industriale, che tuttora mi ronza nelle orecchie. Ho letto e sedimentato, un momento in cui Blow Up e la musica sembravano nutrirsi a vicenda di questa sorta di energia che li spingeva tutti nella stessa direzione. Ho scoperto abbastanza presto che i Wolf Eyes erano, effettivamente, uno dei gruppi più interessanti del periodo: registrazioni carbonare licenziate sul mercato a botte di venti o trenta l’anno, nei formati più disparati e con in calce nomi di etichette assurdi che negli anni a venire avrebbero ossessionato un intero immaginario. Anche solo metterne in condivisione i dischi su Soulseek ti faceva sentire un punk di prima categoria o una specie di grande diffusore della Cultura, a cui un certo punto persino il mondo esterno prima o poi sarebbe arrivato riconoscendo implicitamente il nostro ruolo di teste di ponte (c’era già arrivato, ovviamente, due minuti prima di noi). Ho scoperto abbastanza presto che essere fan dei Wolf Eyes e del NOISE richiedeva una dedizione ed uno stipendio assolutamente maggiori di quelli di cui disponevo ai tempi. Dischi in vinile colorato stampati su un lato solo e tirati in poche decine di copie; cassette a tiratura ugualmente limitata smerciate più o meno a caso ai banchetti di qualche festival europeo a tema in cui era possibile assistere alle performance; amici che risparmiavano per mesi prima di quell’evento e si portavano a casa edizioni immancabilmente limitate e scrause pagando trecento euro a botta; si fa presto a sentirsi inadeguati, uomini non-nuovi, adepti di seconda o terza categoria destinati a una più che prevedibile abiura del NOISE una volta che quei suoni fossero passati di moda.

L’unico modo di continuare a quei livelli, nel noise, è di diventare artista. Ovviamente a un certo punto lo faccio, un po’ lo facevo anche prima ma ora lo faccio con uno spirito. Lo stupore intrinseco alla scoperta che certa musica può interessare a qualcuno che non sei tu. Registro cose con un mangianastri, aggiungo stronzatine fatte con una strumentazione rimediata e composta (vado a memoria) da tre pedali, un mixer, una tastiera, qualche microfono a contatto piazzato ovunque, un vecchio lettore CD dotato di un tasto per i loop e via; il pezzo forte era un Kaoss Pad 2 comprato a un centinaio di euro ad un amico, utilizzato un paio di volte e ributtato nel cestino. Il valore artistico della musica oscillava quasi sempre tra il ripugnante e l’inascoltabile, e le cassette/gli mp3 sono giustamente rimasti in un cassetto finchè la vita è andata necessariamente avanti e mi ha imposto di buttare le macchinette e ricominciare, boh, a disegnare; la mancanza di dedizione alla CAUSA ci ha imposto di rivedere il nostro asse critico ed abbiamo più che volentieri declassato l’harshnoise a un baraccone di idioti che (a parte pochi nomi, dei quali peraltro manco eravamo così convinti) sfruttava l’hype intorno a Wolf Eyes e simili come un trampolino di lancio per fare cagnara con macchinette autocostruite invece che con le vecchie autoghettizzatesi chitarre, senza alcuna idea alla base della musica stessa a parte il puro casino e a qualche cicatrice autoinflitta nei fortunatamente rari concerti dal vivo. Per poi bollarlo come una sega mentale artsy-fartsy non appena abbiamo visto comparire (tipo ai tempi dell’esplosione di un Prurient) il sospetto che la musica di qualcuno si fosse estesa oltre le bestemmie sputate in faccia a un pubblico di dieci stronzi con un microfono effettato a boia. Le storie di ascesa e caduta, nel rock e derivati, sono tutte riscritture apocrife della rivoluzione francese. Nel periodo di monomania riesco persino a farli piacere a qualche collega di lavoro, con il risultato di ritrovarmi di lì a un anno in discussioni in cui è LUI a raccontarmi per filo e per segno progetti di secondo e terzo grado di gente che ha suonato il corno in una cassetta dei WE uscita nel 2004 su American Tapes dicendomi cose tipo questa te la devi assolutamente sentire ti faccio un disco di mp3 mentre tu pensi quanto tempo da perdere ha ‘sto tizio. E poi? Boh, più niente. Circa un lustro fa smettono di uscire dischi a nome Wolf Eyes e i membri si fanno vivi solo in proprio.

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È abbastanza commovente riascoltarsi oggi i dischi dei Wolf Eyes. L’ho fatto la scorsa settimana: ho iniziato per caso trasferendo dischi da un appartamento all’altro e ripescando dalla pila dei disastri sfilati a qualche distro una delle collaborazioni con i Black Dice. Bello, per niente noioso, per niente gratuito. Ho ricominciato così, un po’ alla volta: Burned Mind che continuo non-originalmente a pensare sia il loro disco definitivo, Human Animal di qualche anno seguente, sempre su Sub Pop, sempre bellissimo. Slicer che forse era uscito su Hanson qualche anno prima, il disco (bellissimo anche questo) con Anthony Braxton. Al momento sono fermo qui. Probabilmente sono partito dai miei preferiti, ma è difficile guardare indietro a quegli anni e trovare un gruppo così amato allora che ancor oggi suona così dentro i tempi. Gran parte del merito è da darsi ovviamente all’eleganza formale dell’estetica del gruppo, oltre ovviamente alla capacità di Nate Young di ottenere un risultato specifico e peculiare a partire da qualsiasi suono. O alla sua capacità di selettore della propria musica capace di buttare sistematicamente nel cestino la roba non interessante o comunque riservarla ad uscite che finisco per non ascoltare. Resta il fatto che il nome Wolf Eyes continua ad essere –parlando di America- la pietra miliare del NOISE così come lo conosco io: al nome Wolf Eyes è associabile quasi tutto quel che so di questa musica, a partire dai padri fondatori per arrivare alle deviazioni freejazz a cui in qualche modo sono giunto ascoltandoli, a una manciata di etichette con nomi tipo Bulb o Hanson o Hospital o American Tapes ma anche Important e Troubleman che li hanno fatti uscire, a duecento side-project dei membri del gruppo, duecento gruppi con cui sono usciti split o dischi in formazione allargata e via di questo passo. Parlando di NOISE, in quella accezione, Wolf Eyes è quasi un genere musicale in sè.

E certo è una notizia che stranisce quella che una nuova formazione del gruppo senza Aaron Dilloway (presente come ospite su una traccia), quattro anni dopo le ultime uscite a nome Wolf Eyes, torna sul mercato con un disco nuovo intitolato No Answer: Lower Floors e viene ospitata su Pitchfork Advance –quindi per certi versi esce con lo stesso hype riservato ai nuovi Strokes* o Yo La Tengo. Siamo ai primi ascolti ma il disco sembra comunque buonissimo: NOISE di sapore molto industrial (in senso buono), per nulla gratuito, costruito su un equilibrio impossibile e su un profilo bassissimo, quasi ad elemosinare nella sua estrema eleganza un posto qualsiasi ai margini dello spettro musicale. Ancora una volta familiare ma al contempo non allineato, ed animato da questo senso di necessità che anche spento il player non accenna ad andarsene: un disco il cui solo essere uscito è una dichiarazione politica che ci colpisce dove fa più male: io ho mollato, i miei conoscenti hanno mollato, il NOISE in molti casi ha mollato. Wolf Eyes è ancora qui in forma smagliante: non sembra potersi permettere di essere altrove.

*mi chiedevo tra l’altro se nel caso di un disco come Comedown Machine sono gli Strokes a pagare per finire su Pitchfork Advance o se è Pitchfork a pagare gli Strokes per l’esclusiva. Quante cazzo di cose che non so.

Federico Guglielmi

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Federico Guglielmi, giornalista musicale di vecchissimo corso e neo-blogger. 

Ho aperto un blog sul quale per ora sto pubblicando pezzi vecchi, ma sul quale conto di inserire anche materiale inedito scritto appositamente. Perché? Beh, perché ho un archivio immenso nel quale c’è tanto materiale che ritengo interessante e che altrimenti sarebbe difficile leggere, perché era un’esperienza che ancora mi mancava, perché un sacco di miei lettori me lo chiedevano da anni, perché è divertente, perché immagino gioverà alla mia “public image”, perché sono orgoglioso di tutto quello che ho combinato in tutti questi decenni e dato che di soldi ne ho sempre visti pochi, via, che almeno sia “pagato” in soddisfazioni. Non sarebbe accaduto, però, senza l’ispirazione dalla magnifica title track dell’ultimo – in tutti i sensi – album di Francesco Guccini, che non parla di blog ma che, involontariamente, fotografa il mio stato d’animo nei confronti della mia professione.

me l’ascolto e magari ti chiedo qualcosa in merito. però: come può giovare all’immagine pubblica di un giornalista musicale aprire un blog? e poi: che differenza ci sarà tra i pezzi scritti apposta per il blog e i pezzi che scrivi sul mucchio?

