Dischi stupidi: Is This Hyperreal?

Alec Empire sembra un cialtrone decerebrato, e gli si vuol bene anche per questo. In realtà la sua visione ha marchiato a fuoco gli anni novanta (e tutto quel che ne è derivato) come pochissimo altro; più prolifico di Scerbanenco, diecimila pesudonimi, sempre in moto, sempre pronto a collaborare con questo e quello, occhi e orecchie spalancati come voragini e ricettivi come paraboliche verso il mondo intorno, una curiosità inesauribile, pari soltanto al narcisismo tossico e a una volontà di ridefinire i confini della musica elettronica di qualsiasi tipo, forma e foggia (dalla techno alla musica concreta, dal rumore bianco all’ambient), l’uomo nato Alexander Wilke ha saputo essere produttore, imprenditore, DJ, squatter, ideologo, icona punk e uomo-copertina (per i dissociati), ha creato con il solo ausilio di macchine old skool e schede audio estrapolate da videogiochi scassati un genere (la breakcore o digital hardcore che dir si voglia) su cui legioni di nullità stanno ancora costruendo carriere, soprattutto, ha saputo fermare lo spirito del tempo in un’incarnazione tra le più vitali, irreplicabili e fieramente ignoranti di sempre. Gli Atari Teenage Riot (oltre a Empire un negro schizzato e una tipa che sembrava un travestito brutto) erano tutto questo: Berlino, la caduta del Muro, i rave. Puro spirito punk all’ennesima potenza declinato in salsa gabber, ribellismo a cazzo di cane in dosi da far cagare addosso Zack de la Rocha, testi sullo sloganistico spinto che al confronto i Discharge erano filosofi greci, riff campionati alla vecchia da dischi metal e non (dai Pantera ai Dinosaur Jr, tutto comunque sgamabile anche da un sordo), gran bailamme di 808 e 909 prese a pugni, un apparato iconografico che sapeva unire le fulminanti visioni cyberpunk dei Ministry degli anni belli a un modernariato pauperistico figlio di Tetsuo quanto di Jeff Minter quanto di Mimmo Rotella se fosse stato giovane ed eroinomane negli anni ottanta: se nel 1995 avevi tredici anni e una gran voglia di ascoltare musica che facesse incazzare gli insegnanti, questa era una vera e propria benedizione. L’apice lo raggiungono nel 1997 con No Remorse (I Wanna Die) assieme agli Slayer per la colonna sonora di Spawn (probabilmente il più brutto film su un supereroe mai realizzato; la colonna sonora non è molto meglio, ma il pezzo degli ATR spacca), nel frattempo era entrata in pianta stabile la giappo-ariano-texana Nic Endo, urla effettate, casino digitale e bella presenza; due anni più tardi 60 Second Wipe Out, stessa sbobba ma stavolta piace anche ai metallari, loro suonano al Dynamo e il video di Too Dead for Me gira nelle trasmissioni metal. Il merzbowiano Live At Brixton Academy 1999 (un solo pezzo di venticinque minuti di rumore fastidiosissimo) l’ultimo atto: pochi giorni prima dell’11 settembre Carl Crack muore, forse suicida. Il gruppo si scioglie, Alec Empire continua a fare uscire cose. Nel 2002 Intelligence & Sacrifice folgora simultaneamente sulla via di Damasco quel che è rimasto della stampa musicale italiana; il mega-marchettone collettivo non sortisce gli effetti sperati, l’interesse gradualmente scema e per i dischi successivi Empire torna a venire snobbato alla grande. Nel 2010 la reunion degli Atari Teenage Riot, oggi il nuovo CD. Al posto di Carl Crack c’è un altro negro, Hanin Elias non è della partita, dice che non ce la fa più a cantare; Alec Empire ha ancora il mascellone volitivo e sembra ancora la versione giovane di Lux Interior, e Nic Endo è sempre una gran figa – con o senza ideogrammi in faccia. Is This Hyperreal?, meraviglioso l’omaggio ai Wipers nel titolo, manco a dirlo è la stessa sbobba di sempre, riff metal rubati, slogan urlati e tutto il resto, e il fatto che esca a ridosso dei casini a Londra è una pura casualità; il valore aggiunto per noialtri vecchiacci è l’effetto-nostalgia, il ricordarci dolorosamente di un tempo in cui eravamo giovani e idealistici e animati da Giuste Cause a caso (Fuck the commercials! Burn down the system!!!, come recitava un biglietto da visita degli ATR del 1992, e crederci davvero). Però il disco è proprio brutto.

