Tanto se ribeccamo: Sade

Sono già le cinque, è tanto che l’aspetto
Ocean Drive, Miami beach, che pacco c’ho vuoto il letto
Sade Sade Sade, odio ormai
Your love is king
Meglio Varazze, e l’Italia, e gli Eight-Eight-Three
(Mauro Repetto, Nervoso)

 

 

La citazione ben racchiude due elementi fondamentali per inquadrare il personaggio, il suo raggio d’azione e lo scopo della sua proposta musicale. Il periodo: quando Mauro Repetto scrive quel pezzo è il 1995, da qualche mese è uscito un punitivo The Best of Sade con conseguente implacabile riproposizione a spron battuto, da parte di milioni di stazioni radio, di gran parte del repertorio passato dell’artista, pezzi come – appunto – Your love is king che risale a undici anni prima. La situazione: il CD in repeat nel lettore, Repetto sta aspettando una squillo (probabilmente negra) seduto nel suo appartamento in affitto in una zona lussuosa di Miami. Ecco che inconsapevolmente Repetto ha riassunto in due parole la funzione dell’universo musicale di Sade: un sottofondo adeguato in attesa di una scopata di lusso. Da sempre, fieramente immutabile e stoicamente identica a sé stessa, Sade ha raccontato lo sforzo erotico nei quartieri alti, la sensualità prezzolata, il lato torbido del lusso e della lussuria nascosto dietro una patina illusoria di esorbitante opulenza. Sfarzo, esotismo da cartolina, atmosfere da film porno chic ambientato ai Caraibi, un senso di mollezza e lascivia che emerge in modo anche contagioso, sopra ogni cosa il caldo feroce e impietoso, spossante e defatigante, da vento del deserto alle due del pomeriggio, da rendere in pochi istanti canicolare anche il soggiorno di una casa senza riscaldamento in Lapponia, una condizione di costante ottundimento dei sensi e della ragione, in ogni caso roba al cui confronto Le mille e una notte diventa una cazzatella per cuori aridi, il Kamasutra roba da educande e il dubbio se dietro le serrande abbassate ci sia qualcuno che ha coraggio da vendere e fa l’amore assolutamente pleonastico. Dopo venti secondi di un suo brano qualsiasi anche l’essere più orribile della terra si sentirebbe il più arrogante fottuto pornodivo miliardario in circolazione; nessuna meraviglia che i suoi dischi si vendessero come il pane, e si siano continuati a vendere senza la minima difficoltà anche quando il martellamento radiofonico era terminato da un pezzo. Perfino in tempi di peer-to-peer e downloading più o meno illegale un nuovo album di Sade (Lovers Rock, 2000) ha raggiunto in poco tempo e senza sforzo il triplo disco di platino, segno che il suo inimitabile trademark da jazz club sotto sedativi, del tutto impermeabile a condizionamenti esterni, continua a raccogliere consensi evidentemente non solo tra facoltosi ultraquarantenni dal portafoglio pingue e un enorme sigaro dall’effluvio pestilenziale perennemente acceso. Nel 2002 tuttavia, poco dopo la sua ultima apparizione pubblica (in occasione dell’assegnazione del titolo di Ufficiale da parte dell’Ordine dell’Impero Britannico), si chiude in un impenetrabile isolamento salingeriano (ma senza insidiare epistolarmente nessun suo giovane ammiratore). Il ritorno discografico è recentissimo, e inaspettato come uno sparo nel buio: Soldier of Love esce in tutto il mondo l’8 febbraio scorso, anticipato dall’omonimo singolo diffuso due mesi prima tramite il sito ufficiale. Nulla è cambiato, allure desertica, sinuosità pornesche e pompa costantemente ai limiti del kitsch comprese; stesse movenze, stessi collaboratori, stessa voce da pantera narcotizzata. E stesso successo: pare che l’album abbia venduto più di mezzo milione di copie negli Stati Uniti soltanto nella prima settimana. Di questi tempi, è un risultato fantascientifico. Chiunque sia in attesa di donne squillo ora sa cosa metter su.