Oggi le percezioni delle cose e delle persone mi sembrano più superficiali di un tempo. Nell’ambiente musicale chiunque sa più o meno chi sono, ma molti meno hanno un’idea un po’ più precisa di quante cose ho fatto. Continuando a pubblicare un post al giorno, fra un tot di mesi dovrebbe emergere un quadro sufficientemente ampio, che suppongo farà capire anche ai più duri di comprendonio che anche quella che al momento rimane ancora la mia professione – domani, chissà? – può essere “una cosa seria”, che comporta competenze, studio e (duro) lavoro. Scrivere di musica in un certo modo non è lo stesso che buttar giù su un forum o su un sito pensieri random a proposito di un disco o un artista, insomma. E non è nemmeno solo farsi le seghe nella propria cameretta, senza “vivere” la musica a tutti i livelli. Io la vivo da ormai quarant’anni e la racconto, per come posso, da trentaquattro, anche continuando a seguire esordienti e confrontandomi con tutto quello che succede oggi. Mi farebbe piacere che esistesse un posto – il blog, appunto – che fra un po’ di tempo sia in grado di fungere da biglietto da visita di ciò che sono, professionalmente parlando.

Per quanto riguarda la seconda domanda… beh, non mi sono ancora posto il problema. Magari ci saranno commenti che mi andrà di diffondere subito, senza attendere i tempi della carta stampata, e che forse sul Mucchio svilupperò in altro modo o non svilupperò affatto. Per ora, a parte le introduzioni “contestualizzanti” ai vari recuperi, mi limiterò comunque a materiale vecchio.

“Scrivere di musica in un certo modo non è lo stesso che buttar giù su un forum o su un sito pensieri random a proposito di un disco o un artista ” – Non sono d’accordo, dimmi quali sono le differenze. magari una volta ce n’erano di differenze perchè reperire i materiali e le notizie era difficile, oggi secondo me non ce n’è, o ce n’è poca. quello che c’è di diverso è la bontà dei pezzi, ma è una differenza tra gente buona e gente non buona (non tra professione e scrivere roba). Mi devi convincere del contrario, se vuoi puoi fare degli esempi. Che poi cosa vuol dire “vivere la musica a tutti i livelli”? farsi le seghe nella cameretta dieci ore al giorno è uno dei modi per imparare meglio la musica, no?

“farsi le seghe” è uno degli elementi, benché pure per quello c’è modo e modo: ascoltare solo un genere, ascoltare solo musica vecchia o solo musica nuova, piluccare con superficialità e non approfondire mai, non sforzarsi di acquisire almeno un’infarinatura globale perché “tanto di certi generi scriverò mai”… non sono buoni modi. Poi, per come la vedo io, serve anche vedere molti concerti, parlare con molti musicisti di ogni livello e intervistarli, raccogliere informazioni serie su come funzionano i mondi dell’ormai morente discografia, dell’organizzazione dei concerti, dei media specializzati… nonché avere un’idea vaga di cosa significhi suonare (il che non significa necessariamente saperlo fare) e utilizzare uno studio di registrazione. Inoltre, sentire la responsabilità non solo verso se stessi ma anche verso chi paga per leggere, impegnandosi a essere quanto più possibile seri, documentati, comprensibili… e magari rispettare un po’ la cara, vecchia lingua italiana, così spesso maltrattata. Certo, va da sé che a contare è la qualità degli articoli, così come è scontato che si trovino anche cose ottime in Rete e anche cose pessime su carta… però, in generale, io rivendico a gran voce il bisogno di professionalità e il valore dell’esperienza.

Ma la maggior parte della gente che scrive di musica fa queste cose, anche i blogger. un concerto o due a settimana, interviste quando si riesce. che poi l’intervista al musicista, magari tappati le orecchie, è il genere letterario più merdoso della storia dei generi letterari e della merda. per uno che ti dice una cosa vagamente interessante ce ne sono 25 che ti raccontano stronzate promozionali generiche. tra l’altro se un musicista avesse qualcosa di interessante da dire dovrebbe avere la decenza di metterlo tutto dentro al disco o quando suona dal vivo. Quindi secondo me non lo so, non regge insomma. anche il fatto che hai aperto un blog mi suona più come una testimonianza che è in atto un bel ripensamento del mestiere. anche eddy cilìa ne ha aperto uno qualche tempo fa, molto simile tra l’altro come impostazione. 

Sì, certo, e chi lo nega? Ci pensavo da una vita ma rimandavo perché non avevo mai tempo, poi Eddy ha varato il suo un anno fa e allora ho pensato “perché no?”. Sul ripensamento hai perfettamente ragione: visto che ormai guadagnare due lire scrivendo di musica è diventato un’impresa persino per me, tanto vale accontentarsi della soddisfazione di essere comunque letti da molti, e in tempo reale. Credo inoltre che sarebbe stato un peccato non rendere disponibile il materiale che ho accumulato in tutto questo tempo: non ho difficoltà ad ammettere che, essendomi costato del lavoro, avrei preferito venderlo, ma dato che ormai regna il “gratis o niente”… chi se frega, lo regalo. Credo che in tanti, leggendomi, possano essere portati a conoscere o approfondire determinati argomenti. E in ogni caso da molte cose che leggo in Rete – non tutte, lo specifico – traspaiono per lo più copiaincolla dai comunicati-stampa, superficialità, ignoranza, semi-analfabetismo, voglia di apparire e frenesia di essere “il primo” a scrivere del tale disco o evento. Per quanto riguarda le interviste, sono d’accordo a metà: è vero, verissimo che spesso si ha a che fare con interlocutori svogliati o poco acuti, ma molto dipende anche dall’abilità dell’intervistatore nel portare avanti i discorsi e poi nel “cucinarli” in modo da ottenere una lettura ricca e piacevole. Io, per esempio, sono molto soddisfatto di tantissime mie interviste, e so che lo sono anche gli intervistati.

Com’è stare nella redazione di una rivista oggi rispetto a com’era 15 o 20 anni fa?

In era pre Internet tutto era meno frenetico, sia per la quantità infinitamente minore di uscite discografiche, sia nelle modalità di lavoro. Benché le spese fossero tante e le vendite mai davvero sicure, si credeva che lavorando bene si sarebbe comunque avuto un pubblico disposto a seguirti, perché esisteva un autentico, solido mercato editoriale: quello che oggi sta andando sempre più velocemente a puttane perché il mondo si è rivoltato. Adesso tutto corre velocissimo e noi giornalisti della carta siamo stati largamente ridimensionati perché, almeno nell’informare, arriviamo inevitabilmente dopo la Rete. Rete che non ha regole, purtroppo: stamattina l’etichetta invia a me e ad altre centinaia di colleghi più o meno qualificati di tutto il mondo i file di un album che uscirà fra due mesi; dopo un’ora qualche miserabile bastardo che crede anche sia giusto così ha “condiviso”; dopo un giorno, in un’infinità di blog, siti e forum si parla già di un disco che nella sua forma “corretta” – quella fisica, CD o vinile che sia – arriverà dopo settimane, e che sui giornali sarà trattato sempre dopo settimane. E che quindi, oltretutto, sarà considerato “vecchio” prima ancora di essere uscito. Per quanto riguarda aspetti più strettamente legati alla scrittura, posso dire che anni fa mi sentivo addosso una grande responsabilità: sapevo che parecchia gente avrebbe acquistato un certo disco a scatola chiusa solo basandosi su un paio di recensioni. Oggi, più che al giudizio, punto alla spiegazione e contestualizzazione dei dischi dei quali mi occupo, perché tanto so che la massima parte dei miei lettori si limiterà a perdere un po’ di tempo ad ascoltare quello che ho consigliato, ma certo non ci spenderà soldi senza aver prima “toccato con mano”.

Quante copie vende il mucchio?

Dolenti note. Più di Rumore, Blow Up o Rockerilla, ma sempre poco: fra edicola e abbonamenti, una media di settemila copie al mese. Tutte le riviste, di qualsiasi genere, hanno subito crolli di vendite.

Con i finanziamenti pubblici come state messi? Leggevo qui che fino al 2011 vi arrivavano circa 500mila euro. su 8000 copie al mese vuol dire più di 5 euro a copia. ora?

Premetto che non sono né sono mai stato parte della società editrice del Mucchio, né ho mai avuto ruoli che avessero a che fare con la gestione del denaro. So comunque per certo che quelle cifre, reali qualche anno fa (quando si vendeva anche di più), sono state notevolmente ridimensionate, oltretutto retroattivamente: insomma, i rimborsi previsti per il passato – c’è sempre un ritardo di due anni – per spese già sostenute, sono stati pesantemente decurtati. È stato questo a causare, all’inizio del 2012, i problemi che hanno quasi portato alla chiusura. Comunque, quando si parla di contributi, quasi tutti pensano che si tratti di soldi regalati e nessuno dice che per avervi accesso è obbligatorio avere personale regolarmente assunto – per la cronaca, non io – e sostenere tutta una serie di spese che creano lavoro che altrimenti non ci sarebbe. La situazione attuale? Non è affatto buona, purtroppo. Daniela Federico ha spiegato tutto dettagliatamente nell’editoriale del numero di febbraio, ma non sono previste campagne salva-Mucchio tipo quella dell’anno scorso. (NdFF da Febbraio il Mucchio ha avuto una notevole diminuzione di pagine, tra le altre cose)

Nel dettaglio, a che spese extra bisogna far fronte quando hai accesso ai contributi statali?