Badilate di cultura: “Precious”

 

Lee Daniels è un negro frocio, e te lo sbatte in faccia come se la cosa dovesse in qualche modo riguardarti. Produttore di roba problematica in odore di Oscar (lo stigmatizzante Monster’s Ball, che di Oscar ne portò effettivamente a casa uno, e lo sgradevole quanto gratuito The Woodsman, che invece non ha vinto un cazzo), Precious è il suo secondo film da regista dopo lo straordinariamente brutto Shadowboxer (un intricatissimo polpettone interrazziale e gerontofilo che non ci si capacita come sia potuto uscite da intelletto umano, con un cast che pare assemblato tirando a sorte; un flop epico pericolosamente dalle parti del so bad it’s good più spinto), ha rastrellato premi in ogni dove – tra cui due Oscar su sette nominations – ed è una porcata che nuovamente si fatica a credere. Tratto dall’astioso romanzo Push, opera prima (e finora unica) in prosa della poetessa negra bisessuale femminista incazzosa übermilitante Sapphire, il film prende le mosse dalla vicenda – agghiacciante – di Claireece ‘Precious’ Jones, sedicenne negra obesa semianalfabeta ripetutamente stuprata dal padre tossicodipendente e per questo già madre di una bimba con la sindrome di Down opportunamente battezzata “Mongoloid” (…), rimasta nuovamente incinta (sempre dal padre), espulsa da scuola una volta appreso della seconda gravidanza e odiata dalla madre obesa disfunzionale perché – sostiene la genitrice – le ha rubato l’uomo. Finisce in una scuola speciale insieme ad altre debosciate del ghetto che dicono un sacco di parolacce; la maestra è una lesbica molto in gamba che di nome fa Blu Rain (…). Claireece impara cose profonde e piene di significato. La maestra le porta al museo. Nel frattempo la madre (una mostruosa Mo’Nique, giustamente premiata con l’Oscar) continua a coprirla di insulti proferiti con cadenza, loquela e atteggiamento da rapper, le tira stoviglie addosso e la obbliga ad andare a ritirare l’assegno della previdenza sociale. L’assistente sociale è una sciattissima Mariah Carey (…), evidentemente convinta che la condizione necessaria e sufficiente per essere un’attrice seria sia recitare struccata indossando squallidi completini della Upim; Mariah subodora qualcosa a proposito dell’incesto, ma tace e continua ad allungarle l’assegno. Claireece ha le doglie; viene trasportata in ospedale. Sgrava. Decide di chiamare il secondogenito “Abdul”. In ospedale conosce un inserviente gentile (Lenny Kravitz, credibile come infermiere quanto può esserlo Rocco Siffredi nei panni di un seminarista). Torna a casa. Scappa di casa. Va a vivere in casa di Blu Rain e compagna (e qui parte un’allucinante tirata pro-gay che farebbe venire voglia di prendere le spranghe anche a Nichi Vendola). Mariah Carey organizza un incontro madre-figlia dove ‘Precious’ impara che il padre – nel frattempo morto – aveva l’AIDS. ‘Precious’ va a fare il test: è sieropositiva, ma Abdul non lo è. Monologo incoraggiante con voce fuori campo, titoli di coda.
Il materiale umano di partenza, come detto, era (è) profondamente perturbante e autenticamente scomodo, e non oso pensare che film sarebbe potuto uscire se le redini del progetto fossero finite in mano a gente con l’attitudine e il know-how necessari per trattare degnamente questa roba, penso a Werner Herzog, a Jaco Van Dormael (che avrebbe tirato fuori ben altro che le sequenze oniriche da ciarlatani che invece si vedono qui), al primo John Singleton, che diamine!, perfino a Ulrich Seidl; il problema è che Lee Daniels di concetti quali pietà umana o etica dello sguardo e della visione se ne strafrega, arciconvinto com’è dell’indiscutibile giustezza e inoppugnabilità della sua visione delle cose, e per questo si limita a sfruttare una storia che contempla abissi di dolore, isolamento, abiezione e orrore dalle potenzialità infinite unicamente per costruirci sopra un film rigidamente a tesi che al confronto il vecchio cinema civile italiano era roba da pavidi moderati con la diarrea nelle mutande, insopportabilmente saccente e manicheo, tracimante l’insostenibile arroganza e la ripugnante protervia di chi dall’alto di cattedre che non si capisce perché mai dovrebbero spettargli ti viene a spiegare come va il mondo. E per farlo non arretra di fronte a niente, è pronto a tutto, anche a utilizzare i freaks in modo strumentale (la protagonista Gabourey ‘Gabby’ Sibide, oltre 160 chili, scelta tra decine di aspiranti attrici obese tra i 18 e i 25 anni). Ne esce una favoletta schematica e superficiale, greve e normativa, sgradevole e respingente più che altro per l’ego ipertrofico e lo smisurato autocompiacimento del regista (e per un montaggio bruttissimo e urticante peraltro avvallato da un’incomprensibile nomination agli Oscar, l’ennesima), che mira in alto con boria e ostinazione per dire, alla fine della fiera, che i froci sono buoni e quasi nient’altro, risultando così alla fine paradossalmente insultante proprio verso le categorie che con foga da inquisitore si affanna a difendere (come se negri e gay in quanto tali avessero bisogno di di un Lee Daniels qualsiasi con la sua seriosità turgida e mortuaria per venire “difesi”). Il classico sparo nel buio, o qualcosa del genere. Nessuna meraviglia che al Sundance abbia fatto sfracelli.