Cose sceme: 8-BIT METAL

Il mio amico Giorgio mi rompe il cazzo da un paio d’anni con un gruppo svedese chiamato Hellsongs, una specie di versione nordica dei Nouvelle Vague con il twee pop al posto del lounge e il metal al posto della new wave. Rimane invariata la qualità della musica, ma è un altro discorso. Non ho mai saputo bene come rispondergli, finchè nel mio giro settimanale alla ricerca di altri video dei Pantera non mi sono imbattuto in questa sottocultura youtubica di cover metal ad otto bit, nuovo record del mondo di assenza di vergogna. Questo post è idealmente dedicato a Luca, uomo di metal epico e musica ad otto bit. Top ten casuale:


AC/DC – Thunderstruck, tipico pezzo per caricarsi -quindi all’inizio. Essendo solo strumentali, in realtà al secondo minuto ne hai abbastanza.


Black Sabbath – Paranoid.  Da silenziare il vostro Space Invaders in flash per spararla a tutto volume come colonna sonora. Al terzo muro arriva la prima crisi cardiaca (nella parte finale è quasi deep-house)


Pantera – Cowboys From Hell. Io son partito da qui. Il diavolo è nei dettagli, e i break sono praticamente tutti IDENTICI, solo ad otto bit. Strepitoso.


Daft Punk – Aerodynamic. L’originale per me è il pezzo epic metal degli anni duemila, ma posso capire che possa essere una suggestione molto personale. Quando ho visto che c’era l’ho piazzata subito, aspettare un minuto per sentire com’era reso l’assolo è stato un’eternità.


Europe – The Final Countdown. Nessuna differenza con l’originale, tranne che non c’è la voce di Joey Tempest. Scusa se è poco.


Cannibal Corpse – Hammer Smashed Face. GABBER. Il pezzo-fomento della playlist.


Metallica – Master Of Puppets. Epicità grossa, cazzi in culo al vivere civile. Qualcuno la dia a Neveldine e Taylor, se gli viene di fare Crank3 questa DEVE stare sui titoli di testa.


Nirvana – Sliver. Altro pezzo non-metal, ma mi ci immagino un bambinetto che corre a palla e uccide i ragni giganti con la clava.


Deep Purple – Smoke On The Water. Inizio torrenziale, i primi trenta secondi potete pure skipparla. Del resto penso la stessa cosa dell’originale.


Slayer – Raining Blood. La miglior 8-bit cover  della storia.  Scariche statiche al posto della pioggia all’inizio, riff perfetto, stare bene subito. Mi si mandino gli mp3 e mi si trovi una serata.

Excepter – Presidence

La musica di Excepter è una delle proposte più spinose della scena di rumore di Brooklyn, non offrenti appiglio facile per quelle che tentano di sintonizzare nella loro lunghezza d’onda nebulosa. I loro inceppamenti longform e improvvisati non sono sradicati in alberino-punk o psych-non schioccano come quelli dei loro dadi del nero dei vicini e collettività animale.

Gugolando* ‘excepter presidence’ esce come primo risultato una recensione inglese tutta ispirata, ed inserendola in Babelfish ecco quanto ne esce fuori. Il motivo vero è che The Scrivere questo Thee Sco, viaggio-acido fattone d’altri tempi, canna fumata a tarda notte alla fine solitaria di Via dei Sabelli, o più semplicemente ambient free-form che ricorda, che so, la musica che potrebbe essere diffusa dagli altoparlanti aspettando un concerto degli Animal Collective, è davvero difficile se si vuole evitare di utilizzare riferimenti di per sé insignificanti.