Non essendo mai stato socio della Stemax o di altre strutture affini non conosco i dettagli alla pari di un amministratore. So comunque per certo che ci sono obblighi di un numero minimo di dipendenti con contratto a tempo indeterminato (alla Stemax, negli ultimi tempi, quattro), che il commercialista deve essere molto bravo, che i bilanci devono essere certificati da una costosissima società di revisione… In pratica, la Presidenza del Consiglio dei Ministri esamina la documentazione presentata e, con un paio d’anni di scarto, decide se rimborsare oppure no una parte delle spese. Anni fa era tutto molto più vago, tipo “basta dimostrare di aver speso 100 e viene restituito 50”, mentre negli ultimi anni ci sono stati notevoli giri di vite: adesso continuano a rimborsare, ma praticamente solo una parte delle spese relative all’affitto, alla stampa dei giornali (quindi, carta e tipografia) e ai dipendenti. Scelta secondo me giustissima, ma che ha una sola, enorme “stortura”: viene applicata anche a rimborsi del passato che, per consuetudine, si ritenevano “promessi”. La fregatura sta nella retroattività: determinati soldi non sarebbero stati spesi in partenza, se si fosse saputo che non sarebbero più stati soggetti a parziale rimborso.

In questi giorni mi prende male perchè alla fine sono usciti pezzi di Cilìa e Del Papa sul loro blog e poi s’è iniziato a capire che il mucchio verrà esfoliato e tutto questo genere di cose, alla fine sono anni che sento raccontare la stessa cosa da angolature diverse e -boh- la prima cosa che viene da pensare, ormai, è che sarebbe convenuto chiudere baracca, mettersi d’impegno, rifondare un’altra rivista -o insomma, un altro progetto dal niente- e vedere cosa se ne sarebbe potuto tirar fuori. magari non ci si sarebbe cavato un ragno dal buco, ma almeno non si sarebbero passati due anni a chiedersi chi ha la colpa di cosa. mettiamo che dovessi fondare un nuovo progetto adesso, che progetto sarebbe? chi chiameresti a lavorare?

L’enorme crisi dell’editoria in genere e di quella musicale in particolare taglia le gambe a qualsiasi ambizione: una rivista indipendente avrebbe ben poche chance di sopravvivere, una sponsorizzata da un grande editore – e quindi in grado di far sapere al pubblico la sua esistenza – non venderebbe comunque abbastanza da giustificare un grande investimento anche promozionale. A livello personale, con l’editoria “ho già dato” quando ho creato “Velvet”, nel 1988: non so se rischierei di nuovo, oggi, di lanciarmi in una simile impresa, a meno che non fossi schifosamente ricco. E non lo sono. Se poi vogliamo fare un discorso puramente ipotetico, una mia eventuale nuova rivista sarebbe una specie di incrocio fra Mucchio ed Extra, con un piccolo settore per cinema, libri e attualità legati (anche solo per affinità) alla musica, con grafica estremamente semplice e un bellissimo sito.  E ci scriverebbero tutti i “miei” attuali collaboratori del Mucchio più tutti quelli “da Mucchio” che purtroppo scrivono su altre testate (Maurizio Blatto, per esempio). Il tutto con autorevolezza ma senza eccessi di seriosità. E, naturalmente, senza cercare di accedere a contributi pubblici.

Capisco il tuo discorso sul ricominciare da zero, ma ti pare che avremmo mai dato questa soddisfazione all’ex direttore? E, comunque, l’idea in questione potrebbe essere applicata solo dalla proprietà: insomma, se per assurdo tutti andassero via, la proprietà continuerebbe a fare uscire in qualche modo il giornale.

Forse hai ragione, quello che mi indispone personalmente è il fatto che tutti i giorni se ne perde un pezzo, Stefani che abbandona la nave o viene buttato in acqua e tutti i tiramolla  tra i vecchi e i nuovi e poi lo strappo con Cilìa e tutto il resto. vabbè. mi citi Blatto, che insomma come si fa a non amare quello che scrive ma è uno ed è pop. tutto il resto più o meno sarebbe immutato sia come forma che come contenuto, quindi insomma lo scenario che mi figuro è sempre lo stesso: le riviste di musica, ma anche i siti, ridotti a lavorare con la stessa gente che ci lavorava 15 anni fa, più o meno, e lette dalle stesse persone che le leggevano allora. Una cosa che scriveva Ceronetti o che io mi mettevo in testa quando leggevo altre cose scritte da Ceronetti è che non dobbiamo avere paura dell’apocalisse, della recessione e del rinnovamento. ti pongo la stessa questione che ho posto ad altri: quello che ci piace di più scrivere e leggere sulla musica è roba perlopiù antiquata e costruita su sistemi di pensiero vecchi come il cucco, che -visto che in qualche modo tu che hai 50 anni ti ci puoi definire un’autorità- è più che giusto vengano abbattuti quanto prima da altra gente con la metà dei nostri anni e che pensa in un modo diverso e più elastico. voglio dire, I DISCHI, la promozione dei dischi, le recensioni dei dischi, le interviste ai gruppi, tutte quelle robe lì, son cose con la muffa. la roba che sta succedendo è tutt’altra, più elastica e tranquilla e senza tanti cazzi. il video caricato sul tubo a sorpresa, kevin shields che minaccia di pubblicare un disco tra due giorni senza averlo fatto sentire a nessuno, questa roba qui. quello che si ottiene col fatto di essere così tanti trentenni in giro per i festival europei è che ci si becca due reunion diverse dei Black Flag la stessa settimana, o che in alternativa Bob Mould finisca sulla copertina di un Blow Up con uno dei suoi dischi più noiosi e allineati di sempre (è la stessa cosa).

Si tratta insomma del fatto che non vedo cose nuove, non so nemmeno che forma potrebbero avere a parte mettere in streaming il disco del gruppo. la prima volta che salta fuori un’idea decente andiamo tutti a compilare il curriculum, e secondo me non è una cosa con cui si può pensare di essere operativi. 

Un bel sito servirebbe appunto ad assecondare tutte le piccole e grandi follie del “moderno”, fungendo al contempo da vetrina promozionale per la rivista. Per come la vedo io, una rivista – magari con distribuzione minima solo in alcune città e in abbonamento – è ancora il naturale complemento di quello che può essere sviluppato sul web, una cosa “in più” che comunque può piacere e interessare a un numero di persone sufficiente a consentirne la sopravvivenza. Qui nessuno ha chissà quali ambizioni o vuole arricchirsi, si vorrebbe solo soddisfare un’esigenza di un pur ristretto pubblico ricavando da ciò un compenso dignitoso. In Italia ci sono sessanta milioni di persone, per campare senza rischi basterebbe essere acquistati da diecimila. Mica voglio cambiare il mondo, mica pretendo di arrestare il progresso… dico solo che conosco un sacco di gente, ultratrentenne ma anche in piccola misura giovane, che ama quello che tu chiami muffa e vuole continuare a viverla, fottendosene se la cosa non è… gggiovane, trendy, cool o come vuoi definirla. A me una rivista di nicchia, per un pubblico di pochi eletti, andrebbe benissimo, e non la vedo così incompatibile con tutta l’infinità di input dai quali siamo quotidianamente bersagliati attraverso la Rete: la gente normale non ha mica il tempo di star dietro a tutto questo circo, e ha bisogno di qualcuno che gli suggerisca a quali musiche, artisti e dischi dedicare le poche ore settimanali che ha a disposizione per lo svago. Kevin Shields minaccia di pubblicare un disco fra due giorni? Ottimo. Ma se l’impegato di Rho quel disco lo ascolta fra due mesi invece di dopodomani… che differenza fa? Bisognerebbe liberarsi – e lo dico anche a me stesso, eh – di tutta questa maledetta frenesia, di questa corsa all’apparire immediatamente sul Web con i propri cazzo di pensieri. E prima o poi, spero, la situazione diventerà più normale: arriva l’onda, ma poi c’è il riflusso.

Ma non è per una questione di giovane o trendy o cool, è una questione di MUFFA. cioè io posso tranquillamente passare il resto della vita a scrivere di dischi e concerti sul mio blog, ma sono un VECCHIO senza ragione di esistere e spero -un giorno non troppo lontano- di dover bussare all’impazzata alla porta di mia figlia urlando spegni questo casino, perchè credo i nostri figli si meritino di scaricarci giù per il cesso in favore di qualcosa di più intenso. e quindi in qualche modo che la loro musica si metta di traverso e voglia negare alla nostra l’esistenza. non so se riesco a spiegarmi. ti faccio un esempio: quando ero ragazzo e leggevo le riviste di musica c’erano le riviste che leggevo io e poi c’erano i Castaldo o Assante o Bertoncelli o i rottinculo che provavano a ficcarti i Pink Floyd in gola, e questa cosa di disprezzare la musica dei Pink Floyd e ascoltare il death metal per me è molto sana perchè ha definito la mia generazione come una cosa che stava succedendo negli anni in cui stava succedendo. oggi un 35enne riesce a capire, o riesce a fingere di capire, qualsiasi musica ci sia là fuori, ma secondo me qualsiasi musica comprensibile da un 35enne è sbagliata. comunque capisco che sono io. 