MATTONI issue #10: LESBIAN

 
Vincono già dal nome, soprattutto in tempi in cui per non finire immediatamente nei peer-to-peer l’alternativa è tra stupidissimi termini di uso comune ricontestualizzati (tipo The Music, Girls, Tombs, ecc.) o sigle illeggibili piene di simboli criptici tipo triangolini e altre merdate a incasinare il tutto (tipo l’intero fenomeno witch house, che poi tra l’altro mica ho ancora capito di che cazzo si tratti, ma comunque). Loro scelgono una terza via: nome ultracomune e ultrabeota “perché quelli belli, tipo Black Sabbath o Venom, erano già presi“. Sono in quattro, hanno inciso per Holy Mountain (che già di per sè stessa è una bella garanzia di alterazione mentale) e a guardare la foto sul sito dell’etichetta sembrano, nell’ordine: un ciccione che ama i Neurosis, un professore ex-hippie col cervello fritto dai troppi acidi ai tempi dei fiori nei capelli, un immigrato clandestino e un buzzurro rissaiolo coi tatuaggi anche nel buco del culo. Insieme suonano uno strano incrocio tra sludge, doom old school e progressive metal, fangosissimo e lisergico eppure cronometrico e intricato al tempo stesso; immaginatevi, se riuscite, una sintesi tossica tra Dream Theater, Grief, Lake of Tears e Facedowninshit, sarete comunque piuttosto lontani da un’idea anche lontanamente esaustiva. Uno di loro, Dan La Rochelle, ha suonato la chitarra negli ASVA per un paio d’anni, magari questo dettaglio può essere di aiuto. Il primo album è del 2007; Power Hor, un gioiellino di psichedelia malata e deviante che con un buon cilotto sdruso di bella (o un paio di cartoni) a supporto è la morte sua. I numeri già dicono tutto: quattro pezzi per sessantadue minuti di durata. C’è già un bestione di quasi 25 minuti, Loadbath, ma non è il pezzo migliore del disco, e comunque a quei tempi Bastonate (con annessa la vostra rubrica preferita) ancora non esisteva. Sempre del 2007 è un ‘Tour EP” con un pezzo di quarantasette minuti (dal temibilissimo titolo, Fungal Abyss), che purtroppo non sono ancora riuscito ad ascoltare; ho invece mandato a memoria lo split del 2008 con gli Ocean americani (altro gruppo per cui vale la legge dei grandi numeri), ma purtroppo entrambe le compagini in quell’occasione mordevano decisamente i freni: ‘soltanto’ dodici e quattordici minuti le durate dei rispettivi pezzi.
Tornano ora con un nuovo disco fuori, Stratospheria Cubensis, titolo delirantemente pseudointellettuale, produzione paludosa del paludato Randall Dunn e artwork sideral-tentacolare del funghesco Seldon Hunt. Un disco che è un po’ il loro The Age of Adz: smodato, incontenibile, eccessivo, irraccontabile, radicalmente altro da sè e da tutto, con il brano più lungo posto alla fine a riassumere e a tirare le fila e a fornire il senso ultimo di un suono e un metodo compositivo che non asc0lterete altrove. Black Stygian è il nome del mattone finale, ventidue minuti di delirio psych-sludge-prog-doom da far precipitare dal cielo gli arcangeli con le trombe e schizzare dalle viscere della terra i diavoli coi tromboni, un’ininterrotta, sfrenata cavalcata della Morte ma con un cannone grosso come un carciofo incastrato tra le arcate dentarie; se esistesse un ipotetico mash-up tra Jerusalem degli Sleep ma con il tiro e senza la narcosi chimica, e A Change of Seasons dei Dream Theater ma senza i barocchismi e le leziosità e le tastiere d’avorio e la suddivisione in capitoli, magari reinterpretata dagli Eyehategod in jam alcolica con Fates Warning e (Men of) Porn, forse quel pezzo avrebbe il suono di Black Stygian. Veramente devastante.