Non saprei descrivere a dovere la carriera degli Excepter: naturalmente come tutti i senza-vita e i nosferati di questo mondo conoscevo a

I simpatici Excepter

memoria Throne, del 2005, ben prima che gli Excepter esplodessero come vero e proprio fenomeno popolare -anzi POPolare come scriverebbero le riviste di muzika vere- con Sunbomber e poi, soprattutto, con Alternation; ma wikipediando ‘excepter’ in lingua inglese scopro orora con orore che da quel disco di facili motivetti estivi mi sono perso ben nove pubblicazioni lorde, che diventano mi sembra ben tre LP netti più un sacco di altre cose in mezzo. Ma ora, fermiamoci un attimo e ragioniamo: come si può parlare degli Excepter senza conoscerne le limited cassette releases? Sfuggono il senso del tutto, il quadro generale, il significato, la visione storica di un processo che porta una band di drogati a realizzare oggi un doppio cd di UUUOOOAI UOOOOEA, cioè suoni sali-e-scendi o anche pezzi (mattoni) di 20 minuti e più che dopo intro en passant di seicento secondi di rumore statico cambiano improvvisamente e diventano rumore non statico. Insomma, ammetto che tutto ciò che scriverò a proposito di Presidence non è circostanziato da una reale e approfondita conoscenza della nuova scena minimal-wave americana. E se condivido con voi il disprezzo profondo della norma e dei pezzi troppo facili e però, d’altra parte, non voglio finire nel facile albertosordismo del ‘so’ tutte ciofeche, so’ mejo ‘e canzoni, aridatece i guitar solo’, è davvero arduo parlare di un album del genere come se in qualche modo se ne dovesse consigliare o sconsigliare l’acquisto (so che non siamo a questo, nessuno ha più bisogno di nessuno per ascoltare nulla, in genere l’idea è più o meno: scaricateli tutti e poi Dio deciderà).

Ma proviamo a farla facile: Presidence è un set di due cd molto diversi tra loro. Se il disco è scaricato, diciamo che si avverte una certa differenza tra i pezzi 1-8 e quelli successivi, tutti molto lunghi tranne l’ultimo (si va dai 10 minuti della suggestivamente intitolata The Anti-Noah alle mezzore di Og e Presidence) e alquanto diversi tra loro. A volerla prendere con disincanto, si tratta in sostanza di cazzeggio per synth e drum-machine ed EEeEecOOOoodivOOCIIiii ed altri suonini inquietanti prodotti da non so quali aggeggi; a prenderla con serietà, si potrebbe dire che, se si vogliono evitare i riferimenti oscuri cui accennavo prima tipo che so, la No Neck Blues Band in collaborazione con Embryo, o The Sunburned Hand of the Man (che sì, lo so che queste sono vere e proprie rockstar per noi esseri anomali: ma a volte tocca venire a patti con la consapevolezza che c’è un mondo là fuori) , il massimo del popolare che mi viene in mente per descrivere questi suoni sono i Tangerine Dream del periodo pre-popolare. Quindi, un cazzo: è tutta una questione dello scegliere pregiudizialmente da che parte stare.

Ad essere filosofici, la questione sarebbe forse: ‘perché ascolti questo genere di musica, o perché ascoltano musica affatto?’ (la domanda è stata formulata in inglese e poi tradotta con Babelfish, assumendo così un tono sperimentale). Rispondere non è facile: si può davvero ascoltare un disco come questo? Ossia, aspetti meccanicistici a parte, è possibile trovare piacere nel gelido sperimentalismo minimale degli Excepter auto-spogliatisi di quelle parvenze di orecchiabilità delle loro precedenti uscite di metà decennio? Io, che pure di musica del genere ne ho ascoltata davvero tanta prima della pensione (ora apprezzo i Baustelle e tardi dischi di Tom Petty), penso – so – che può essere davvero bello, in una tarda notte di un giorno feriale, ritrovarsi con la sola compagnia di sparuti freaks & ghouls (ghosts & goblins) in un locale misconosciuto, gelido o caldissimo, e abbandonarsi al viaggio mentale e sonoro di un paio di ragazzi americani che improvvisano col synth a migliaia di anni luce da casa; e questa cosa so che la sanno tutti quelli che si sono trovati, che so, a un live notturnissimo dei Peeesseye o dei Black Dice. Dice quindi questa recensione inconcludente, che il nodo della questione sia se ascoltare un disco privandolo di tutto questo, o rimanendo all’oscuro di tutto questo, abbia un senso. Chi può amare Presidence già lo sa, ben prima di ascoltarlo: Das Zerstoren, Zum Geboren, direi con i New Blockaders (non so minimamente cosa significhi), o forse meglio, con Caetano Veloso, Um disco para entendidos.