Ribadisco: ma a me, o a chiunque altro, cosa importa di cosa sia giovane o vecchio? E non è una forzatura voler per forza vedere certa musica come antagonista alla musica e al “sistema” preesistenti? Sono vecchio? E ‘STI GRAN CAZZI, scusami. Al mondo c’è spazio per tutti i punti di vista, e se la psichedelia rigorosamente anni ’60 o il grindcore avessero un pubblico sufficiente a sostenerle, perché mai non dovrebbere esistere riviste dedicate a questi generi, dedicate all’approfondimento di queste cose? Ma basta con questa cazzata delle “rottamazioni”, che ognuno si ascolti quello che vuole lui e non rompa i coglioni a quelli che vogliono ascoltare altro, vecchio o nuovo che sia. La musica rock (e dintorni) è una forma di linguaggio e di cultura come tante altre, che si presta a essere analizzata, storicizzata, contestualizzata SERENAMENTE, senza conflitti generazionali. Non capisco il senso di certa musica elettronica di oggi? Amen, non ne scrivo. Però magari il senso di Dylan e dei Social Distortion lo capisco, e scrivo di quello… che non ha meno valore della musica elettronica o di quello che vuoi tu.

Scusa se te lo dico, ma di rado ho sentito un discorso più fuori del mondo del tuo.

Un altro discorso è quello della distribuzione limitata, voglio dire, se il mucchio lo legge una persona ogni diecimila, cioè tipo 10 persone in tutta Ravenna, tanto vale non distribuirlo, o distribuirlo al negozio di dischi e vaffanculo. quante copie si stampano e quante se ne vendono?

Alla fine si vende circa il 30% di quello che si stampa: quindi, certo, la distribuzione “mirata” sarebbe meragliosa sotto ogni profilo. L’ideale sarebbe che tutti gli affezionati si abbonassero al cartaceo, in modo da fissare una tiratura pari al venduto sicuro. Si potrebbe poi studiare una piccola diffusione nelle edicole solo nelle principali città, e per il resto puntare sui pdf. In ogni caso, si tratta di una faccenda parecchio complessa. Nei negozi di dischi? Si potrebbe fare, magari affidandosi a un Self, un Audioglobe o un Goodfellas, ma non mi sembra che i negozi di dischi se la passino bene… e comunque ci sarebbe il problema dei resi delle copie invendute.

e poi iniziamo a parlare del crowdfunding.

Mio dio, e perché? 😦

Perchè è importante. l’altro mese, ai tempi della tua polemica con Moltheni, ho messo online un pezzo sul crowdfunding che parlava molto in negativo di certe cose che vengono fatte. Di solito quando metto un pezzo del genere arriva qualcuno a darmi del rosicone e mi dice di vivere e lasciar vivere (che nella musica per me è la cosa più sbagliata che si possa fare), invece per il crowdfunding ho trovato quasi solo gente interessata al discorso. e poi alla fine credo che nel 2013 sarai più ricordato per come ti sei messo di traverso in un certo momento, che come uno che ha sostenuto/scoperto questo o quel gruppo. voglio dire, chi ha più bisogno di scoprire i gruppi?

Oddio… sì, certo, negli ultimi anni il ruolo del giornalista che si occupa di musica è parecchio cambiato e in effetti con lo scoprire gruppi c’entra ormai pochino, ma spero davvvero che non sarò ricordato – sempre che lo sarò, ricordato – per avere innocentemente alzato il ditino e affermato, con un post di due righe su facebook, che mi sembrava si stesse iniziando ad abusare malamente di una pratica in sé valida che, fra l’altro, esiste da un bel po’ anche su Internet e che adesso si sta perfezionando o, se preferisci, “industrializzando”. Io non ho assolutamente nulla contro lo strumento crowdfunding e mi va benissimo che Giovanni Gulino o qualsiasi altra persona per bene allestisca una struttura seria per sostenere quanti vogliono applicarlo e che per questo guadagni una percentuale. Però, da addetto ai lavori che in questo ambiente vive e lavora da quasi trentacinque anni, mi permetto di osservare che tutto questo trionfalismo mi sembra eccessivo: ovvio che il crowdfunding può essere di grande aiuto per trasformare alcune belle idee in realtà, ma considerarlo la panacea per tutti i mali della musica italiana è a mio avviso una pia illusione: basti vedere come, immediatamente, chiunque ci si sia buttato a pesce per cercare di realizzare progetti pretestuosi e inutili, anche offrendo prestazioni discutibilissime in cambio del sostegno economico ricevuto. E chissà quante altre ne vedremo.

Il “vivi e lascia vivere” è il nemico non solo della musica ma di tutta questa nostra società di merda. Ma poi, scusa, perché “rosicone”?

beh c’è una mentalità diffusa (specie all’interno della musica italiana) di considerare un pezzo pieno di insulti come il parto mentale di uno che rosica, o di uno che ha dei conti suoi da regolare o cose così. Tipo qualche settimana dopo ho scritto un pezzo sull’ultimo disco dei Baustelle, manco negativissimo, e su Facebook mi hanno dato del nazista e dell’attention whore -oddio dell’attention whore mi son beccato anche oggi a pranzo per una stroncatura dei Muse. Allo stesso momento qualcuno è arrivato nei commenti a dare del minorato a Bianconi, così più o meno a cazzo, che alla fine è come dare del nazo a me per avere scritto il pezzo. Non puoi negare che questa cosa delle ruggini sia una delle dinamiche-chiave, voglio dire, tra te e moltheni (per dire) il confronto non è stato sulle posizioni in merito alla cosa, ma su chi ha insultato prima chi altro e chi si è comportato peggio nel passato… Alla fine la cosa che mi piace di più dei blog è il fatto che nessuno li confonde per delle riviste, e che siano posti talmente piccoli e insignificanti da far sì che ogni tanto ci passi dentro anche qualche pezzo che sa di vero.

Io credo che anche sulle riviste vengano fuori pezzi autentici. E poi, con quello che contano oggi le riviste, non vedo i blog – certi blog, almeno – così insignificanti. Ma poi in questo processo Internet sta facendo danni pazzeschi. Se io stronco qualcuno sul Mucchio, mezz’ora dopo l’uscita in edicola del giornale la mia recensione è “condivisa” e dal trentunesimo minuto in poi i fan si scatenano nel darmi del coglione. La cosa più sorprendente è che alcuni mi scrivono chiedendomi “ma cosa ti hanno fatto?”, e rimangono basiti dalla mia risposta “nulla, non li conosco neppure, penso solo che facciano cagare a spruzzo e trovo che il loro disco sia un oltraggio per la musica”. L’ulteriore replica che immancabilmente mi arriva è “ma allora non potevi far finta che non esistesse?”. E allora mi arrendo.

La storia di Moltheni/Giardini è lì sul mio blog, chiunque voglia farsi un’idea basata su fatti reali e non su chiacchiere, la leggesse tutta.

Beh ma alla fine questa mentalità è basilare, bisogna senz’altro parlarne. per esempio, boh, qualche anno fa davo una mano a un tizio che aveva un’etichetta e lui si prendeva malissimo, MALISSIMO, se gli stroncavano un gruppo. Cioè era seriamente convinto che una persona avesse tutto il diritto di schifare il gruppo a man bassa e non dovesse mentire per nessun motivo, ma che una stroncatura proibisse al gruppo di evolversi, diciamo, e quindi non andava pubblicata. Un’altra citazione che potrei farti è quella del mio amico Enzo Polaroid, che dice che il fatto di NON parlare di un gruppo, nell’evoluzione di internet, sia l’unico vero criterio di esclusione. Ho sempre pensato che fossero cazzate tonanti ma la verità è che un po’ questo approccio lo seguo. Non dico nel non parlare dei dischi brutti (parlo quasi solo di dischi brutti), ma per dire, anche solo nella lista dei dischi che escono non sto a vedere se uno ne parla bene o male ma CHI ne parla. Qualche giorno fa ho ascoltato l’ultimo disco degli hair police perchè l’ho trovato su Nodata, dopo almeno sei anni che non ascoltavo un disco degli hair police, e il disco è pure molto bello. la stessa cosa succede per esempio nel leggere una stroncatura su pitchfork o sul mucchio o dove sia, non lo so. voi per dire sul mucchio avete un numero di recensioni piuttosto misero sul quantitativo totale di recensioni di altre riviste/siti, che mi dicevi è frutto di una selezione. magari la strada è questa, non lo so. che criteri usi per dire se una cosa finisce nelle rece del mucchio o no?

Ho sempre pensato che le stroncature facciano benissimo: possono aiutare a riflettere, a porsi delle domande. Magari non fanno piacere, ma se l’artista stroncato non è del tutto ottenebrato dal proprio ego può ricavarne qualche lezione. Per quanto riguarda il Mucchio, abbiamo optato per recensioni mediamente lunghe (non “francobollini”, insomma) e sempre ben ordinate e visibili (la copertina non manca mai), fregandocene della quantità: visto che scrivere di tutto è impossibile, ogni mese inserisco tutti i dischi più importanti in linea con le tradizioni della rivista, di artisti sia vecchi che nuovi, e un tot delle cose migliori di ambiti più “laterali”. Ogni collaboratore propone quello che lui potrebbe recensire e io tiro un po’ i fili, assegnando poi (o facendo direttamente io) quello che secondo me “manca”. Guardiamo in faccia la realtà: ci sono migliaia di appassionati di musica che, non essendo fancazzisti ma avendo un lavoro, una famiglia e quant’altro, non hanno proprio il tempo e la fantasia di star dietro al delirio delle uscite. Tutti costoro hanno piacere che qualcuno ritenuto competente gli segnali qualcosa di valido e di interessante, quei due-cinque-dieci dischi al mese che magari potrebbero piacergli. Un sacco di gente se ne strafotte delle centinaia di altri dischi che potrebbero appassionarli, anche perché sa che non avrebbe la possibilità di ascoltarli/approfondirli tutti: preferisce, invece, che qualcuno gli dica “ecco, prova questa band all’esordio” e che gli faccia sapere come sono gli ennesimi album dei suoi artisti preferiti, quelli che segue da sempre.