 
 
PS STREAMO: http://lesbian.bandcamp.com/album/stratospheria-cubensis

Lavoro nel bordello di un castello

 
Avevo perso le tracce dei Cradle of Filth subito dopo Nymphetamine, che per carità non è neppure un brutto disco però a un certo punto anche basta, dai. E che tristezza ancora una volta il solito copione che si ripete tale e quale a sè stesso, passo dopo passo: il gruppo metal che firma per una major, la conseguente trafila di interviste corredate da foto stilose e infarcite di dichiarazioni sul genere “cercavamo un’etichetta capace di supportarci al 100%” o “nessuno ha provato a cambiarci, ci hanno lasciato piena libertà”, il disco che esce e i metallari non lo cagano perchè sta su major, la major che scarica il gruppo metal a calcioni nel culo non appena si rende conto che il disco ha venduto in sei mesi meno di quanto Britney Spears vende in un pomeriggio, il gruppo metal che abbassa le pretese, torna a firmare per una “indie” (con tutte le virgolette e i distinguo del cas(zz)o, ma è per capirci) e comincia a sfornare dischi in pilota automatico puro, scritti e eseguiti con la mano sinistra e con l’unico scopo di compiacere quella fetta di pubblico beota che possa garantire loro un sereno tirare a campare. Quel pubblico che caccia i soldi e quindi si aspetta, anzi pretende di sentire sempre la stessa merda, una pallida fotocopia degli esordi però senza un briciolo di cuore o di vita o di slancio verso qualcos’altro. E allora quel gruppo è finito. Negli ultimi anni quello stesso percorso era toccato ai Paradise Lost, ai Satyricon, agli Amorphis; soltanto i Satyricon sono riusciti a uscire dall’implacabile tritacarne dell’umano con parte delle ossa intatte e una credibilità non totalmente andata a puttane. Gli altri hanno deciso di rassegnarsi e continuare a tirare la carretta al fienile con improbabili “ritorni al metal” e via ad ammannire la merda di cui sopra. A ognuno il suo. E i Cradle of Filth non erano nemmeno il mio gruppo preferito, non stavano nemmeno tra i miei primi 500 gruppi preferiti, quindi sticazzi, perchè assistere allo spettacolo, perchè intristirsi? A dirla tutta non sono mai andato giù di testa per i Cradle of Filth, mi facevano simpatia le copertine porcellone, certo, e da quando ho letto che in Inghilterra avevano arrestato un tizio avrei veramente voluto indossare la maglietta con sopra la suora che si sgrillettava (purtroppo nell’unico negozio che la teneva stava a un prezzo assolutamente proibitivo, tipo 45.000 lire ma anche di più, ora proprio non ricordo), ma l’unico disco ad avermi mandato vagamente giù di testa è stato Cruelty & the Beast, il mio favorito, praticamente un album degli Iron Maiden però con una gallina sgozzata al posto di Bruce Dickinson; il resto, prima e dopo, era roba davvero troppo barocca e teatrale per i miei gusti, i pezzi sovraccarichi di trovate baracconesche da brutto musical, e inevitabilmente, una volta superata la soglia del quinto minuto, l’attenzione se ne andava affanculo e la voglia di sbattere su i Discharge o un Motörhead a caso diventava insopprimibile. Imparo ora che da dopo Nymphetamine hanno pubblicato altri tre dischi (di cui uno dedicato a un serial killer); l’ultimo è uscito da pochissimo, ha un titolo orrendo e una copertina timburtoniana, e sta in streaming integrale su AOL.com. Per me, è come rincontrare dopo tanti anni una compagna di scuola di cui non mi è mai fregato un cazzo.
Clicca qui per ascoltare l’album

 

 