Ashared Apil Ekur

—————————————————————————————————————————————————————–

* Tentativo sperimentale n. 1 (in linea col disco degli Excepter) di produrre un neologismo che sia al tempo stesso più letale e fastidioso del progetto musicale di Violante Placido che il diavolo se la porti via / dopo una lunga e sofferta malattia (dice il famoso sonetto)

MATTONI issue #1: Teeth Of Lions Rule The Divine

 

La cosa più significativa a cui i Sunn O))) abbiano mai preso parte non è uscita a loro nome. In altre parole: il disco migliore dei Sunn O))) non è dei Sunn O))). A fine 2000 Greg Anderson e Steven O’Malley salgono su un aereo e vanno a trovare Lee Dorrian per passare le vacanze di Natale insieme; il giorno dopo capodanno affittano uno studio di registrazione a Nottingham per 48 ore e ci si chiudono dentro a jammare senza sosta (la formazione è completata dall’ex-Iron Monkey Justin Greaves alla batteria). L’estate successiva Dorrian, assieme a Billy Anderson, screma il materiale e reincide parte delle vokills; questa è la genesi di Rampton, tra i dischi più ingiustamente dimenticati dello scorso decennio, sicuramente tra i più radicali e cruciali, forse l’unico capace di portare a un nuovo livello contemporaneamente doom, sludge e noise, a traghettarli nel terzo millennio meglio di chiunque altro e anni prima che la kritika ke konta scoprisse l’acqua calda sdoganando alla cazzo – per l’appunto – i Sunn O))). Rampton (che è il nome del famoso manicomio del Nottinghamshire, fondato nel 1912 e tuttora operativo) esce sotto la ragione sociale Teeth Of Lions Rule The Divine, che era il titolo di un pezzo degli Earth contenuto su quello Special Low Frequency Version che i Sunn tanto amano plagiare; il brano che apre l’album si intitola He who accept all that is offered (feel bad hit of the winter), è vagamente ispirato a una serie di brutti trip che colpirono Dorrian al ritorno da un micidiale lost weekend ad Amsterdam e dura mezz’ora. I primi nove minuti sono occupati da rullate di batteria spastiche quanto incontrollate, apparentemente prive di costrutto, su cui lentamente si dipana un feedback che inesorabilmente cresce in intensità rendendo l’atmosfera da freak show all’LSD ancora più opprimente, il senso di minaccia latente via via sempre più tangibile. La voce di Lee Dorrian, trasfigurata, deforme, immane, esplode sguaiata al decimo minuto, contemporaneamente all’eruzione di chitarra e basso, un’orgia di bassissime frequenze ad accompagnare un rantolo che non conserva più nulla di umano. Di quel che latra non si capisce niente, e probabilmente è un bene: le farneticazioni sono minuziosamente riportate parola per parola, con certosina pazienza, in un libretto allucinante dove confluiscono stile liberty, stampe del ‘500 e outsider art della più perturbante mai concepita, ma i testi scritti a mano in sghembi e diseguali caratteri gotici rendono la decifrazione un’autentica tortura per gli occhi. Il flusso di coscienza prosegue fondamentalmente inalterato per venti minuti che possono diventare ore, o giorni, non a caso il pezzo termina sfumando, rendendo impossibile determinare la durata effettiva di questo delirio che rimane ad oggi la cosa più emozionante e realmente estrema a cui 3/4 dei componenti abbiano mai preso parte (resta fuori, per manifesta superiorità, Lee Dorrian, già presente nel lato B di Scum, in From Enslavement To Obliteration e ideatore principale di quella pietra angolare del doom e della musica pesante in genere che è il primo demo dei Cathedral, In Memorium).

Con questo inizia una nuova rubrica di Bastonate, si chiama MATTONI e parla ogni volta di un pezzo diverso che duri 20 minuti o più.