Ultima cosa. Se uno mi dice il tuo nome io in genere lo associo al nuovo rock italiano nel senso del libro di alberto campo, per capirci, quelle robe che andavano come il pane una dozzina di anni fa e che poi hanno avuto la loro (non) evoluzione. io mi ci sto iniziando ad affezionare nell’ultimissimo periodo perchè i gruppi stanno iniziando ad avere sempre meno senso del reale; gli afterhours di padania, per dire, o i bachi da pietra dell’ultimo disco sono gruppi fuori dal tempo, hanno questi dischi che suonano fuori controllo e quasi collassati sui nervi. I baustelle han fatto un concept album (bellissimo, peccato per i testi) sui sepolcri, l’ultimo disco dei verdena era tipo Tommy, robe così. ci son gruppi tipo lo stato sociale che hanno perso quasi tutto il senso dell’umorismo che si richiederebbe alla musica che suonano e in questo (ok, per me) diventano roba grandiosa, odio puro in formato pop plastificato. non lo so, la domanda credo sia -come ti sembra questa roba rispetto a quello che era dieci o venti anni fa? è comunque questa la roba da ascoltare? ce n’è altra da ascoltare di più?

Mi occupo assiduamente di rock italiano dal 1980, non solo di artisti famosi ma anche di emergenti, e quindi l’accostamento è più che legittimo, anche se è solo uno dei miei campi d’azione professionali. Capisco cosa vuoi dire e, sì, non hai torto: molti gruppi e solisti affermati – e i tuoi esempi sono azzeccatissimi – sembrano puntare a produzioni sempre più complesse, sofisticate e concettuali, anche se con un linguaggio che quasi sempre rimane rock e spigoloso. Se però vuoi paragonare costoro alle star del progressive degli anni ’70, e quindi roba come Lo Stato Sociale al punk, credo tu sia fuori strada. Per come la vedo io, non c’è nessun odio: sono solo cazzeggi e pantomime di gente priva di talento che pensa a divertirsi, a giocare a fare la pseudo-rockstar con tutto ciò che questo comporta in termini di fama su YouTube e Rockit, concerti pagati anche decentemente, ubriachezza molesta ed eventuale sesso promiscuo. Non ci sono intenti pseudo-rivoluzionari e non c’è nessuna ingenuità o naturalezza: sono solo paraculate costruitissime volte all’autogratificazione, non è rock’n’roll né tantomeno arte: sono miserie di stagione, buone al massimo per farsi due risate, che di sicuro non dureranno. Molta della musica di dieci e vent’anni fa era fatta per durare, e infatti ancora dura. Poi, certo, per qualcuno la musica da ascoltare sarà questa, ma non lo è per me: io amo la musica che trasmette sensazioni ed emozioni forti, o che quantomeno abbia fra i suoi requisiti una certa “classe”.

Non la penso così. o meglio, c’è una cosa interessante che dici tra le righe, che è quella delle dinamiche. cioè che in qualche modo la nostra idea sulla musica (in questo caso dello Stato Sociale, per dire) è che debba riprodurre una dinamica già vista in passato, l’idea della rottura, l’idea di punk. per dire, oggigiorno chiunque si riempie la bocca di punk quando evidentemente mancano proprio le basi concettuali su cui il punk si è costruito e imposto, o non imposto. il fatto che si possa fare un disco in cameretta e che questo disco rispetti ogni canone di professionalità e vendibilità mi sembra innegabile, vedi ad esempio I Cani che sono una one-man-band da cameretta e al contempo il grande evento di pop italiano del 2011. però i Cani non sono punk, mi sembra un’offesa al punk e a noi stessi e soprattutto ai Cani che sono molto più complessi e contemporanei. Sono un gruppo che fa una cosa oggi in un modo che è diverso da come poteva essere negli anni ottanta o novanta o primi duemila. Lo Stato Sociale ha una sensibilità ancora diversa, degli altri obiettivi e un modo diverso di porsi. La stessa cosa succede a un sacco di altri gruppi, anche internazionali ma io la vedo molto nella musica italiana. Persino Trucebaldazzi, che alla fine per uno come me è l’incarnazione stessa del punk, in realtà è tutta un’altra cosa, un fenomeno puro che non c’entra né col punk né col rap né col pop. Questo sarebbe poi lo stesso discorso di cui ti parlavo sopra, siamo legati a dei canoni critici che ci stanno morendo e noi facciamo finta di niente, o semplicemente non comprendiamo le cose e proviamo a ricontestualizzare tutto. anche solo l’idea che dicevi sopra di internet, “internet ha fatto dei danni qui e ha aiutato qua”, non credo si possa più pensare al modo in cui “internet influenza la musica”. sarebbe come dire “in che modo il CD influenza la musica?”. la musica è su CD ed è su internet. forse si potevano fare dei discorsi del genere fino al 2000, ora non credo. Tra qualche giorno arriva in italia Spotify, tutta la musica a cui si può pensare in streaming legale. Non si può essere pro o contro Spotify, per dire, o pro/contro Soundcloud, stanno lì, è un po’ come essere contro la fine del PCI. no?

Tutto molto sensato, ma ciò non significa che tutto il mondo debba adeguarsi alla modernità reale o presunta, o essere “contro” questa modernità. Per come la vedo io, che ho una certa età ma che vorrei tanto essere molto più vecchio invece che molto più giovane, vedo solo un’assurda, demenziale corsa a chi è più aggiornato: tutti a star dietro all’ultimo smartphone, all’ultima applicazione, all’ultimo giochino on line, all’ultimo blog alla moda, all’ultima band con il nome stupido, all’ultimo ritrovato per salvare la musica. Io, e come me tanti altri, osservo tutto ciò e lo analizzo secondo i miei parametri, che sono gli stessi di tanti altri. E scelgo come muovermi, come regolarmi, anche contestualizzando in base a parametri che ritengo comunque validi. In ogni caso, lo Stato Sociale o chi per loro non sta facendo proprio nulla di “nuovo”, non fa altro che adattare all’oggi una serie di concetti che esistono da quando esistono il rock e il pop e forse anche da prima che esistessero. Quindi, per quale motivo dovrei dire che “non comprendo”? Io credo di comprendere, anche perché non vivo in una torre dalla quale pontifico: magari vivo l’attuale “società musicale” con un certo cinismo, un certo distacco dato dall’esperienza, ma non penso di essere meno lucido di un ventenne che di tutto quello che è successo ieri non sa nulla. Anzi, penso esattamente il contrario: conosco quello che succede e lo valuto secondo canoni che mi sembrano tuttora adeguati, al di là di qualche piccola contingenza. Ho vissuto in diretta l’ascesa dei cantautori italiani, il progressive, il krautrock, il punk e il post-punk, l’hardcore, il neo-Sixties, il grunge, lo shoegaze, il post-rock, il britpop, il nu-metal e tutto il resto, e ho raccontato molti di questi fenomeni in modo – credo – corretto… e adesso dovrei sentirmi inadeguato di fronte a Lo Stato Sociale? Dai, su.

nelle puntate precedenti:

il listone del martedì: OTTO COVER NON DISPREZZABILI DEI JOY DIVISION

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Tra i prossimi listoni ci sarà qualche episodio sulle cover. Siamo partiti qualche tempo fa descrivendo le cover più brutte della storia come deterrente per realizzarle, e nel caso concreto parlavamo del fatto che (a parte Woven Hand e gli Swans) uno dei modi più sicuri di sbagliare è di coverizzare appunto un pezzo dei JD a caso tratto dalla nutrita discografia di inediti del gruppo -la quale per molti si riduce alla sola Love Will Tear Us Apart, ma in un caso o nell’altro stiamo parlando comunque di uno sport del cazzo. A parziale (totale) smentita di quel discorso, siamo a mettere in fila otto esempi di cover dei Joy Division ed affini i quali ci fanno stare bene nonostante lo sport in sè continui a essere ignobile. Per lamentele e cose così abbiamo una sezione commenti apposita, è obbligatorio l’indirizzo email ma potete metterne uno falso.