STREAMO: Danzig – Deth Red Sabaoth

 
A ripensarci oggi sembra assurdo, ma c’è stato effettivamente un tempo in cui della carriera di Glenn Danzig importava qualcosa a qualcuno: quattro dischi-capolavoro uno dietro l’altro, un contratto di ferro e i videoclip in heavy rotation su MTV, copertine su tutte le riviste che contano, collaborazioni con Roy Orbison e Johnny Cash, due VHS finite dritte in classifica (come del resto tutti gli album e l’EP Thrall-Demonsweatlive) e, una volta terminato il sodalizio con Rick Rubin, una lotta a coltello tra le major per aggiudicarsi lo gnomo satanico a suon di dollaroni (la spunterà la Hollywood Records del gruppo Disney). Sono gli anni novanta e Glenn Danzig è il re del mondo. Poi, all’improvviso, l’incantesimo si spezza; chissà perchè, il bizzoso Glenn licenzia in tronco l’intera backing band storica e decide di occuparsi di tutti gli strumenti (a parte la sporadica collaborazione di Jerry Cantrell), stravolgendo completamente il suo stile nell’ignobile Danzig 5: blackacidevil. È il 1996 e, sull’onda lunga del capitale The Downward Spiral, l’industrial metal è tra le correnti musicali che vanno per la maggiore; Danzig l’abbraccia con entusiasmo totalizzante e convinzione incrollabile, ma il disco è talmente brutto, scombinato e drammaticamente privo di costrutto che ancora oggi non ci si crede. Fasciato da un inguardabile artwork ad opera di Joseph Cultice (fotografo ufficiale di Gary Numan tra le altre cose) quasi a preannunciare lo sfacelo, rigettato e boicottato dalla stessa casa discografica (che costringerà l’uomo a ri-registrare più di metà del materiale, nella vana speranza di ottenere qualcosa di anche solo lontanamente salvabile), la carica di profonda e inestirpabile insensatezza dell’insieme amplificata a dismisura dalla presenza in scaletta di un’incomprensibile cover di Hand of doom dei Black Sabbath (che con l’originale, manco a dirlo, non ha assolutamente nulla a che spartire a qualsiasi livello), blackacidevil è la disfatta su tutti i fronti: non vende un cazzo (meno di centomila copie in sei anni a fronte dei milioni di unità in pochi mesi delle precedenti uscite), viene massacrato dalla critica e tristemente ignorato dal pubblico, che abdica in massa il tour successivo (effettuato con una lineup messa insieme alla bell’e meglio, che – se la memoria non falla – comprende tra gli altri Tommy Victor dei Prong alla chitarra). Forte dei successi passati riesce a strappare a Sharon Osbourne un posto di tutto rispetto nella prima edizione dell’Ozzfest, la migliore (è il terzultimo a esibirsi, prima degli Slayer e Ozzy!), ma il suo show è poco meno che patetico. Da allora in poi, l’oblio (o quasi): contratti per etichette sempre più oscure (E-magine per 6:66 Satan’s Child, che almeno potè godere di distribuzione Nuclear Blast per l’Europa, addirittura Regain per un paio di sciattissimi DVD, fino al varo della propria label personale Evilive), copertura stampa inesistente, disinteresse ormai inscalfibile da parte di chiunque, ma soprattutto – ed è l’unica cosa che conta in fondo – dischi sempre più scalcagnati, grotteschi, tristi. Spine nei fianchi (ormai ridotti allo stremo) di chi non lo ha mai dimenticato. Il recentissimo Deth Red Sabaoth spezza un silenzio discografico durato sei anni (se si eccettua l’operatico Black Aria II emesso nel 2006 a nome Glenn Danzig); è un buon disco. Non è il primo omonimo o Lucifuge (tocca rassegnarsi, dischi così è già una fortuna se escono una volta), ma non assomiglia nemmeno alla merda degli ultimi, uh, quindici anni. C’è l’artwork fumettistico di Joe Chiodo, c’è una produzione fangosa da palude di New Orleans, c’è la voce da reincarnazione indemoniata di Elvis Presley che torna finalmente a graffiare. Soprattutto ci sono, di nuovo, i pezzi: dalla cavalcata di Rebel Spirits al madrigale On a Wicked Night, dalla morrisoniana Juju Bone all’epica suite in due parti Pyre of Souls – la prima ideale soundtrack per un horror di serie Z con zombi scarnificati e tettone urlanti, la seconda un numero dark di inusitata ferocia che cresce con un lirismo da far scappare via piangendo i Manowar di Into Glory Ride. Ma perchè fidarvi delle mie parole quando potete ascoltarlo con le vostre orecchie dalla pagina di AOL Music? Lo gnomo palestrato che odia Cristo è tornato, ed è tornato in forma abbastanza da reggere con scioltezza paragoni impegnativi e guardare finalmente senza rimpianti a un passato che, a molti, la vita l’ha cambiata davvero. Questa notte il mio stereo tornerà ad ospitare i primi quattro dischi di Danzig, uno dopo l’altro, senza soluzione di continuità. Un atto dovuto.