DISCONE e/o Piccoli Fans – SLOATH(un post con gli asterischi e le parentesi)

Sloath are a sickly, unwholesome, long & short-haired five piece from the south coast of England, brought together by a mutual desire to play the slowest, loudest and heaviest music possible using guitars, bass, drums and chant-like vocalisations. Sta scritto nel sito di Riot Season, che ancora per un paio di giorni sarà la mia etichetta preferita. Ovviamente come bio è una forbita parafrasi per dire che questi Sloath suonano tipo Eyehategod –un genere estremamente frequentato di metal estremo, del quale gli Eyehategod sono tra i principali vessilliferi. Altri gruppi che suonano tipo Eyehategod sono cose tipo Cavity, Iron Monkey, Teeth Of Lions, metà del roster Southern Lord*, primi Boris ed altri gruppi a caso su questo genere. Se volete chiamarlo sludge non mi offendo, primo perché è il mio genere preferito (assieme agli altri mio genere preferito), secondo perchè ai tempi del metal io e m.c. avevamo pensato di aprire una webzine di settore e terzo perché tutto sommato è la musica che suonano. Giusto perché lo sappiate il disco tipo Eyehategod dell’anno scorso l’hanno inciso tali The Proselyte, questo almeno se state a sentir me. Quest’anno se la giocheranno altri gruppi, ivi compresi appunto i/gli/le Sloath. Il principale tratto distintivo tra un gruppo tipo Eyehategod e l’altro è il dosaggio delle parti doom e core del suono; essendoci parti core, tuttavia, per parti doom s’intende che i pezzi durano un disastro di tempo e i riff sono rubati ai Black Sabbath o a gente che rubava i riff ai primi Black Sabbath**. In buona sostanza il disco omonimo*** di Sloath contiene tre tegoloni arrogantissimi per un totale di quaranta minuti, roba che ti fa venir voglia di suicidarti e rinascere per poterti risuicidare nell’arco di una sola canzone. Come genere fate conto già difficile distinguere tra un pezzo e l’altro, figurarsi all’interno dello stesso pezzo. Comunque i primi due sono più fisici e l’ultimo (che dura come gli altri due messi assieme) è più riflessivo. E se mi puntassero una pistola alla tempia ordinandomi di trovare il parente più prossimo, probabilmente direi Electric Wizard (((cioè il cantante invece di urlare come una vecchia ((alla Mike Williams (il cantante degli Eyehategod)) recita litanie esoterico-wannabe registrate da dentro un tombino)))****. Oppure già che ho detto esoterico dirò anche Esoteric*****. Derivativissimo e stupidissimo, come tutti i miei dischi preferiti dell’ultimo periodo. Naturalmente, visto che l’LP****** uscirà il 10 aprile, sto solo immaginando come potrebbe suonare.

Gli asterischi:
*la metà buona.
**e poiché i gruppi tipo Eyehategod tendono a somigliare agli Eyehategod, TUTTI rubano i riff ai Black Sabbath, quindi quando nelle recensioni vi parlano di componenti doom significa soltanto che i pezzi durano molto.
***o anche eponimo, che come probabilmente sapete è un inglesismo sbagliatissimo che non dovreste usare, ma fa curriculum. Tutti quanti i giornalisti rock professionisti hanno detto eponimo, in un momento o nell’altro.
****il giochino delle parentesi è voluto. Le sto guardando e mi flippano un sacco.
*****dei quali, ricordo, faccio finta di non aver ascoltato l’ultimo disco
******sì, solo in LP. Ma se ve lo pappate vi regalano il link per il download digitale legale.