GIRLS AGAINST BOYS – SHE’S LOST CONTROL

“Nei concettuali anni ’90, i concetti più anni ’90 della storia umana erano non tanto i Girls Against Boys (gruppo dal design del tutto inconcepibile oggi, che all’epoca incredibilmente sembrava nuovo e fico e proibito e misterioso come, immagino, i ragazzi oggi percepiscano gentaglia come Health o Japandroids, che conosco di sfuggita e che abbino solo perché li vidi insieme sulla locandina di un concerto a cui non andai), quanto gli album di tributo. Negli anni ’90, chiunque ebbe un album di tributo, persino i Nomadi, i canti partigiani e i Joy Division. A Means to an End, che in realtà comprai perché conteneva un pezzo degli Smashing Pumpkins sotto falso nome (una risibile cover di Isolation), includeva almeno due grosse verità: l’unico buon pezzo della carriera di Moby (New Dawn Fades), e questa She’s Lost Control, entrambe heavy e anninovantissime, e ben superiori agli originali, cosa che torno oggi a dire senza vergogna nonostante io abbia passato gli ultimi diciassette anni a fingere di preferire una pacchiana voce baritonale su di uno scarno rullante a delle grasse, grosse chitarre distorte ed effettate. Negli anni ’90 si pagava tributo a chiunque, eppure non esisterà mai un posto meno asservito dove vivere.” (Ashared Apil-Ekur, che la mette in questa lista)

SWANS – LOVE WILL TEAR US APART

Di tutti quelli che ci han provato, la maggior parte ci ha provato con il pezzo più difficile da coverizzare, vale a dire Love Will Tear Us Apart, la canzone dei Joy Division che piace di più ai non-fan dei Joy Division –e quindi per contrappasso quella che piace di meno ai fan, i quali si tengono volentierissimo lo Ian Curtis pacificato delle varie Atrocity Exhibition e continuano ad ascoltare black metal con l’altra mano ed inalare il fetore delle carogne di animali per essere sicuri di farsi il viaggio al centouno per cento. Gli Swans, per la sola ragione di essere gli Swans E in segno di spregio, ne hanno fatte non una ma DUE versioni migliori dell’originale, una cantata da un annoiatissimo Michael Gira e l’altra da un’altrettanto annoiata Jarboe. Nessuna delle due la ascolto da anni, ma mi fido della memoria perché altrimenti arrivare a farne una decina è una pena.

SIXTEEN HORSEPOWER – HEART AND SOUL

Esistono diversi modi di sputtanare il tuo gruppo, uno dei quali è pubblicare una cover moscia e tremenda di Day of the Lords nel tuo disco dal vivo (un altro bel fail del disco dal vivo dei 16 Horsepower era che c’era allegato un biglietto con la VERA tracklist del disco perché quella stampata dietro era sbagliata, credo l’unico caso in cui questa cosa era successa). Soprattutto se da anni stai girando per i palchi di tutto il mondo con una paurosissima et spiritatissima cover di Heart and Soul nella quale a metà pezza sia tu che il tuo pubblico vi ritrovate a parlare coi fantasmini e a perdere la fidanzata (quello solo il tuo pubblico, in tuo favore). Ancora oggi che ha cambiato nome in Woven Hand (senza prendersi il disturbo, tra le altre cose, di cambiare membri del gruppo) porta in giro la cover di Heart&Soul per mandare fuori gli astanti e farsi fare i commenti dalle tipe, cosa che –per dire- con Ian Curtis non sarebbe successo o sarebbe successo solo in un contesto anni settanta/ottanta; le tipe hip lo avrebbero schifato in quanto sciatto e privo di una consapevole estetica anni settanta/ottanta.

CODEINE – ATMOSPHERE

Questa viene sempre dal tributo di metà anni novanta, appena dopo Transmission rifatta dai Low per mettere in chiaro qual è la differenza che passa tra i Codeine e qualsiasi altro gruppo slowcore. Tra l’altro in occasione del disco tributo si viene a scoprire che Atmosphere è una canzone dei Codeine scippata in malo modo dai Barney Sumner e compagni, velocizzata senza nessun diritto di farlo e buttata fuori a coprire l’evidente lacuna nel repertorio JD di un pezzo alla Codeine velocizzato. Forse sto esagerando perché stamattina mi è finita nell’autoradio mentre venivo al lavoro con una nebbia del cristo, rendendomi il più bolso e meteopatico ascoltatore di postrock sulla faccia della terra.

NINE INCH NAILS – DEAD SOULS

Per la colonna sonora del Corvo sono stati compiuti ben due miracoli, la parola miracoli intesa come sinonimo di cover metal di pezzi wave che non mandano tutto in vacca. Nella fattispecie Ghost Rider dei Bauhaus rifatta dalla Rollins Band e Dead Souls, sempre dei Bauhaus, rifatta da Trent Reznor basandosi sull’idea geniale che se tieni un ritmo dritto tanto vale tenerlo appunto dritto, mandargli dietro una chitarra e mettere un effettino sulla voce. Su quest’ultima cosa non gli va benissimo e comunque soccombe sull’originale, ma la scena di Brandon Lee che corre sotto la pioggia e sopra ai tetti con sotto la cover di Dead Souls fatta dai Nine Inch Nails ha un suo sporchissimo perché. Molto meglio del pezzo dei Cure, per dire, forse perché i Cure mi son sempre stati molto sui coioni (tra le cover dei Cure migliori degli originali, per dire, c’è Close To Me rifatta dagli Zero Assoluto con il titolo Per Dimenticare).

OFFLAGA DISCO PAX – VENTI MINUTI

Non è una cover in senso stretto ma è comunque il miglior pezzo di sempre degli Offlaga Disco Pax, quello più bastardo a livello emotivo e quello più nudo e sensato partendo dall’ottica del gruppo (prima o poi ammetterò a me stesso che odio gli emiliani per ovvi motivi ma degli Offlaga Disco Pax non penso poi così male). Quando nella seconda parte arriva la citazione di She’s Lost Control, come disse da qualche parte il redattore Martin Vega, è effettivamente difficile tenere a freno la lacrimella.

THE GET UP KIDS – REGRET

Quando registrarono Republic, nei primi anni novanta, i New Order avevano cambiato pelle una decina di volte e battuto ogni strada battibile negli anni ottanta, devastati di acid test e crollati a picco in una spirale di rock emotivo del quale Regret è lo specchio più grandioso. Oltre a questo, Regret è un po’ la negazione ultima di essere mai stati i Joy Division, il che rende la cosa abbastanza squillante da ammazzarci definitivamente quando la stessa Regret viene ripresa dai Get Up Kids e coverizzata come se fosse una outtake di Something To Write Home About. Stiamo andando un cicinino fuori tema, magari.

SWING KIDS – WARSAW

La cover più sconvolta dei Joy Division mai messa in piedi è in realtà una cover di Warsaw, suonata dagli Warsaw appunto e risuonata dagli Swing Kids in una tiratissima versione alla Swing Kids. Se vogliamo farci delle seghe mentali è pure una versione piuttosto importante dal punto di vista storico, nel senso che è da qui –tra le altre cose- che parte tutto un movimento accacì pesantemente influenzato dal postpunk che sfocerà in un decennio di musica a cassa dritta risuonata senza vergogna uguale identica agli originali (fui piuttosto scioccato quando mi dissero che il padrone di Level Plane era il batterista degli Interpol, oggi non lo sarei più). È tutto un magna magna.

QUINTALE.

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Non so se qualcuno ha usato la parolaccia con la M parlando dell’ultimo disco dei Bachi, nel caso credo stiano tutti aspettando che qualcuno cominci. Il nuovo disco dei Bachi da Pietra segna una svolta verso territori hard-blues-sludge-stoner-noise-aggro-core, vent’anni di leggere recensioni e ormai non mi fate più un baffo, potete dirlo che avvertite non so dove non so come che il nuovo disco dei Bachi da Pietra è METAL. Io lo sto ripetendo da venti minuti e mi sento molto meglio rispetto a questa mattina. Questa mattina ascoltavo Quintale in macchina e lo non-capivo con la mia solita nonchalance, ritirando fuori nella mia testa una miriade di gruppi che c’entrano un casino ma che non sono il punto: Hammerhead, Janitor Joe, primi GVSB, ovviamente Melvins (tutti i gruppi con una chitarra mi ricordano i Melvins) e tagliamola pure con certi deliri jesuslizardiani, l’insofferenza nei confronti della vita di un Fausto Rossi e qualcosa di macilento che lavora da sotto tipo una versione veloce dei primi Cathedral con Lee Dorrian che canta come se fosse ancora nei Napalm Death e via di questo passo. Di seguito ho passato la giornata lavorativa dentro l’ufficio canticchiando parola di Paolo, Paolo, Paolo, Paolo il Tarlo e lasciando che il mio collega si chiedesse se avevo sbroccato o meno per via della fotta di vedere che figura farà Berlusconi tra qualche ora davanti a Travaglio e soprattutto che figura farà Travaglio davanti a Berlusconi alla stessa ora.