Tanto se ribeccamo: Sade

Sono già le cinque, è tanto che l’aspetto
Ocean Drive, Miami beach, che pacco c’ho vuoto il letto
Sade Sade Sade, odio ormai
Your love is king
Meglio Varazze, e l’Italia, e gli Eight-Eight-Three
(Mauro Repetto, Nervoso)

 

 

La citazione ben racchiude due elementi fondamentali per inquadrare il personaggio, il suo raggio d’azione e lo scopo della sua proposta musicale. Il periodo: quando Mauro Repetto scrive quel pezzo è il 1995, da qualche mese è uscito un punitivo The Best of Sade con conseguente implacabile riproposizione a spron battuto, da parte di milioni di stazioni radio, di gran parte del repertorio passato dell’artista, pezzi come – appunto – Your love is king che risale a undici anni prima. La situazione: il CD in repeat nel lettore, Repetto sta aspettando una squillo (probabilmente negra) seduto nel suo appartamento in affitto in una zona lussuosa di Miami. Ecco che inconsapevolmente Repetto ha riassunto in due parole la funzione dell’universo musicale di Sade: un sottofondo adeguato in attesa di una scopata di lusso. Da sempre, fieramente immutabile e stoicamente identica a sé stessa, Sade ha raccontato lo sforzo erotico nei quartieri alti, la sensualità prezzolata, il lato torbido del lusso e della lussuria nascosto dietro una patina illusoria di esorbitante opulenza. Sfarzo, esotismo da cartolina, atmosfere da film porno chic ambientato ai Caraibi, un senso di mollezza e lascivia che emerge in modo anche contagioso, sopra ogni cosa il caldo feroce e impietoso, spossante e defatigante, da vento del deserto alle due del pomeriggio, da rendere in pochi istanti canicolare anche il soggiorno di una casa senza riscaldamento in Lapponia, una condizione di costante ottundimento dei sensi e della ragione, in ogni caso roba al cui confronto Le mille e una notte diventa una cazzatella per cuori aridi, il Kamasutra roba da educande e il dubbio se dietro le serrande abbassate ci sia qualcuno che ha coraggio da vendere e fa l’amore assolutamente pleonastico. Dopo venti secondi di un suo brano qualsiasi anche l’essere più orribile della terra si sentirebbe il più arrogante fottuto pornodivo miliardario in circolazione; nessuna meraviglia che i suoi dischi si vendessero come il pane, e si siano continuati a vendere senza la minima difficoltà anche quando il martellamento radiofonico era terminato da un pezzo. Perfino in tempi di peer-to-peer e downloading più o meno illegale un nuovo album di Sade (Lovers Rock, 2000) ha raggiunto in poco tempo e senza sforzo il triplo disco di platino, segno che il suo inimitabile trademark da jazz club sotto sedativi, del tutto impermeabile a condizionamenti esterni, continua a raccogliere consensi evidentemente non solo tra facoltosi ultraquarantenni dal portafoglio pingue e un enorme sigaro dall’effluvio pestilenziale perennemente acceso. Nel 2002 tuttavia, poco dopo la sua ultima apparizione pubblica (in occasione dell’assegnazione del titolo di Ufficiale da parte dell’Ordine dell’Impero Britannico), si chiude in un impenetrabile isolamento salingeriano (ma senza insidiare epistolarmente nessun suo giovane ammiratore). Il ritorno discografico è recentissimo, e inaspettato come uno sparo nel buio: Soldier of Love esce in tutto il mondo l’8 febbraio scorso, anticipato dall’omonimo singolo diffuso due mesi prima tramite il sito ufficiale. Nulla è cambiato, allure desertica, sinuosità pornesche e pompa costantemente ai limiti del kitsch comprese; stesse movenze, stessi collaboratori, stessa voce da pantera narcotizzata. E stesso successo: pare che l’album abbia venduto più di mezzo milione di copie negli Stati Uniti soltanto nella prima settimana. Di questi tempi, è un risultato fantascientifico. Chiunque sia in attesa di donne squillo ora sa cosa metter su.