Dischi stupidi: Graveyard Classics

Perché non ci sono soltanto gruppi con nomi stupidi, esistono anche dischi stupidi, e come! Un buon esempio sono i cover album, categoria profondamente e irredimibilmente stupida già in sé e per sé – a parte rarissime e circostanziate eccezioni. E quale modo migliore per inaugurare una rubrica che parla di dischi stupidi se non presentando un gruppo che di cover album nella propria carriera ne ha incisi addirittura tre? Autori di tali misfatti sono i nefandi Six Feet Under, vecchia e blasonata conoscenza dei più coriacei death metallers di lungo corso; soltanto questi ultimi infatti sapranno ricordare che il gruppo inizialmente nasce come progettino-passatempo di due tra i più fieri e rispettabili esponenti del genere, ovvero Allen West, chitarrista e mente principale dietro agli Obituary, e Chris Barnes, mugghiante vocalist dei Cannibal Corpse – inventore di uno dei gurgling più bestiali e impareggiabili che si siano mai sentiti. La formazione era completata dal bassista Terry Butler (per cinque minuti nei Death, poi nei Massacre americani), e da tale Greg Gall alla batteria. Iniziano nei primi anni novanta esibendosi nei pub, tra una tournèe e l’altra dei rispettivi gruppi principali; il loro repertorio è composto esclusivamente da cover. Improvvisamente la faccenda si fa seria: con gli Obituary momentaneamente congelati e un allettante contratto per Metal Blade che si profila all’orizzonte, scrivono e registrano in poche settimane il debutto Haunted, un’autentica gemma di puro american death metal alla vecchia, prodotto a regola d’arte da Scott Burns e uscito quasi in sordina in un momento in cui la scena statunitense era ancora prodiga di capolavori (era il 1995, dello stesso periodo – per citarne soltanto alcuni – Domination dei Morbid Angel, Once Upon The Cross dei Deicide e Symbolic dei Death…); il disco, molto obituariano nel songwriting (quasi tutte le idee migliori erano farina del sacco dell’introverso West), oltrepassa in breve tempo la cifra folle – persino per i tempi – delle 80.000 unità vendute. È lo scisma: Barnes molla i Cannibal Corpse nel bel mezzo della lavorazione di un album che si sarebbe dovuto intitolare Created To Kill – poi abortito (parte delle sessions di registrazione si potranno udire, con un paio di lustri di ritardo, nel mastodontico cofanetto celebrativo 15 Year Killing Spree) – per concentrarsi esclusivamente sui Six Feet Under; ma non ha fatto i conti con il volitivo carattere dello spelacchiato West, che progressivamente perde interesse nel progetto e, tempo un inutile EP mezzo studio mezzo live (Alive and Dead, con la cover di Grinder dei Judas Priest) e il fiacchissimo e vagamente spinelloso successore Warpath (1997, con il simpatico inno alla marijuana 4:20), lascia il gruppo per tornare a pieno regime negli Obituary (e poi quasi scioglierli, ma questa è un’altra storia). Con un nuovo chitarrista privo di nerbo e le redini della band in mano al solo Barnes (che nel frattempo deturpa il suo invidiabile look da fotomodello rustico adulterando la sua folta e lucida chioma in un incoerente ammasso di dread stopposi e bisunti, da zecca da centro sociale), i Six Feet Under scivolano lentamente ma inarrestabilmente in una mediocrità da gruppuscolo infimo fatta di dischi tutti uguali, sempre stantii e sempre (più o meno) demotivati e indistinguibili. Con una particolarità: tra un dischetto inciso svogliatamente e frettolosamente dimenticato e l’altro, ogni tanto rispolverano la loro antica vocazione e, in maniera assolutamente randomica, infilano una raccolta di cover di brani hard rock, punk e/o heavy metal old school rivisitati con i chitarroni ipercompressi e il vocione gorgogliante, per tutto il resto esattamente identici agli originali. La serie (perché arrivati al terzo capitolo è di serie che diventa giusto parlare), dal tutt’altro che benaugurante nome di Graveyard Classics (lett. “i classici del cimitero”), viene inaugurata da un primo volume pubblicato nell’autunno 2000 dalla solita Metal Blade. La scaletta pare uscita dagli incubi peggiori di un lettore di Mojo uniti alle fantasie sfrenate di una testa metal impazzita nel mezzo degli anni ottanta: brani di Angel Witch, Deep Purple, Scorpions, Black Sabbath, Savatage, Venom, Accept e perfino Jimi Hendrix e i Monkees, con i Dead Kennedys in mezzo a fare da manicomiale trait d’union. Nell’edizione limitata rincarano la dose con brani di Kiss, Thin Lizzy e una traumatizzante rilettura di Wrathchild degli Iron Maiden. Tutti i pezzi, è bene ribadirlo, differiscono dagli originali unicamente per la compressione delle chitarre e un atonale gorgoglìo stile sciacquone del cesso (guasto) al posto della voce. Ma il meglio, concettualmente parlando, i Six Feet Under lo tengono in serbo per il secondo capitolo, in occasione del quale imbastiscono con straordinario coraggio e donchisciottesco sprezzo del ridicolo un’operazione che supera di diverse lunghezze l’inutilità assoluta, decidendo di riproporre nientemeno che l’intero Back In Black degli AC/DC canzone per canzone, nota per nota. Siamo ben oltre il raffinato giochino situazionista residentsiano, e il gesto potrebbe risultare ben più complesso e teorico di quanto sembri se solo non si conoscesse l’estrazione e il raggio d’azione del gruppo. Resta comunque una delle riflessioni più radicali (e assai probabilmente involontarie) sul concetto stesso di cover album; nemmeno i Laibach sono mai arrivati a tanto, e se soltanto i Negativland avessero avuto la stessa idea oggi forse la SST esisterebbe ancora.
Il terzo – e finora ultimo – volume di Graveyard Classics è di recentissima emissione (è uscito il 14 gennaio), e torna a presentare una scaletta variegata come nel primo; si tornano a coverizzare brani a random dunque, e il trattamento questa volta tocca, tra gli altri, a Mercyful Fate, Exciter, Metallica, Slayer e Anvil (una commovente Metal on metal) come a Van Halen, Ramones e Bachman Turner Overdrive (…). In chiusura l’inaspettato omaggio ai Prong (una delle band in assoluto più sottovalutate di sempre) con la loro Snap your fingers, snap your neck.
Se qualcuno si è mai chiesto come potesse suonare una cover band death metal, ebbene i Graveyard Classics forniscono la più eloquente delle risposte; resta il fatto che mi piacerebbe conoscere la faccia di chi compra questi dischi (oltre alla mia).