E mentre trovavo una scusa qualsiasi per uscire dall’ufficio e andare a ricaricare 400 euro sul postepay da puntare online su Berlusconi che lascia lo studio entro 4 minuti dal primo scambio di battute, ho avuto l’illuminazione. Il quinto disco dei Bachi da Pietra è METAL. Un normalissimo e volgarissimo disco heavy metal, una roba che verso fine degli anni ottanta mi piace pensare ne uscissero sedici o diciassette al mese di questo livello, musica estremamente cafona ed estremamente arrabbiata ed estremamente cafona nel suo essere estremamente arrabbiata, testi di stampo fantasy, scale di chitarra, batterie rovinose e gente infoiata con la tecnica e il suono dall’inizio alla fine del disco. Poi le chitarre si doppiano e si triplicano come nei dischi degli Iron Maiden e la gente inizia a pensare che questa è la cosa più tamarra e meno spontanea della storia della musica, una cosa artificiosa, finta basata su premesse ideologiche farlocche e su valori morali che hanno quel che di protofascista (il desiderio di primeggiare, la lotta per la sopravvivenza, la delazione eccetera). Naturalmente solo dei dementi o degli ascoltatori senza spina dorsale possono pensare che queste cose siano classificabili come difetti, specie visto che stiamo parlando di un disco METAL. Al primo passaggio sullo stereo, Quintale sembra il disco più farlocco e sbagliato della storia. Cose tipo Fessura te le ascolti e sembrano un ripescaggio a buffo dei Litfiba di Spirito, la prima parte di Pensieri Parole Opere è cantata in un inglese stile Alberto Sordi, il pippone finale di Baratto sembra la lamentela contro il governo di un vecchio al bar. Dal secondo ascolto in poi si inizia ad entrare nel meccanismo. Contrariamente a quanto scritto quasi ovunque (“estremamente violento ma estremamente accessibile”, l’avran copiato dalla cartella stampa), Quintale è un disco METAL estremamente difficile e insidioso: Succi e Dorella ci blandiscono con promesse di riffoni facili e rovesciano la baracca a furia di sbroccare gratis. Escono fuori incroci impossibili tra cock rock e Rollins Band in Brutti versi, escono fuori bordate da primi della classe a partire da premesse senza costrutto. Viene in mente, soprattutto, quella sensazione di non starci dentro per la violenza della musica e di volerne comunque avere ancora a pacchi, una sensazione che ci ha fatto innamorare della musica METAL (ed evitare che le ragazze si innamorassero di noi e ci distraessero dal nostro volere PIÙ METAL) e che ormai riusciamo a provare se va bene una volta ogni anno e mezzo; una sensazione per cui devi essere tagliato, naturalmente, e non faccio una colpa a nessuno di quelli che si sentiranno –giustamente- esclusi a calci da Quintale e lo troveranno una cosa dozzinale crassa stupida cafona e in generale troppo METAL per volerci avere a che fare. Disco dell’anno.

Neurosis – Honor Found in Decay (Neurot/Relapse) (il pezzo serio)

Ho rimesso su Through Silver in Blood dopo un sacco di tempo, son dischi che li metti tra quelli che ti hanno svoltato di più ma chiedono ancora uno sforzo troppo intenso per imbarcarcisi a cuor leggero. Mi fa ancora lo stesso effetto, ma non so se a impressionarmi sia la musica in sé o l’idea di me che lo ascoltavo per la prima volta e ci credevo. C’è un periodo nella vita di quelli come noi (siete come me, fatevi pure il segno della croce) che i dischi dei Neurosis ce li hai dentro e li godi come un cane perché magari non hai mai sentito parlare di Steve Von Till ma tutte le mattine ti svegli guardi fuori dalla finestra e borbotti sono ancora a Saigon. La cosa brutta dei Neurosis è che ascoltare Enemy of the Sun quando usciva, ma anche solo Times of Grace o quello dopo, ti metteva talmente a disagio da pensare che venisse da una condizione umana oscura e scomodissima e talmente poco sensata e accomodante da fugare ogni dubbio sul fatto che fosse vera. Al confronto di quei dischi tutto il death metal di questa terra era roba da conigli. Stessa cosa vedere il gruppo dal vivo con le luci minacciose e l’incazzo generale e quei volumi eccetera: non so nemmeno se ci siano dei corrispondenti odierni, di sicuro non sono io a doverli trovare. I Neurosis solleticavano la ciclica rinascita di una condizione umana innata che dopo qualche anno la gente in genere supera buttandosi in esperienze ancor più totalizzanti e spaventose della continua visione di un’apocalisse imminente (il sesso monogamo e regolare, stirare i propri panni, quaranta ore lavorative la settimana, le chiavi di ricerca del proprio statcounter, il club del libro il giovedì sera, il corso da sommelier, i moduli per le tasse eccetera) lasciando perlopiù la frequentazione del lato più oscuro e viziato della psiche umana al facile compitino di ascoltarsi il nuovo disco dei Neurosis un paio di volte ogni dieci anni, cioè una volta ogni disco nuovo, berciando assieme ai pochi che (ci) danno ancora ascolto di esperienza totale, musica trascendente e tutte quelle cazzate da adolescenti.

La triste verità è che in questo continuo rimettersi in marcia del meccanismo ad ogni nuovo disco dei Neurosis, ci sono un sacco di vincitori. Le nuove generazioni di ascoltatori hanno ancora uno specchio credibile per le loro ansie, le etichette discografiche continuano a vendere angosce sotto forma di (sempre meno) dischi e viceversa, i concerti continuano ad essere rituali esoterici di violenza pura e le riviste continuano a piazzare in pagina foto dei Neurosis (sempre più obesi peraltro) su sfondi corvini e nebbiosi piazzando sottotitoli a tema. Gli unici perdenti sono (1) i fan di lunga data e (2) i Neurosis. I primi, noi, ci approssimiamo al disco con il solito misto tra paura, pregiudizio e cieca fede nel gruppo, sperando che sì probabilmente gli ultimi duecentomila dischi di post-hardcore copiati dai Neurosis ci hanno fatto tutti cagare in blocco compresi quelli a nome di singoli membri del gruppo ma LORO NO, loro sono una cosa più alta perfetta e inattaccabile e usciranno vincitori da questo dolorosissimo processo d’autoanalisi. I secondi, i sei membri del gruppo o quanti sono, si ritrovano relegati da almeno dieci anni (il disco con Jarboe, The Eye of Every Storm, Given To The Rising) nella spiacevole condizione di dover accontentare un pubblico incontentabile e facilissimo da accontentare allo stesso tempo, e che (qualunque sia il giudizio di ognuno di noi sui dischi dal 2000 in poi) chiede un’esperienza invece che un disco di musica o quantomeno qualcosa che solletichi i nervi pur se suonato da gente con venticinque anni di musica sulla groppa.

E insomma sì, anche a questo giro uno s’approccia al nuovo disco dei Neurosis ponendosi le domande chiave A se sia un buon disco in sé, B se sia un buon disco considerato l’andazzo degli ultimi dischi dei Neurosis e C se sia un buon disco rispetto alla media dei dischi alla Neurosis usciti tra Given to the Rising e questo album. E se anche questo Honor Found in Decay sembra avere un paio di momenti meno lucidi del solito si potrebbe persino arrivare a rispondere sì in tutti e tre i casi, ma questa cosa non ci dovrebbe né stupire né distogliere dall’idea che nel caso concreto dei Neurosis le domande A, B e C sono domande stupide. Quindi alla fine l’ultimo disco dei Neurosis è il disco di un gruppo che ha bisogno di portare avanti una visione che non è più sua -anche se appartiene di tutto diritto ai loro fan dell’ultima ora e ai giovani gruppi che li copiano perché non han trovato di meglio da copiare, essendo tutto sommato i Neurosis dei gran fighi. Ed è il disco di una sigla che (almeno in parte) continua a fare dischi per continuare a dar lustro a progetti alternativi di respiro molto più ampio e vitale (su tutti lo Scott Kelly dei due dischi solisti). E suona come il disco di sei persone che se potessero scegliere la musica da suonare avrebbero fatto un disco totalmente diverso e per niente metal (lo testimonia abbastanza eloquentemente il fatto che il gruppo marcia con molta più tranquillità nelle parti più rilassate). Non potrei dire che questa cosa mi sorprende, ma capisco comunque sia il gruppo che coloro che anche a questo giro preferiranno continuare a parlare di condizione umana precaria, apocalisse sonora e (peggio ancora) evoluzione continua negando sia l’evidenza che il sacrosanto diritto dei Neurosis a rincoglionirsi con l’età.

DISCONE: Woven Hand – The Laughing Stalk (Glitterhouse)

Secondo il manuale der critico, quando esce un disco intitolato The Laughing Stalk e non è roba stronza o fatta per ridere devi trovare necessarie parentele tra la musica dell’autore e quella di Mark Hollis. Con David Eugene Edwards la cosa non funziona benissimo. Viene la tentazione di sparare “autore schivo, compromesso e in continua mutazione come il deus ex-machina dei Talk Talk”, così a caso, ma c’è da arrendersi quantomeno all’evidenza che l’esordio dei 16 Horsepower e l’ultimo disco di Woven Hand contengono più o meno la stessa musica, e che la musica nel corso degli ultimi quindici anni –or so- si è evoluta più che altro con un trend più o meno sinusoidale. Vale a dire che a un certo punto arrivava un disco più acustico di Woven Hand e dopo qualche anno c’era un disco più incazzato di Woven Hand, senza che la cosa andasse ad inficiare il formato standard dei pezzi scritti su David Eugene Edwards: parla con Dio, ha i cazzi suoi, i dischi sono un’esperienza spirituale, IL FOLK, i nativi, u-ye-ye e via abborracciando. Arrivato a mille battute mi viene da pensare che anche a questo giro sarà difficilissimo risparmiare a chi legge la filippica sul FOLK e sui nativi e su Dio, un po’ perchè a questo punto quasi chiunque ha ascoltato e visto dal vivo Woven Hand e insomma, la cosa bella di Woven Hand è che anche un idiota che passa davanti al palco per puro caso si rende conto in venticinque secondi che David Eugene Edwards è la musica che suona. Il che agevola abbastanza l’approccio critico nei suoi confronti, creando una specie di intercapedine nell’indiefolk che esce di questi tempi, ti costringe a prenderti un’ora libera dagli altri cazzi, stendersi sul divano e ascoltarlo a palla e iniziare a vedere gli spiriti. Da qui in poi il viaggio è più o meno sempre lo stesso: un’interiorità molto compromessa e drammatica, un suono molto grezzo e molto curato al contempo, gli echi, i microfoni anni cinquanta e una specie di sollievo che deriva da non essere quello che canta. Poi arriva a casa tua sorella e ha le piume nei capelli e un vestito a righe rosse e ti urla qualcosa tipo U-YE-YE. Nel cercare di uscir fuori dalla gabbia della recensione automatica, è difficilissimo comunque non dire almeno a bassa voce che The Laughing Stalk sembra poter essere davvero il meglio scritto e il più incazzato di tutti i dischi a nome Woven Hand. Segno che al di là di David Eugene Edwards che parla con Dio, ha i cazzi suoi, i dischi sono un’esperienza spirituale, IL FOLK, i nativi, u-ye-ye e via abborracciando, probabilmente ricominciare con una backing band nuova di zecca e ripresentarsi sul palco con un assetto stile gruppo stoner acido e violentissimo ha portato una bella ventata d’aria fresca al progetto Woven Hand e alla nostra vita in generale; o in alternativa tagliare gli spigoli con l’accetta e iniziare a convincersi che pur non essendo mai stato davvero di moda e continuando ad agire in un apparente stato di immobilità creativa, Edwards è da vent’anni circa un artista in crescita continua. Possibile disco dell’anno 1874.