Liars – Sisterworld (non-recensione)

Non ho ascoltato neanche una nota del nuovo album dei Liars, o perlomeno molte poche (un solo pezzo, una sola volta, due mesi fa, zero attenzione), ma ho appena effettuato il pre-order purchase VAT non included + postage (Postgate) e secondo la proprietà transitoria degli oggetti di scialo (libri, dischi, musicassette e dvd – ma questi ultimi solo nel caso di film noiosi) possedere un oggetto equivale a conoscerlo approfonditamente, dunque posso partire con la mia recensione pregiudiziale, che resterà peraltro la più autorevole su piazza a meno che non ci si decida a fermare un passante e chiedergli due parole a proposito.

Una recensione è peraltro inutile, dal momento che i Liars, come tutti i gruppi che “ce la fanno” partendo dal piccolo (ossia: dalla ficaggine vera e per pochi alla ficaggine pallosa comunemente accettata come tale, spesso chiamata Genio dagli sprovveduti), sono già destinati a essere album dell’anno. Questo perché tali band, di norma, fanno un disco-vabbè (il primo dei Liars/Von), un disco fichissimo che conquista i cuori degli Ascoltatori di fascia A (il secondo dei Liars/Agagaetis Burin), un disco bello ma levigato che si insinua nelle menti degli ascoltatori di fascia B, i B-scoltatori (Drums/Disco bianco co’ le parentesi intagliate), e a questo punto conquistano il mondo mandando tutto in merda con Takk, consegnandosi pienamente agli ascoltatori delle serie inferiori (usando la cavea dell’Auditorium di Roma come cavallo di troia), e dopo un altro disco o due i fan della prima ora li hanno totalmente rimossi, cioè neanche si preoccupano più se la band pubblica qualcosa (diciamo che dopo Takk, per quanto mi riguarda, i Sigur-Ròs avrebbero anche potuto fare cinquanta dischi, e forse l’hanno fatto, io non lo saprei in ogni caso perché li odio in pianta stabile e in pianta stabile mi occupo ormai di roots-folk e riscoperta dei Sepultura), e loro arrivano a Sanremo e quindi anche ai nostri nonni che apprezzano lo stacchetto dimostrando che la nostra famosa Musica Complessa Che Noi Amiamo è in realtà POPPETTONE FACILE che qualunque vecchio capisce in scioltezza, tale e quale a Poopaw e al Principe.