Navigarella: GIORNALISTI MUSICALI VS. NEMICI DELLA MUSICA

Lana del Rey ha cantato dal vivo una versione non disprezzabile di Heart-Shaped Box, e quando dico non disprezzabile intendo dire in realtà darsi fuoco. Mentre la rete si divideva più o meno a metà tra colpevolisti a prescindere e innocentisti a prescindere (tutto si può dire di Lana del Rey meno che non sia stata coerente nel non far nulla per farsi odiare da chi la ama o farsi amare da chi la odia, in questo vera popstar-chiave del nostro millennio), Courtney Love ha detto una cosa su twitter tipo AHAHAH STAI CANTANDO UNA CANZONE SULLA MIA FIGA. Continuano le celebrazioni della morte di Kurt Cobain.

C’è una prima anticipazione del nuovo disco degli Animal Collective, uno dei pochi gruppi bolliti da anni e anni che in realtà no. Anche il disco nuovo sembra poterci piacere molto.

Sta per uscire il secondo disco della Corin Tucker Band. Il primo disco della Corin Tucker Band è una delle pochissime testimonianze audio del fatto che si possa fare musica rock normale senza necessariamente venire inclusi in un gruppo di spocchiose teste di cazzo che fanno musica rock mimando un anacronistico ritorno alla normalità nel disperato tentativo di venire considerati un nuovo trend di gente a cui forse non frega un cazzo di niente ma io guarderei bene cosa c’è sotto (cosa che tanto per dire non è riuscita alle molto più considerate Wild Flag, cioè le ex-Sleater Kinney senza Corin Tucker, autrici di un disco brutto e triste in culo su cui si è sviluppato un minuscolo hype un paio d’anni fa). Il secondo disco della Corin Tucker Band, a giudicare dai primi due estratti, promette d’esser quasi meglio del precedente, e meno male che ci sono i volti nuovi di vent’anni fa ad indicare nuove strade da percorrere ai volti nuovi di adesso.

A proposito di anacronismo, c’è un flame molto divertente sul facebook di Edoardo Bridda. Edoardo Bridda sarebbe il boss o uno dei boss di SentireAscoltare. Sulla sua pagina ha postato il link a una recensione di Ondarock dei Wild Nothing uscita (a quanto pare) un mese prima del disco. Lamenta il fatto che quelli di Ondarock si sono sempre dichiarati contrari a questa cosa e via di questo passo. Nei commenti al post si scatena una specie di guerra delle coscienze, interviene perfino Claudio Fabretti con un tono tipo “io sono il boss di Ondarock, sono intervenuto qui ma ora c’ho degli altri cazzi da fare e comunque di quel che fate voi me ne frego”. In realtà è lo scontro tra due modelli di giornalismo musicale: il primo si sbatte a duemila per essere sempre sul pezzo, il secondo si erge a roccioso bastione del mercato musicale tradizionale, supporta etichette distributori e artisti e se ne va per la sua strada. La cosa più tenera è farsi il viaggio e pensare che dietro tutto questo ambaradan ci sia una lotta senza esclusione di colpi per diventare il web magazine italiano più influente della storia E una recensione arrivata un mese prima influenza irrimediabilmente l’ascolto, bruciando la recensione dell’altro sito e determinando in maniera indelebile il gusto dell’ascoltatore in merito al disco dei Wild Nothing. Bridda mette il tutto sotto forma di domanda: e voi cosa farete? Pubblicherete la recensione dei Wild Nothing in questi giorni o quando sarà uscito il disco? Difficile a dirsi, ma immagino che Bastonate non pubblicherà la recensione del disco di merda dei Wild Nothing, parlo senza averlo ascoltato MA avendo letto la recensione di Ondarock, prima della data di uscita ufficiale. Né dopo, credo, ma non si può mai dire. Ho scritto cose per entrambe le webzine, una parte del mio passato che non ricordo con orgoglio.

 

E dato che abbiamo iniziato a rompere i coglioni alle webzine, andiamo con una rapida rassegna di recensioni italiane del nuovo disco dei Baroness. Ora, il disco per quanto mi riguarda è una ciofeca prog anni settanta suonata con un briciolo di gusto e senza un briciolo di botta, con un approccio tipo “ora ti spiego il post rock e tu lo capirai anche se metallaro e ignorante” (che dopo dieci anni di Neurosis in tutte le salse mi sembra pure un po’ patetico). L’elenco serve a dimostrare quanto e come un disco per il quale è in corso un PLEBISCITO (di quelle che ho letto la stroncatura più violenta è quella di metalitalia, in numeri un 6,5) contenga in quasi tutte le recensioni un riferimento al fatto che è un disco che dividerà gli ascoltatori.

Intanto, il gruppo americano rimarrà vittima di un’antica contraddizione: se proponi sempre le stesse cose, sei monotono e pecchi di capacità evolutiva; ma se cambi strada e tenti qualcosa di nuovo, sbagli comunque e l’accusa è di aver ceduto la purezza artistica alle sirene del mercato. (metal.it)

“Yellow & Green” è quindi il disco che pone definitivamente i Baroness su un altro piano, rispetto al metal estremo e al post hardcore delle origini, e lo fa con lucidità e cognizione di causa, applicando strutture e concetti cardine della storia del rock al proprio stile originario, approdando a una sintesi stilistica inaspettatamente viva e fertile. (metallus)

Per ascoltare “Yellow & Green” ci vogliono orecchie nuove e maggiore sensibilità, bisogna riconoscere l’evoluzione del sound e i motivi alla base di questa scelta. Per gli scontenti ci sono sempre i dischi rosso e blu, per tutti gli altri “Yellow & Green” potrebbe essere un valido motivo per spendere ore e ore cullati dalla bellezza che solo la musica può offrire. (spaziorock)

grazie a una band come i Baroness è possibile che si inauguri una nuova stagione nel mondo della musica metal. Una stagione che dividerà, che creerà scompiglio, che farà perdere ai Baroness il pubblico più intransigente, ma farà loro guadagnare il rispetto di chi, anche dal metal, chiede un’evoluzione. Ed oggi, si dica chiaramente, i Baroness sono una delle forme più evolute di metal con la quale possiate confrontarvi. (sentireascoltare)

Non abbiate paura ad avvicinarvi a questo Yellow And Green: aprite la vostra mente ed ascoltatelo fino a farlo entrare in circolo dentro di voi, solo così riuscirete a mettevi in contatto con le anime di questa band eccezionale (che è vero non hanno ancora messo a fuoco perfettamente la propria strada, ma che sicuramente hanno dimostrato di sapersi mettere in gioco) (metallized)

Scandalo, capolavoro. Si sono venduti, anzi no, hanno fatto il loro miglior disco. No, no, è un album vergognoso, l’ho cestinato subito; però si sono rinnovati nel migliore dei modi. Stanno facendo come i Mastodon, sono meglio dei Mastodon. Abbiamo già sentito, e probabilmente sentiremo ancora a lungo, i pareri più disparati sul nuovo album dei Baroness, nome sempre più conosciuto che sta travalicando i confini del panorama sludge metal a cui era relegato. Alcuni giudizi ci sembrano affrettati, altri espressi con eccessiva presunzione, tanto perché al giorno d’oggi se non ascolti i Baroness sei un po’ “indietro” (però fino a pochi anni fa eravamo ancora quattro gatti a vederli, chi è indietro allora?) (gotr)

Il bello dei “nuovi” Baroness è, forse, anche questo: ascoltare capitolo per capitolo con viva e rinnovata curiosità, senza sapere bene dove porterà lo step successivo. Un genuino disorientamento che, se per alcuni sarà testimone di un decadimento mentale e qualitativo senza freni, per noi è il simbolo di quella decomposizione di cui in avvio: il salutare decesso dell’ordinarietà verso nuovi orizzonti, nuovi traguardi. (storia della musica, e questa è IMPORTANTE che ve la leggiate tutta, possibilmente sotto l’effetto di qualcosa)