Nel caso dei Liars, già tre anni fa li avevamo lasciati lì lì per produrre il loro Takk, e proprio mentre noi soloni – cioè grandi sòle – del pop-rock eravamo pronti al massacro, e proprio mentre voi faciloni – cioè gente normale – del pop-rock eravate pronti a fare le file presso il miglior negozio di dischi della città (www.slsknet.org, o quei cazzo di distillati moderni che io non conosco tipo i torrent o lo scambio-file telepatico attraverso quelle piccole porte spazio-temporali che vi portate sempre dietro), ecco che tac!, i Liars se ne escono con un disco raw-rock (rawk) anni ’90, demodéissimo, con inserti di indie-hop malfatto e swingate basse e numeri di vecchio stampo hard-bop che a raccontarlo oggi non sembra neanche vero tanto era spiazzante nella sua semplicità, guadagnandosi in un colpo solo la medaglia d’argento di essere accolti con tiepidità (“Sette” e faccetta un po’ schifata e bigia) dai soloni, e quella d’oro di mantenere un pubblico ampio e schifoso ma senza che la genericità indie-moda si trasformasse in genericità e basta. Che poi io rabbrividirei se il mio pubblico fosse solo indie-moda o anche solo indie-indie o solone-solone, e sì, chiaro che anche il pubblico Feltrinelli mi farebbe schifo ma questo è un problema di per sé della razza umana: è bello avere un pubblico di per sé, poi il pubblico è disprezzabile per antonevrosi, quindi a quel punto tanto meglio che il pubblico sia tanto e pagante. Ma questo è un altro discorso.

Venendo a noi, cioè a Loro (intesi come Liars come si capisce dalla L maiuscola), il tempo è passato e pian piano si è riformata (almeno nella mia mente già infondata di per sé) la sensazione che il loro prossimo album, ormai imminente, sarà il famigerato Primo Disco dopo il Botto, ossia la Cacata-Alpha. Questo è chiaro da tanti piccoli indizi: innanzitutto lo penso io; poi il disco è stato promozionato tramite un sito tutto brillante yé-yé interattivo che sembra una di quelle trovate giovanilistiche che vengono usate per promuovere le iscrizioni alla Luiss; infine due mesi fa sentii per sbaglio mezzo pezzo ed era di quella subdola orecchiabilità geniale, cioè si insinuava a poco a poco e già dal terzo ascolto (cui mai sono arrivato) ecco che te lo stai cantilenando tra te e te, e certo che te lo cantileni tra te e te e non tra te e un altro perché sei talmente solo che il tuo stato è scritto con la zeta iniziale: zolo. Ma a poco a poco, col passare dei giorni e con gli ascolti che restavano a zero – dove sono ancora oggi perché io amo finanziare le lobby acquistando i supporti e il disco deve ancora uscire – ho capito che era appunto la zolitudine a farmi fare tali pensieri oscuri, è tutto un magna-magna e una paura di esporsi e di aprirsi al prossimo cedendo così parte della propria ricchezza solipsistica infantile, e se Freud fosse qui direbbe probabilmente YYYYAAAAAAAARGH e poi entrerebbero le percussioni a sostenerne il ballo folle per quarantacinque minuti di concerto. Insomma, cosa resta alla fine della giornata, o meglio all’inizio visto che ho passato tutta la notte a fare un collage di foto dei Miei Eroi? C’è che non ho ascoltato neanche una nota dell’ultimo disco dei Liars e ne ho parlato tuttavia per alcune migliaia di battute e ora sono certo che l’ultimo disco dei Liars sarà il miglior album dei Liars e bè, potrei anche averlo sentito questo benedetto disco, e poi guardo le tende che nascondono le porte e sulle tende c’è un cartello che nello stesso colore delle tende dice QUESTA NON E’ L’USCITA.

Ashared Apil Ekur